Limitare al massimo con provvedimenti di polizia i contatti tra i nazionali e le indigene

Fonte: Storia in Network

Per evitare contatti promiscui furono inviate prostitute dall’Italia. Ma la richiesta era così forte che il governo decise di istituire case di tolleranza con ragazze di colore. Sulle quali i funzionari non mancarono di esercitare forme di abuso e sopraffazione.
Durante il fascismo nelle colonie italiane in Africa (Somalia, Eritrea, Libia ed Etiopia) la politica di separazione razziale colpì anche la prostituzione, con l’introduzione di postriboli riservati agli italiani con sole donne di razza bianca.
Il 5 agosto 1936 il Ministro delle Colonie, Alessandro Lessona, nelle istruzioni inviate a Badoglio, rilevò la necessità di imporre a tutti gli ammogliati di portare le famiglie in colonia, oltre a quella di organizzare postriboli, anche ambulanti, di sole donne di razza bianca: «… si impongono tre ordini di provvedimenti e cioè: 1°) Imporre a tutti gli ammogliati di portare la famiglia in colonia appena le condizioni di ambiente lo permettano. I capi devono dare l’esempio. Mentre prima si diceva che la colonia è per gli scapoli, in tempo fascista si dirà che la colonia è per gli ammogliati. In una seconda fase sarà anzi questo un requisito per poter andare in colonia. 2°) Limitare al massimo con provvedimenti di polizia i contatti tra i nazionali e le indigene. Siano immediatamente rimpatriati coloro – specialmente se funzionari o ufficiali – che convivono o praticano coniugalmente con indigene. Qualche buon esempio sarà salutare. 3°) Fino a quando le condizioni locali impongano la permanenza in A.O. di una grande massa di militari ed operai che necessariamente non possono recare seco la famiglia per varie difficoltà di vita, organizzare “case di tolleranza”, anche ambulanti, con donne di razza bianca, vietando assolutamente l’accesso agli indigeni».
Anche Guido Cortese, primo Federale di Addis Abeba (fino al giugno del 1937), segnalò questi problemi: «L’istituzione di case di tolleranza con elementi europei, non è stata potuta attuare per varie ragioni di forza maggiore, comunque tali case non potrebbero, almeno per ora, risolvere il problema di soddisfare le necessità di molte migliaia di giovani – soldati ed operai – qui residenti. D’altra parte la prostituzione indigena, senza controlli rigorosi, così com’è, crea conseguenze gravissime. Se sono esatte le notizie giunte alla Federazione, tra operai e soldati, già vi sarebbero parecchie centinaia di ammalati blenorragia e, sembra, oltre duemila luetici! Di questo passo avremo una generazione di tarati, debilitati nella procreazione e nel rendimento, tanto in Italia (nel caso che rimpatrino gli ammalati) quanto in A.O. (nel caso contrario). Il problema è troppo vasto e complesso per pensare di risolverlo subito e completamente, però si enunciano alcune provvidenze che, studiate da tecnici, potrebbero avviare a soluzione tale quesito. 1° Persecuzione spietata alla libera prostituzione. Il libretto-controllo per prostitute, non ha mai dato risultati positivi, né nelle Colonie Italiane, né in quelle estere (Marocco, Algeria, Tunisia, ecc.). 2°) Istituzione di tre o quattro centri di prostituzione nei quali vengano riunite (in case o tucul decorosi, puliti ed igienici) donne indigene. Ogni centro dovrebbe avere un piccolo ambulatorio anticeltico, il medico preposto dovrà conoscere e vigilare tutte le prostitute sotto il suo controllo ed isolare (anche durante il periodo delle cure antiluetiche) le ammalate. 3°) Proibizione assoluta agli uomini indigeni di frequentare i centri di prostituzione per bianchi. 4°) Riduzione al minimo necessario per gl’indigeni delle “teccerie” e proibizione assoluta agli italiani di comunque frequentare tali locali. 5°)  Invogliare le prostitute a rimanere raccolte in tali centri, con premi in denaro, casa gratis, luce o simili. 6°) Istituzione di case di tolleranza con elementi europei, per ufficiali, funzionari, ecc».
Si cercò, dunque, in tutti i modi di reclutare prostitute italiane, dando ordine anche alla polizia sanitaria di essere più tollerante. In vari momenti il governo italiano arrivò persino a mandare in Etiopia un grosso numero di “segretarie” reclutate “nei bassifondi delle città o in case malfamate”. Più di 1.500 di queste furono inviate nell’aprile del 1937 in Africa Orientale e a settembre oltre 200 spedite ad Addis Abeba e nell’Harar per divertire funzionari italiani “portando loro un po’di allegria”. Molte di esse trovarono anche marito tra i precedenti “clienti”.
