Le prime bande partigiane erano, quindi, sorte, in gran parte, in modo spontaneo e confuso

L’8 settembre 1943, dicevamo, per radio viene diffuso il testo dell’armistizio firmato a Cassibile cinque giorni prima, con il quale lo Stato italiano dichiara ufficialmente di non essere più in guerra con gli anglo-americani. In questo documento non vi è alcuna direttiva, da parte del capo del governo Badoglio, su quale atteggiamento assumere verso l’ex alleato, la Germania di Hitler. Fallisce così il debole tentativo di assicurare continuità allo stato e di sganciarsi in modo indolore dalla Germania, che era iniziato il 25 luglio con l’arresto di Mussolini, per ordine di Vittorio Emanuele III. Ad una prima analisi piuttosto superficiale e ottimistica, le truppe anglo-americane sembrano destinate ad una rapida conquista della penisola: in fondo, in poco più di un mese, la Sicilia era stata conquistata, e lo sbarco a Salerno sembrava aprire a rosee prospettive. Oltretutto, dopo la caduta di Mussolini, le truppe tedesche si erano impegnate in un tale spostamento di forze da non lasciare dubbi sulle loro intenzioni di occupare la penisola, destinata a fonte di risorse umane ed economiche da sfruttare per il proseguimento della guerra. Nonostante questo, il maresciallo Badoglio scelse di non prendere decisione alcuna: l’ordine di cessare ogni ostilità contro alle forze armate anglo-americane è infatti integrato, nel medesimo comunicato, all’ordine di reagire “a eventuali attacchi di qualsiasi altra provenienza”. L’inconsistenza di queste direttive assume toni di nuova drammaticità quando, il 9 settembre, Badoglio, i suoi ministri, i capi di stato maggiori dell’esercito, della marina e dell’aviazione, accompagnano la famiglia reale a Pescara, da dove raggiunge via mare Bari, già saldamente in mano agli anglo-americani.
L’immediato antefatto alla formazione dei primi nuclei armati, decisi a contrapporsi all’esercito nazista e al nuovo stato fascista, la Repubblica sociale italiana, annunciata da Mussolini il 14 settembre, dopo la liberazione per mano di alcuni paracadutisti tedeschi, è da ricercarsi proprio in questo clamoroso fallimento della classe politica che, dopo aver condiviso il potere per vent’anni con il regime fascista, si dimostra totalmente incapace di assumere posizione alcuna e prende la via della fuga. La dissoluzione dell’esercito ne è, indubbiamente, la conseguenza più immediata e drammatica.
Le varie unità dell’esercito, sparse, oltre che sul suolo nazionale, tra Francia, Jugoslavia, Grecia e isole Ioniche, vengono immediatamente rastrellate dall’esercito tedeschi; circa 650 000 soldati italiani vengono chiusi nei carri bestiame e nei vagoni piombati, per essere mandati in Germania. La stragrande maggioranza di questi decise di non aderire alle forze armate della Repubblica sociale italiana, e resteranno quindi in Germania come internati militari, dei quali “da 30 a 50 000 perirono a causa della denutrizione, del freddo, del duro lavoro, dei maltrattamenti dei tedeschi o furono vittime delle fucilazioni sempre più frequenti soprattutto nella caotica situazione degli ultimi giorni di guerra” <1.
Gli avvenimenti citati, tutti di enorme portata, avranno l’immediata conseguenza di sgretolare, per i cittadini italiani, ogni riferimento istituzionale. Solo ad un’esigua minoranza di italiani risulta chiaro che, più che verso la fine del conflitto, si sta andando verso l’esordio di una nuova fase della guerra, molto più drammatica, poiché sarà necessario battersi contro i tedeschi, e poiché sarà il territorio nazionale a divenire teatro di uno scontro violentissimo. Un generale moto di solidarietà popolare, protezione, istintivo soccorso prestato ai fuggiaschi, sono i cardini di un percorso che trasforma masse di sudditi obbedienti, progressivamente, in individui con coscienza critica.
