L’inesausto lavoro che Lalla Romano ha dedicato al tema della memoria

“Questo Diario – pubblicato in edizione ridotta nel ’59 presso un editore di Padova – è la relazione di un breve viaggio in Grecia compiuto da Lalla Romano nel ’57. Eugenio Montale definì allora questo libro come «un’opera discreta, qualcosa come una confessione privata. Nulla di turistico e di occasionale offusca il nitore del piccolo volume. È l’esperienza di chi, dopo aver sospettato che la Grecia fosse ormai “un libro” , scopre che la Grecia è invece un modo di vivere nell’eternità»”: Presentazione Einaudi

… la scrittura di Lalla Romano è esattamente una scrittura di memoria più che autobiografica: le due tipologie sono diverse. Anche quando l’autrice non è argomento del testo, la scrittura si confronta costantemente con il vissuto. Tutto ciò che si è vissuto (e vedremo più avanti che anche cioè che è fantasia, o sogno, è per Lalla Romano vissuto) viene ricompreso nell’architettura più ampia della memoria.
Nel Diario di Grecia (1974) si legge: “Dal finestrino rivedo, inquadrato, il molo solitario”. Pare già una memoria. E la sua malinconia è occidentale, nordica. <65
L’esperienza del vedere è la molla della scrittura: «cerco con gli occhi» dice a un tratto, stando attenta, per esempio, alle mutazioni anche impercettibili del paesaggio. Come vedremo dalle prossime citazioni, la luce ha un ruolo preponderante, mentre il mare diviene elemento del silenzio (è una piccola ossessione, questa per il mare, per il silenzio, che maturerà in Lalla Romano ancor più negli ultimi anni della sua vita). Un’altra presenza costante, è quella dei mezzi di trasporto («dal treno», «dall’Angelika»), delle date e degli orari ben precisi, ben scanditi, che collega questa prosa alle prime forme di scrittura di viaggio, facendola assomigliare a un diario di bordo, il diario delle spedizioni, delle navigazioni. Romano non vuole perdere il senso del tempo, non vuole lasciarsi sopraffare dal viaggio, che rischia sempre di far perdere a chi lo compie proprio la cognizione del tempo, o quantomeno di renderla precaria, oscillante. In viaggio, i momenti si accelerano, si dilatano. La velocità della scrittura, la paratassi e la paragrafazione insistite si accordano a tale natura diaristica da testimonianza di viaggio, mentre la forte qualità visiva, pittorica, della scrittura di Lalla Romano si esalta nella descrizione del paesaggio: ne risulta un particolare vedutismo scritto, tutto giocato – come si diceva – sul colore, i colori, le tonalità della luce, il rapporto con la meteorologia.

“Questo romanzo di Lalla Romano è una ricerca che si ispira alla parabola evangelica del buon samaritano. La ricerca è interiore ma compiuta rigorosamente sui fatti. È una storia “doppia”: tragica e rasserenata. Dal tempo e dalla memoria.
Il luogo è una cittadina ligure [Bordighera (IM)] di villeggiatura, con i suoi alberghi dagli arredi un po’ vecchiotti, le ville costruite dagli inglesi, la spiaggia di sassi, il mare d’inverno, la sede della Società di Mutuo Soccorso fra Pescatori, le siepi di gelsomino, i tramonti sulle colline e sulle montagne che segnano il confine con la Francia.
Lalla Romano insegue indizi, ritrovamenti e coincidenze di una storia famigliare dei primi decenni del secolo, cui il destino ha impresso il sigillo della necessità. Dalle vacanze di oggi, vigilate da un moderno samaritano, alle apparizioni di un personaggio leggendario ed elusivo, Alessio, gli occhi ardenti e il viso magro da arabo, segnato dal male misterioso e innominabile che avrà il conforto di un’altra samaritana, anch’essa capace di pietà vera.
Un romanzo sapienziale, ma anche di contemplazione della realtà. Una parabola sulla vita, in cui Lalla Romano concentra – in una scarna essenzialità – il suo stile di poeta e di pittore, la sua sensibilità per la musica e per il silenzio”: Presentazione Einaudi
Gli esempi sarebbero innumerevoli; mi limito a segnalarne un paio, tratti dalle prime pagine di Diario di Grecia, oltre che una «metamorfosi del mare» ligure, nel tardo In vacanza col buon samaritano, che può essere considerato – anche se non lo è esattamente – come libro di viaggio <66:
“Ogni campagna intravveduta all’alba dal buio e dal chiuso di un treno è un’apparizione di purezza: esangue, fredda. Ma l’alba nel Sud è calda, più che non sia nei nostri paesi l’aurora. Una dolcezza d’Oriente è in quell’aria, d’oro verde sono le foglie nuove della vite e del fico”.