Come si vede, ogni tentativo di organizzare case di tolleranza con sole ragazze bianche non produsse grossi risultati. Del resto, non mancò pure la preoccupazione di offrire agli occhi indigeni l’immagine, lesiva del prestigio della razza, di donne italiane che si prostituivano.
Così, nel 1938 risultavano presenti solo tre case di tolleranza ad Addis Abeba, con 47 prostitute italiane, una a Mogadiscio e una ad Asmara. Peraltro, prima di utilizzare italiane si cercò di trasferire nei bordelli ragazze francesi dando l’incarico ad una tenutaria di Marsiglia, ma le francesi, appena giunte a Gibuti, non ottennero dalle autorità di Parigi l’autorizzazione a proseguire e ritornarono in patria. Nella sola capitale le prostitute italiane non bastavano a fronte a 57.000 uomini italiani.
Si cercò perciò di ripiegare su meretrici nere. Solo ad Addis Abeba ne furono autorizzate ben 1500. Sul loro “tucul” veniva esposta una bandiera gialla se l’ingresso era riservato agli ufficiali e verde se riservato ai soldati e lavoratori italiani. Ma questi bordelli, peraltro privi di luce ed acqua corrente, non davano alcuna garanzia di igiene. Senza contare poi il problema della prostituzione occasionale e clandestina. Così, per prevenire le malattie veneree, si procedette alla distribuzione gratuita di profilattici a militari e operai o si propose la creazione, in ogni centro urbano, di un “villaggio di piacere” con prostitute etiopiche sotto attenta sorveglianza medica. Non mancarono, però, funzionari che cercarono di speculare anche su questo settore. E’ il caso del conte Della Porta che aveva interessi finanziari in vari bordelli. Persino ufficiali dei carabinieri e della polizia coloniale praticavano estorsioni e minacce nei confronti delle prostitute. Gli stessi ufficiali medici accettavano “bustarelle” per non relegare in sanatori le meretrici malate di sifilide.
Sulle bandiere esposte agli ingressi dei “tucul”vi è la testimonianza dell’allora ufficiale Pino Di Luca il quale ricorda che ve n’erano già nel gennaio 1936 ad Axum, ben prima della vittoria italiana in Etiopia, riferendo anche alcuni piccoli episodi di truffa ai danni delle “sciarmutte”: «I militari di stanza ad Axum erano tanti che il comandante del presidio fu costretto ad emanare un’ordinanza che prescriveva l’esposizione, davanti all’ingresso dell’abitazione di una sciarmutta, di una fiamma (del tipo di quelle dei nostri cavalleggeri) di un colore diverso a seconda che vi venissero ammessi gli ufficiali o i soldati italiani oppure le truppe di colore […]. Dopo pochi giorni quasi tutta la cittadina apparve imbandierata con vessilli gialli, rossi o neri. Questi erano i colori prescritti nell’ordinanza. […] I nostri baldi guerrieri non si lasciavano sfuggire l’occasione per dimostrare ancora una volta (posto che ce ne fosse stato bisogno) la loro geniale inventiva: cominciarono ben presto a compensare le fanciulle di vita con biglietti scaduti della lotteria nazionale al posto delle dieci lire… erano troppo somiglianti. Vivaci dure proteste giunsero ai nostri comandanti, che, sebbene in più gravi problemi affaccendati, emanarono minacciosi editti contro i truffatori vili ma geniali».
Ma ritorniamo agli anni dell’amministrazione italiana. Con l’aumentare del numero dei bordelli con ragazze nere, crebbe l’immagine della nativa come “donna di mal’affare”.
Questa raffigurazione non eliminava, naturalmente, il vezzo, da parte dei funzionari italiani, di approfittare sessualmente delle indigene. Lo stesso generale Guglielmo Nasi denunciò la pretesa di alcuni di essi ad esercitare una sorta di “ius primae noctis” o altre sopraffazioni. Così scrisse il 2 agosto 1938: «Per conoscenza e buona norma comunico che ho inflitto 10 giorni di rigore ad un ufficiale in servizio civile col motivo: “In funzioni di vice-residente dava mandato ad un gregario di procurargli una donna indigena che, se pur di facili costumi, sapeva coniugata; e in seguito addiveniva ad atti di imperio inopportuni nei confronti del padre di lei”. Ho inoltre disposto che egli sia esonerato dal servizio civile».