Il lontano regno del Sud e la neonata Repubblica sociale aspireranno entrambi a prendere in mano le redini della continuità dello stato. Nel concreto, però, nella quotidiana esperienza dei cittadini, si tratterà, in entrambi i casi, di vivere in un regime di occupazione militare: mentre il sud è governato dall’Allied Military Government Occuper Territory (Amgot) <2, il Centro-nord è occupato dai tedeschi. I soldati che fuggono incarnano la fine della guerra italiana, ma anche la fine di un autonomo Stato italiano. Non solo, quindi, latitanza e dissoluzione dello stato, ma anche perdita di credibilità di un’intera classe dirigente, “classe semidirigente e parastatale”, come la chiama Franco Venturi nel settembre del 1943 <3. Anche antifascisti moderati come Benedetto Croce, dopo l’armistizio, sembrano ormai non nutrire alcun dubbio sulla necessità di aprire una nuova fase politica, escludendo Vittorio Emanuele III. Al congresso di Bari del Cln (28-29 gennaio 1944), Croce dichiara: “fin tanto che rimane a capo dello Stato la persona del presente re noi sentiamo che il fascismo non è finito, che esso ci rimane attaccato addosso, che continua a corroderci e infiacchirci, che risorgerà più o meno camuffato, e insomma che, così, non possiamo respirare e vivere” <4. La necessità di produrre una nuova classe politica dirigente, di ricollocare l’Italia nello scenario democratico internazionale, quindi, nasce proprio da qui, dal disastro nazionale.
La resistenza militare all’occupazione tedesca, ad opera delle scompaginate truppe italiane lasciate allo sbaraglio fu, nel complesso, inconsistente, sebbene costosissima dal punto di vista di vite umane. Alla scelta di non resistere si accompagna quella di respingere qualunque collaborazione da parte dei civili, che, secondo alcuni, soprattutto nelle città con forte presenza operaia (come Milano e Torino), avrebbero potuto creare un’efficace saldatura tra esercito e classi popolari, cosa che Badoglio temeva più degli stessi soldati tedeschi. Sulle ragioni dell’inconsistenza dei focolai di resistenza ai soldati tedeschi, Alessandro Natta osserva: “la mancanza assoluta di una preparazione dell’armistizio, lo stato di disgregazione dell’esercito, il tradimento di alcuni comandanti che avevano già scelto la causa e la bandiera tedeschi, l’incapacità di decidere di altri paralizzati tra l paura di fronte al mito dell’invincibilità e della spietatezza tedesche e il timore di cadere in mano al ‘bolscevico’ dell’Unione Sovietica, la speranza assurda che la nostra capitolazione precedesse di poco la resa della Germania o potesse realizzarsi con il tacito consenso dei nazisti, tutto ciò non riuscì ad annullare l’esplosione antitedesca, ma solo a frantumarla in una serie di episodi disperati ed eroici di ribellione, di sfogo, di rissa confusa più che di ordinata battaglia […]. Ma al di là del motivo immediato e contingente di una presenza ostile, di un quasi individualistico ‘o morte o vita’, le ragioni e gli ideali di una nuova lotta erano del tutto fumosi ed incerti” <5. All’epoca era estremamente diffusa la speranza di una breve risoluzione del conflitto grazie ad una rapita avanzata degli alleati: “la maggior parte degli attivisti della Resistenza si faceva allora delle illusioni: lo sbarco in Sicilia era avvenuto, la controffensiva tedesca a Salerno era fallita, tra poco americani e inglesi avrebbero raggiunto Roma, l’Appennino e le Alpi; era questione di aspettare qualche settimana, al massimo pochi mesi” <6.
Nonostante la caccia serrata dell’esercito tedesco, non tutti i soldati italiani furono catturati, né tutti riuscirono, nella fuga, a raggiungere le proprie case, e per loro si prospettava un periodo durissimo: il rientro era reso difficilissimo dalla sorveglianza tedesca, dal dissesto delle strade, e soprattutto dalla necessità, per molti, di attraversare il fronte. Nei giorni immediatamente successivi allo scioglimento dell’esercito, decine di migliaia di soldati vagavano nel territorio nazionale, aggregandosi in zone abbastanza isolate da rappresentare un iniziale e provvisorio riparo, privilegiando le montagne e le vallate delle Alpi e della dorsale appenninica. Mescolati tra loro ci sono moltissimi soldati anglo-americani, fino a quel giorno detenuti nei campi di prigionia, a cui si uniscono slavi e russi, catturati dall’esercito durante il tentativo di espansione verso est. Da una parte queste sono aggregazioni estremamente casuali, originate spesso dal desiderio di “fare gruppo”, di unirsi, nella maggior parte dei casi per difendersi dalla paura e dallo spaesamento. Dall’altra, e questo è motivo di fatale debolezza, centinaia, a volte migliaia di uomini, sono un bersaglio estremamente facile per un esercito regolare, deciso a una guerra che non guarda in faccia nessuno, com’è quello tedesco.