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“Stiamo costeggiando Itaca, ci dirigiamo verso un porto. Le rive sono vicine: aspre, montuose, carsiche. Poco sopra l’orlo del mare corre un sentiero che sembra però naturale, non tracciato dall’uomo. Silenzio e deserto. Luce pomeridiana, un poco più calda ma non meno chiara della mattinale. La terra che traspare tra la pietraia bianca, è rossa”. <67
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“Grandi lampi.
Grandi spume bianche. Respiro grosso del mare, ma non ansioso.
Davvero come un mare del Nord.
Gabbiani volano molto alti.
«Personalità» dei cavalloni bianchi.
Mare verde grigio – cielo grigio morbido.
Il mare si gonfia per le onde come se «gonfiasse il petto»”.

“Il mare nero: le onde più stanche. Si vedono monti o isole sulle coste francesi, mai viste”. <68
Qui possiamo verificare come la scrittura di viaggio di Lalla Romano non proceda per accumulo, per enumerazione di esperienze e sensazioni come spesso accade nel genere. Seleziona invece momenti essenziali, rivelatori, come per una messa a fuoco di dettagli a posteriori; dettagli separati da spazi bianchi che sono come un alone di silenzio che risalti la potenza della scrittura. Ne nasce qualcosa che potrebbe ricordare il poema in prosa, un anti-romanzo fatto di lasse isolate di un poema ancora tutto da scrivere, dove lo spazio bianco riesce a dire, a comunicare come parole: si tratta di un’attitudine impressionistica che già, mentre si esercita, non può evitare di aprirsi a qualcos’altro, qualcosa come una nota che è invece espressionista: non approssimativa, ma anzi netta. Si potrebbe pensare a Turner: così Lalla Romano dipinge le sue quinte scolpite entro le quali fa poi muovere un paesaggio non soltanto naturale o urbano, ma umano <69.
Sempre, è in atto un distanziamento prospettico, un processo astraente <70 (trasfigurante, metamorfico), teso a conquistare una visione che – una volta trascritta – sia già memoria, e memoria di un sogno (così la Geografia sparisce, e resta soltanto la Storia), sebbene sogno inventato, poiché in realtà è esperienza vissuta.
Può apparire paradossale che il racconto di un viaggio compiuto abbia per titolo, appunto, «Un sogno del Nord»; e tuttavia, come si diceva, come non tenere conto del fatto che l’esordio di questa narratrice della memoria sia consistito in un “libro di sogni” (Le metamorfosi, 1951) <71? Si tratta di un libro che risentiva fortemente della vocazione poetica, e di quella artistica, di Lalla Romano; un libro accolto non bene dalla critica, «piaciuto – dirà poi la scrittrice – soltanto a Pavese e a Vittorini che allora lavoravano nella mia casa editrice, e in genere agli scrittori e ai poeti. […] i sogni, che tra l’altro sono una cosa molto reale, erano stati scambiati per una futilità» <72.
L’opaco rapporto che in Romano intercorre tra sogno e memoria può essere chiarito proprio da alcune riflessioni che la scrittrice elaborò per una riedizione delle sue Metamorfosi:
“Certo chi guardi al sogno come a un linguaggio autonomo, si priva di un rapporto drammatico – quello tra l’io e il sogno – ma attinge a un mondo più ricco. Legge il sogno con una curiosità non strettamente psicologica, ed è portato a sentire in esso echi e confluenze che vengono di lontano, da uno spazio più vasto dell’io. […] Il sogno è vissuto, in qualche modo; deve essere raccontato. Lo scrittore conosce appunto le cose raccontandole”. […]
Raccontando il sogno, si corre un rischio. Si può raggelarlo, da fluido, mobilissimo qual è. Come disse Moravia dei «fatti veri» che raccontati si afflosciano, muoiono come fiori recisi. Questo rischio è ineliminabile, ed è incomparabilmente maggiore di quello che si corre raccontando fatti, veri o inventati. Lo si supera (in parte) considerando che la relazione del sogno è un esercizio di tipo prevalentemente intellettuale. Lo è anche nel fatto che «rispetta» l’origine vitalistica, biologica, apparentemente casuale del sogno stesso.
