Ma andiamo a punteggiare

Non c’è nulla di così instabile come la crusca,
perché han fatto un’accademia così precaria?

Presenzio Astante [Alfredo Moreschi]
Presentiamo ora, per far sfoggio di cultura, una serie di dotti riferimenti sulla punteggiatura. Come, ma come non ricordare, l’olio su tela La doublure du sommeil di René Magritte? Ed Emilio Isgrò? Ed il lettrismo?
E come non rammentare, a proposito di segni d’interpunzione, che Paul Valéry ne voleva aggiungere, per segnare velocità pause cadenze toni contrazioni risonanze?
Ma andiamo a punteggiare.
Possiamo cominciare da Farfa, Noi miliardario della fantasia, La Prora, Milano, 1933. Egli verga poesie prive di punteggiatura ma generosamente lascia poi tutti i segni in fondo al volume, a disposizione del lettore, che li potrà eventualmente collocare come meglio crede.


Annota Achille Campanile, in Ma che cosa è quest’amore? (ora in Achille Campanile, Opere. Romanzi e racconti 1924-1933, a cura di Oreste del Buono, Bompiani, Milano 1989): “Per far passare dell’altro tempo l’Autore è costretto a mettere qui dei puntolini. Disgraziatamente, non ne ha che una trentina e, impiegati questi, sarà difficile trovarne altri, dato che, per il grande consumo che se ne fa nei romanzi d’amore, essi sono esauriti quasi del tutto. E, purtroppo, era uno dei pochi prodotti nel nostro paese. Ma quando ci vogliono, ci vogliono. Buttiamone giù la metà e non ci si pensi più”.
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Ora, per far passare il tempo, bisognerebbe escogitare qualche altra cosa. Ecco. L’Autore vi racconterà la storia del Suo viaggio a Rocca di Papa. Chi preferisse impiegare il tempo diversamente può saltare a piè pari la storia.


Per quanto riguarda gli effetti magici e catastrofici della punteggiatura, Gianni Rodari narra, nella poesia Como nel comò, compresa nel libro Filastrocche in cielo e in terra (ora in I cinque libri. Storie fantastiche, favole, filastrocche, Einaudi, Torino 1993):
Una volta un accento
per distrazione cascò
sulla città di Como
mutandola in comò.
Figuratevi i cittadini
comaschi, poveretti:
detto e fatto si trovarono
rinchiusi nei cassetti.
[…]


Sempre di Rodari, c’è l’ago maggiore, citato nella poesia Il museo degli errori, nella raccolta Il libro degli errori (Rodari, I cinque libri, cit.).


Giorgio Manganelli, in una pagina di Nuovo commento (Torino, Einaudi 1969; Adelphi, Milano, 1993)
Si sofferma sul punto e virgola: “Ora, io posso supporre che il testo sia integralmente compreso tra il punto di sopra, e la virgola al di sotto. Ma allora sarà da indagare il senso di codesti due confini: da un lato il punto traccerà un invalicabile termine, designerà un preclusivo fretum morti; dall’altro la virgola reciterà una patetica indeterminatezza, fornendo un donnesco rifugio, una baia sottovento, forse un tenero labirintico utero regressivo alla fuga del testo, le pavide mani levate a rifiutare l’abbagliante negatività del punto”.
Con quel che segue.


Ci gusta riportare infine una pagina di Camilla Tagliabue (Basta punti esclamativi!, apparsa sulla “Domenica” de “Il Sole 24 Ore”, 26 novembre 2017) a proposito di Anton Cechov, Igino Ugo Tarchetti, Emilio De Marchi, Il punto esclamativo e altri incubi ortografici, nota di lettura di Roberto Alessandrini, Edb, Bologna 2017: “Tralasciando i bambini e i poeti, sono solo tre le categorie di persone in grado di animare la grammatica; di darle letteralmente anima, cioè vita: i sognatori, i pazzi e i burocrati – protagonisti di altrettanti racconti di Anton Cechov, Igino Ugo Tarchetti ed Emilio De Marchi”.
Raccolte in un librino intitolato Il punto esclamativo e altri incubi ortografici, le spassosissime novelle prendono di mira uomini inguaiati con la dispotica grammatica: c’è lo scribacchino del sadico Cechov, accusato da un collega di «ortografia inconsapevole… Non basta che i segni d’interpunzione li mettiate correttamente! Bisogna metterli consapevolmente!». Il tapino passa così una terribile notte di Natale, in preda a sogni angosciosi di virgole e punti fiammeggianti: tra questi, è il punto esclamativo a terrorizzarlo di più poiché, in quarant’anni di servizio, egli non ne ha mai fatto uso.
Il protagonista dello Scapigliato Tarchetti nutre invece sentimenti d’odio nei confronti di una lettera – l’«orribile» U -, che tenta in tutti i modi di espungere dalla sua vita: preso per pazzo, finirà i suoi giorni in manicomio. Con la follia è imparentata la burocrazia: lo ricorda De Marchi nel surreale carteggio tra poste, tesorerie, ministeri. Nell’aprile del 1890 un impiegato chiede ai superiori di poter acquistare due gatti perché il suo ufficio è infestato dai topi. La lettera passa di direttore in direttore, ma il burocratese, come il telefono senza fili, gioca brutti scherzi: la richiesta di felini si trasforma infatti in un assegno per tal Gatti, a sua volta scambiato per il cassiere Ratti.
Tuttavia, nota Roberto Alessandrini, non tutti gli errori vengono per nuocere; anzi, l’«errografia» è spesso fonte di creatività, laddove da un refuso sboccia un’invenzione e da un malinteso una storia. È la lezione della Grammatica della fantasia di Gianni Rodari: lo sanno i bambini, prima ancora dei poeti.
L’ordine è prevedibile, il disordine è creativo.
Questo, per adesso. Fra un quarto d’ora non lo so.

Presenzio Astante [Alfredo Moreschi]
Note pittobibliografiche, a cura del curatore [Marco Innocenti] in Presenzio Astante, Manuale di depunteggiatura, editore lepómene, Sanremo, 2018, pp. 27-33