Quante sono, quindi, le bande a due mesi dall’armistizio? Le cifre con stima più generosa ci vengono offerte da Max Salvadori nel 1955: “nelle bande ancora raccogliticce dell’autunno del 1943 e nelle squadre clandestine ancora malamente organizzate, si erano trovati forse 100 000 uomini. Quelli delle montagne scesero probabilmente a non più di 10 000 nel pieno del primo inverno” <7. Sull’entità delle cifre, in realtà, l’accordo pare impossibile, ma ciò che è unanimemente riconosciuto è l’esiguità e la precarietà delle prime bande. La durezza e, quasi sempre, gli esiti tragici dei primi scontri, sono il primo vero filtro dal quale vengono selezionati i combattenti destinati a durare, capaci di sopportare l’estrema avversità delle condizioni. I collegamenti tra i vari gruppi sono decisamente difficoltosi, quando non del tutto inesistenti. L’aggregazione delle bande è del tutto nelle mani dei pochi le cui motivazioni alla lotta sono molto più salde e radicate di quelle confusamente rintracciabili nelle prima bande formatesi dopo l’8 settembre. Alle bande combattenti si giunge attraverso l’”emergere dalle masse popolari ancora in preda al caos di alcuni elementi, di poche decine o centinaia d’antifascisti, di militari, di giovani, già decisi fin dal primo momento a impugnare le armi, a iniziare subito e non domani la guerriglia” <8. Semplificando, si possono classificare le componenti fondamentali di questa minoranza in due gruppi: il primo è costituito da ex militari, soprattutto sottufficiali e ufficiali dell’esercito; il secondo, decisamente più composito, da esponenti dell’antifascismo storico, quadri di partito (con una netta prevalenza del Partito comunista), ma anche intellettuali che hanno scelto questa via dopo aver portato alle estreme conseguenze inquietudini e perplessità etiche, rese drammatiche dall’esito della guerra fascista.
La presenza di ex ufficiali e sottufficiali del regio esercito alla nascita delle bande partigiani trova traccia in tutte le memorie tramandate dalla Resistenza. Da una parte, questi potevano essere militari tout court, che si sentono chiamati a continuare la guerra, ma con obiettivi e finalità nuove, che si pongono con diffidenza verso l’idea della guerra partigiana come “guerra del popolo”; dall’altra, ci sono ufficiali e sottufficiali che, immediatamente dopo l’8 settembre, inizieranno a raccogliere le armi in nome di una sorta di “discontinuità” rispetto al regime fascista, ma anche rispetto al progetto monarchico badogliano, spinti dalla delusione e dal rigetto delle esperienze vissute durante la guerra.
Le prime bande erano, quindi, sorte, in gran parte, in modo spontaneo e confuso. La loro occupazione principale consiste nel procurarsi le armi e i materiali indispensabili per la sopravvivenza: assalti a depositi di armi e di carburante, qualche saccheggio, azioni di propaganda contro la leva militare ordinata dalla Rsi, a volte accompagnata dalla distribuzione delle liste di leva, soprattutto nei comuni di montagna più isolati. “Sono azioni di tipo ancora elementare […]. Sono azioni di molestia contro posti di blocco e caserme, colpi a mano per rifornirsi di armi e materiali, atti di sabotaggio, imboscate” <9. Sul piano strettamente militare si tratta, effettivamente, di operazioni di poco conto. Eppure, entro l’estate del 1944, la Resistenza giunge ad assumere un ruolo e una consistenza molto più rilevanti di quella che la modesta efficienza militare iniziale avrebbe lasciato sperare. Via via la Resistenza amplia la sua sfera d’azione e d’influenza, acquisendo una dimensione anche politica. Per questa evoluzione, seppur lenta e assolutamente non pacifica, i partiti politici, che pur partivano da un’esile trama, si rivelarono decisivi nel dare senso, direzione e soprattutto voce e visibilità al fenomeno della resistenza armata. Pur essendo, infatti, ancora troppo deboli per avere realmente peso nella scena politica dell’estate del 1943, o anche solo per determinare uno slancio del popolo italiano, furono sufficientemente forti da promuovere un incontro tra le esigue minoranze determinate all’opposizione contro i tedeschi e i fascisti. Nella prima fase della Resistenza hanno maggior peso le scelte individuali, e le molteplici forme di spontaneità che già abbiamo delineato, ma nei mesi successivi le componenti più politicizzate e più organizzate assumeranno un ruolo sempre più decisivo.