Esiste una differenza importante fra la relazione di un fatto e quella di un sogno. La fantasia (come la memoria) astrae dalla realtà quello che le serve: il sogno ha già operato un’astrazione, consiste anzi in essa. (Forse in questo risiederebbe secondo alcuni la poeticità originaria del sogno?) Perciò nella relazione-traduzione del sogno non occorre lasciar cadere nulla. <73
Forse, tutto l’inesausto lavoro che Romano ha dedicato al tema della memoria, potrebbe essere spiegato a partire da queste pagine. A maggior ragione se si accetta di considerare Le metamorfosi come «l’autentica soglia dell’intera opera» <74, l’accento posto dall’autrice sul dovere del racconto («Il sogno è vissuto, in qualche modo; deve essere raccontato»), la sottolineatura dell’esercizio «di tipo prevalentemente intellettuale» operato nella «traduzione» del sogno, il rapporto astraente di questo con la realtà, tutto si salda alla riflessione sulla memoria e la completa: ” Memoria che è giusto chiamare figlia delle Muse (le opere sono questo). L’altra, la madre (Mnemosine) viene prima: è la memoria di ognuno. Nello scrittore è già creativa, in quanto è lei che fa la scelta iniziale. È la facoltà rivelatrice, la sensibilità. La mia memoria personale non ha altra legge che la sua necessità: è immediata, fulminea”. <75
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“[…] per uno scrittore la memoria e la fantasia sono la stessa cosa. La nostra memoria è la prima facoltà che trasfigura i ricordi e la fantasia è quella che permette di dar loro vita con le parole”. <76
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“Il tempo del sogno è come quello della fiaba: immemoriale, arcaico e insieme fulmineamente presente. L’analogia del tempo è anche quella dello stile. Lo stile della fiaba è secco, rapido, tutto-cose: così quello del sogno”. <77
63 Ivi, p. 39: «Ecco, a me, dei giornali, saltano agli occhi certi particolari. Quali? Quelli che fanno scattare la mia fantasia o memoria, che sono la stessa cosa».
64 Ivi, p. 7.
65 ROMANO, Diario di Grecia – Le lune di Hvar e altri racconti di viaggio, Einaudi, Torino 2003, p. 10.
66 Il libro è ambientato a Bordighera: non un lungo viaggio, ma un viaggio della scrittura, che si spinge fino a latitudini estreme, arrivando nelle ultime pagine a farsi rarefatta, isolata nel silenzio (ciò a cui sempre mirava Lalla Romano).
67 ROMANO, Diario di Grecia, cit., rispettivamente p. 5 e p. 17.
68 ROMANO, In vacanza col buon samaritano, Einaudi, Torino 1997, pp. 59-60.
69 Si pensi a Le lune di Hvar. Non è un romanzo, oppure sì: un romanzo tutto fatto di intuizioni-pennellate.
70 Si legge in ROMANO, Presentazione 1996, Nei mari estremi, Einaudi, Torino 2000, p. XI: «L’arte è astrazione».
71 Conviene ricordare che in Un sogno del Nord un capitolo si intitola “Un sogno di Rachele”; e ancora: il titolo di una «piccola memoria» della vecchiaia incentrata su un ricovero in clinica porta il titolo Ho sognato l’Ospedale (Il Melangolo, Genova 1995). L’ultimo capitolo, tra l’altro, si chiama “Metamorfosi” e su tale “antico” tema insiste.
72 ROMANO, Un sogno del Nord, cit., p. 179. Nello stesso testo, quasi a fare un bilancio della sua opera, l’autrice scriverà: «I sogni ritornano nei miei libri, coi miei personaggi, ma soprattutto in una certa maniera di vedere la vita».
73 ROMANO, Avvertenza, in Ead., Le metamorfosi, Einaudi, Torino 1967, pp. 9-11.
74 MASSIMO ONOFRI, Appunti per un ritratto di Lalla Romano, in Il sospetto della realtà, Avagliano, Cava dei Tirreni 2004, p. 179.
75 ROMANO, Un sogno del Nord, cit., pp. 196-197.
76 ROMANO, L’eterno presente, cit., pp. 67-68.
77 ROMANO, Le metamorfosi, cit., p. 12.
Paolo Di Paolo, La scrittura critica di Lalla Romano, Università degli Studi Roma Tre, 2012, pp. 53-58