Non mancarono casi di ragazze nere minorenni che si prostituivano. E ve ne furono anche negli anni seguenti. Di taluni episodi si trovano le tracce in alcune lettere scritte da soldati italiani nel 1940 e censurate dalla polizia. In una l’autore si rammaricava di doversi “accontentare delle nere”, tra le quali, comunque, si trovavano “tipi abbastanza carini” al costo di “lire 5”, mentre chiedevano “lire 10” ragazze nere di “12/13 anni”. In un’altra lettera un soldato raccontava di avere rapporti sessuali “da parecchio” con “una scioana di circa 12 anni” che aveva, però, “l’aspetto delle nostre ragazze quindicenni”. Anche il tenente Indro Montanelli, a guerra ancora in corso, ebbe rapporti con una ragazza di 14 anni. Gliela procurarono i suoi ascari che lo vedevano sempre pensieroso e assorto a scrivere. Secondo le usanze abissine il padre fu risarcito, per aver rinunciato alla forza-lavoro della ragazza, con un mulo e dei viveri.
Per saperne di più:
Del Boca Angelo, Gli italiani in Africa Orientale. La caduta dell’impero, Milano, Oscar Storia Mondadori, 2008.
Di Luca Pino, Lettere di guerra. Etiopia 1935-36, Ravenna, Longo Editore, 1994.
Dominioni Matteo, Lo sfascio dell’Impero. Gli italiani in Etiopia 1936-1941, Bari-Roma, Laterza, 2008.
Lessona Alessandro, Memorie, Firenze, Sansoni Ed., 1958.
Strazza Michele, Faccetta nera dell’Abissinia. Madame e meticci dopo la conquista dell’Etiopia, “Humanities. Rivista di Storia, Geografia, Antropologia, Sociologia”, A.I, n.2, giugno 2012.
Strazza Michele, Le colpe nascoste. I crimini di guerra italiani in Africa, Montorso Vicentino, Saecula Ed., 2013.
Michele Strazza, Prostituzione e segregazione razziale nelle colonie italiane, Storia in Network, 2 aprile 2019

Fonte: Andrea Fioravanti, art. cit. infra

[…] L’emergenza erotica
Se sono pochi gli italiani che ricordano delle colonie solo l’invasione dell’Etiopia, ancora meno sono quelli che hanno idea di cosa fecero gli italiani in Africa Orientale dopo la conquista del 1936. Nei mesi successivi nelle colonie arrivarono decine di migliaia di italiani, al 99% uomini che arrivati soli o liberi dalle compagne lontane in Italia occuparono stabilmente i bordelli locali, frequentando le prostitute indigene. «I resoconti d’archivio definiscono questo arrivo di massa una “emergenza erotica” perché gli italiani adottarono comportamenti inappropriati per il regime che mal si sposavano con il progetto mussoliniano di creare una società coloniale razzialmente pura»
Il tipo di unione mista più frequente era il cosiddetto madamato cioè la convivenza con una concubina africana in more uxorio. La separazione razziale auspicata dal regime era inoltre solo virtuale poiché la costruzione degli ipotetici “quartieri per soli bianchi” progettati dal piano regolatore fascista fu lentissima e soprattutto incapace di sostenere la crescente. domanda. Non c’erano case per tutti e per questo moltissimi italiani, soprattutto gli umili lavoratori, andarono a vivere nelle capanne pagando gli affitti agli indigeni.
Da Faccetta nera a Faccetta bianca e le leggi razziali del 1937
Non a caso l’inno dei coloni italiani dell’epoca diventa Faccetta Nera. «È una canzone che rappresenta la sessualizzazione dell’impresa coloniale. Allo sguardo europeo la donna colonizzata appariva come poco più che un animale e una donna dai costumi facili disponibile e sottomessa, molto diversa dalla donna europea», spiega Ertola. «Ma a un certo punto, dopo il 1935 il regime iniziò a guardare con sospetto Faccetta Nera perché considerava inaccettabile l’aumento considerevole dei figli italo-africani che a lungo andare avrebbero alterato l’ordine sociale e razziale che richiedeva netta separazione e tra dominatori e dominati».
Ecco perché il regime fece circolare una nuova versione della canzone, con la stessa metrica e musica, ma parole diverse. Il titolo era “Faccetta bianca” e il testo leggermente modificato faceva: «Non voglio più cantar faccetta nera / non voglio più sentir bella abissina / perché la donna nostra è più carina / e piena d’ogni pregio e qualità». E proseguiva con versi quali: «Faccetta nera per carità!… / solo la bianca è la regina di beltà».