L’occupazione tedesca e la conseguente rinascita del fascismo esigono risposte operative tanto sul piano politico che sul piano militare. Il vuoto di potere causato dalla fuga del re rappresenta, contemporaneamente, una straordinaria occasione e un dovere a cui i partiti politici antifascisti non possono sottrarsi. La lotta a cui essi chiamano il popolo è, quindi, una lotta di rottura con il passato e di riscatto, seguendo l’idea che solo un impegno diretto, e soprattutto di massa, nella lotta al fascismo, può emendare la posizione dell’Italia a fianco della Germania per tutta la durata della guerra.
Il 9 settembre, mentre Roma è già occupata dai tedeschi, il Comitato delle opposizioni prende il nome di Comitato di liberazione nazionale (Cln), organismo in cui siedono i rappresentanti dei sei principali partiti antifascisti. Oltre al Cln centrale (Ccln), organismi con la stessa struttura sorgono nelle principali città italiane (Torino, Firenze, Milano, Genova Bologna e Padova), e, in seguito, anche in numerosi altri centri minori. Sin dal principio, il Comitato di Roma cercherà di assumere una funzione dirigenziale a livello nazionale, che però non riuscirà ad esercitare nemmeno sui compositi gruppi armati dell’Italia centrale, così come saranno ricchi di contrasti anche i suoi rapporti con la Resistenza armata romana. Formalmente, il 31 gennaio 1944, il Cln di Milano assume il comando della lotta armata dell’Italia occupata, prendendo il nome di Clnai (Comitato di liberazione nazionale alta Italia) <10. In questa fase è impossibile anche un semplice censimento attendibile delle forze disponibili; ne consegue che un’autentica e unitaria direzione comune, in questo momento, è completamente impossibile. Tra i limiti maggiori che l’attività del Cln incontra c’è, soprattutto, il fatto che essi rappresentino una camera di compensazione, un punto di intersezione tra partiti che portano avanti progetti e ideali molto diversi tra loro. La volontà di deporre temporaneamente le tensioni in nome dell’unione delle energie per perseguire uno scopo comune prevalse sugli attriti esistenti, ma questa fu un’unione tutt’altro che semplice e priva di scontri: già dai primi mesi apparve evidente una netta diversità nel modo di intendere i metodi della lotta. Da una parte esisteva il progetto di suscitare un moto di radicale cambiamento fondato sulla partecipazione attiva delle masse, con conseguente liberazione non solo dall’occupazione nazista, ma anche dagli strascichi culturali, politici e sociale del ventennio fascista; questo progetto implicava una netta rottura e un’epurazione drastica dei responsabili delle scelte passate. Dall’altra parte, invece, si assisteva al tentativo di conciliare liberazione dal nazifascismo e continuità dei rapporti sociali consolidati. Da una parte una pregiudiziale repubblicana, particolarmente forte in azionisti, socialisti e comunisti (almeno fino alla svolta di Salerno del 1944); dall’altra, una complessa strategia istituzionale che non escludeva di restare in un impianto monarchico, accontentandosi di liberare l’Italia da Vittorio Emanuele III. A tutto ciò si aggiungeva anche una certa diffidenza tra i due partiti più attivamente impegnati nella Resistenza, il Pci e il PdA, resa evidente dalla formazione di due diverse forze armate che dipendevano, distintamente, da questi due partiti, ben più che dal Cln. La partecipazione dei partiti al Cln esprime una genuina convinzione riguardo la necessità di unità politica, ma convive con la rivendicazione di autonomia nell’ambito dell’organizzazione delle forze armate. Probabilmente sarebbe stato impossibile fare diversamente, se si considerano le profonde diversità nei tempi e nei modi dello sviluppo delle forze armate che scorrono tra comunisti e azionisti, soprattutto nel periodo dell’estate del 1944. Alla base della strategia dei comunisti c’è l’assalto continuo e sistematico, usato anche come metodo di propaganda e di crescita, fondato sulla convinzione che “è dalla lotta e dall’esperienza che sorgeranno i migliori quadri di combattenti contro i tedeschi, contro i fascisti” <11. Questa impostazione è inizialmente decisamente lontana dal pensiero di Ferruccio Parri, che ancora era concentrato sulla necessità della ricostruzione dell’”esercito discioltosi l’8 settembre, potenziandolo e trasformandolo con l’innesto di volontari civili, senza però alterarne la struttura gerarchica e i criteri di efficienza: un esercito ‘patriottico’ ma non ‘politicizzato’”. L’esperienza di ufficiale durante la Grande Guerra portava Parri a “privilegiare soprattutto il ‘recupero’ dei soldati e degli ufficiali regolari” <12. Questa prima fase è dunque una sorta di laboratorio, dove si confrontano modelli e progetti e diffidenze molto lontani dalla possibilità di una sintesi pacifica. Mentre l’azionista Parri viene riconosciuto da tutti i comitati regionali militari come il “coordinatore centrale”, il comando generale delle brigate Garibaldi rifiuta di sottoporsi alla sua autorità <13. Ne nasce un clima di crescente tensione, alimentato anche dalla forte campagna contro l’attesismo che i comunisti portarono avanti, con bersaglio il Cln di Milano. Bisogna però sottolineare che, come all’interno del partito comunista vi furono opinioni diametralmente opposte tra la direzione milanese e quella romana, anche nel variegato universo azionista i piemontesi, Livio Banco e Duccio Galimberti in primis, non si mossero in assoluta armonia con la direzione milanese. Mentre Parri ancora nutre profonde insicurezze sull’opportunità di creare delle bande direttamente “politiche”, in Piemonte, già alla fine del 1943, queste rappresentano una realtà consistente.
All’interno del Cln la discussione continua ad essere molto accesa, ma, verso l’esterno, la possibilità di comunicare come un fronte unito e collaborante si rivela decisiva nella costituzione di una prospettiva politica e militare alternativa a quella monarchico-badogliana. Senza un’unitaria rappresentazione politica, la resistenza armata difficilmente avrebbe potuto assumere l’ampiezza e il rilievo successivi. D’altra parte, il compito di rappresentare la resistenza armata, dandone un’immagine centralizzata, organizzata e politicizzata, probabilmente più di quanto non fosse realmente, è realizzato unicamente grazie all’esistenza stessa delle prima bande, dalla loro capacità di radicarsi nel territorio, di resistere ai rastrellamenti e alle rigidità dell’inverno, di non farsi scoraggiare nemmeno quando andò in fumo la speranza di una rapida avanzata degli Alleati anglo-americani. L’esistenza delle bande partigiane e della loro rappresentanza politica ebbe dunque, già nei primi mesi, effetti maggiori della loro stessa consistenza militare, sia sul piano politico che su quello simbolico. In primo luogo, infatti, furono in grado di limitare la credibilità e l’autorevolezza della Rsi, e quindi la sua stessa capacità di aggregare consensi; in secondo luogo, misero in discussione la pretesa di monopolio della rappresentanza degli italiani, avanzata dal governo del sud.
Se l’inverno è ancora una stagione di forti dubbi e incertezze, già l’inizio dell’estate del 1944 porta la Resistenza italiana a guadagnare consistenza, coesione e capacità operative. Per quanto riguarda il piano istituzionale e dei rapporti politici, le tappe fondamentale di questo processo di consolidamento sono la svolta di Salerno (aprile 1944), e la costituzione del comando generale del Corpo volontari della libertà (giugno 1944). Si tratta di uno sviluppo che prende piede dall’interno stesso della Resistenza, ma che trova indispensabile aiuto in alcuni cambiamenti decisivi del quadro storico e politico generale.
[NOTE]
1 Lutz Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia. 1943-1945, Bollati Boringhieri, Torino, 1996.
2 D. W. Ellwood, L’alleato nemico. La politica dell’occupazione angloamericana in Italia, Feltrinelli, Milano, 1977.
3 F. Venturi, La lotta per la libertà.
4 B. Croce, La libertà italiana nella libertà del mondo: discorso al Primo congresso dei partiti tenuto a Bari il 28 gennaio 1944, Bari, 1944.
5 A. Natta, L’altra resistenza. I militari italiani internati in Germania, Einaudi, Torino, 1997.
6 M. Salvadori, Storia della Resistenza, Neri Pozza, Venezia, 1955.
7 Ibid.
8 Battaglia, Storia della Resistenza italiana.
9 L. Longo, Un popolo alla macchia, Mondadori, Milano, 1947.
10 E. Collotti, Natura e funzione storica dei Comitati di liberazione, in Collotti, Sandri e Sessi, Dizionario della Resistenza, vol. I, Storia e geografia della Liberazione.
11 P. Secchia, Perché dobbiamo agire subito, in “La nostra lotta”, novembre 1943.
12 P. Levi Cavaglione, Guerriglia nei castelli romani, Einaudi, Torino, 1945.
13 L. Valiani, Tutte le strade conducono a Roma, il Mulino, Bologna, 1983.
Giulia Arnaldi, Partigiane tra guerra e dopoguerra: donne e politica in Veneto, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Padova, Anno Accademico 2021/2022