La canzone fu pubblicata la prima volta su un opuscolo per operai italiani in partenza per l’AOI a cura della Confederazione fascista dei lavoratori dell’industria, intitolato “Orgoglio di popolo nel clima dell’Impero”, in cui si catechizzavano gli operai sui danni degli «incroci umani» sia a livello sociale che biologico, per poi arrivare al punto: «le donne bisogna lasciarle stare». Come? «innanzi tutto, soffocare gli istinti bruti […] ascoltando la voce gagliarda della propria anima italiana, lasciandone libero il senso di superiorità e di orgoglio che duemila anni di storia e i fatti recentissimi alimentano». L’opuscolo cercava di fare appello al rispetto della «moralità delle donne indigene» la cui dignità doveva essere salvaguardata, tentando allo stesso tempo di spaventare i bianchi con lo spauracchio delle malattie veneree.
Nel 1937, un anno prima delle leggi contro gli ebrei, il governo italiano promulgo le leggi razziali per evitare il madamismo e gli incontri promiscui coi sudditi delle colonie africane. «Il regime cercò anche di “importare” in Etiopia delle prostitute bianche italiane, oppure convincendo in maniera più o meno spontanea, moltissime impiegate del Ministero delle Colonie ad andare a vivere a lavorare nelle colonie in modo si popolassero di giovane italiane nubili» […]
Andrea Fioravanti, 1885-1960. Cosa è stato davvero il colonialismo italiano e perché sappiamo poco o nulla di quei 75 anni, Linkiesta, 16 settembre 2020

Altre informazioni si possono trarre dai lavori di Sòrgoni (1998) e Barrera (1996), che hanno passato in rassegna le sentenze emesse dai tribunali di Addis Abeba. Sòrgoni (1998) analizza, ad esempio, due processi per stupro. Nel primo – “stupro violento” – la vittima, Desta Basià Ailù, è una bambina di nove anni, segregata contro la sua volontà, per diversi giorni, nell’abitazione dell’imputato.
Quest’ultimo viene processato per violenza carnale, non per sequestro di persona, e ottiene le attenuanti sulla base del fatto che si trattava di una bambina abbandonata e quindi, secondo una traduzione italiana del Fetha Negast, testo che racchiudeva i costumi penali abissini, poteva essere presa in casa da chiunque.
Il secondo caso concerne lo stupro di una ragazza di tredici anni, Lomi, che aveva anche denunciato di essere stata, dopo la violenza, legata “per punizione”. L’imputato fu in prima istanza assolto perché i giudici dichiararono che a tredici anni un’abissina era “sessualmente maggiorenne”. Successivamente fu condannato dalla Corte di Appello per non essersi comportato secondo i dettami della missione civilizzatrice della razza superiore.
Analizzando le lettere di espulsione di italiani dalle colonie per comportamento indegno (raggiri, furti, pestaggi, omicidi spesso compiuti per futili motivi), Barrera (2002) ne ha trovate alcune che denunciano molestie sessuali, miste a pressioni e minacce rivolte alle famiglie delle vittime.
Sempre Barrera (1996) riferisce di alcuni processi nei quali gli imputati italiani erano stati denunciati per aver percosso le donne africane con le quali avevano una relazione. In uno dei casi, l’imputato venne assolto dall’accusa di madamato, dato che la violenza commessa dimostrava l’inesistenza di un rapporto affettivo.
Nel periodo successivo all’emanazione delle leggi razziali e al conseguente divieto di ogni relazione di natura coniugale tra italiani e “indigeni”, vi fu una recrudescenza degli atti di violenza. Secondo Barrera (2002), fonti orali e archivistiche rivelano un considerevole aumento degli stupri e delle molestie sessuali durante la conquista dell’Etiopia, atti che non cessarono con la fine delle ostilità, ma si protrassero nel periodo successivo.
Anche Maria Messina, un’italoeritrea nata all’Asmara nel 1917, intervistata da Barrera (1996), testimonia un incremento delle molestie e degli stupri dopo la conquista, attribuendolo all’arrivo delle camicie nere, molto più violente dei “vecchi coloniali”.
Ladislav Sava, un medico ungherese che si trovava ad Addis Abeba al momento dell’occupazione italiana, ha raccontato nel 1940 al settimanale londinese New Times & Ethiopia News, diretto da Sylvia Pankhurst, di aver personalmente assistito alla “deportazione di donne etiopiche in case convertite con la forza dai militari italiani in postriboli”.
Chiara Volpato, La violenza contro le donne nelle colonie italiane. Prospettive psicosociali di analisi, DEP n.10 / 2009