Le macerie della bella cittadina aumentano ad ogni cannonata

Keren – Fonte: Wikipedia

[n.d.r.: seguito di questo articolo]
La battaglia di Keren fu uno scontro tra le truppe italiane e le forze britanniche e del Commonwealth. Nonostante un’organizzata e tenace resistenza, le forze italiane vennero sconfitte sancendo così l’inizio dello sgretolamento del giovane impero coloniale italiano.
2 Febbraio 1941
Di buon mattino sentiamo tuonare il cannone. Più tardi il cannoneggiamento si fa intenso. Scorgo di qui il forte di Keren, la città mi è nascosta dalle alture.
E’ cominciato l’attacco. Quando gli inglesi cercheranno di passare? Gli uomini scavano ora, senza farsi pregare, mi chiedono consigli. Hanno anche scavato fosse sul dorso della cresta. Una per me vicino ad un albero di incenso. Mi trovo sempre accanto un barese, Furigno. Scambiamo poche parole ma ho l’impressione che abbia bisogno della mia compagnia. Parla barese stretto e lo capisco a malapena.
Il più lavativo del plotone è il più settentrionale. Vercelli si chiama. Lo avvicino lo interrogo. E’ proprio un lavativo. Nessun argomento è valido. Vediamo . “E il segnalatore? Vuoi fare il segnalatore?”-“Beh, sì. Quello sì” – “Ma non sai balordo che questo è molto pericoloso?” – “Non fa niente quello lo faccio” – Scelgo il posto. Si scava una buca profonda, un riparo di pietre e siamo contenti tutti e due. Abbiamo salvato la faccia al Nord.
Un sergente del secondo plotone è morto in 40 secondi. Morsicato da un cobra egiziano. Attenzione.
3 Febbraio
Mi vuole il capitano. Desidera parlare con me. Un libero scambio di opinioni. Vuoto il sacco. Gli esterno la mia delusione sulla preparazione della truppa e degli ufficiali. E’ d’accordo con me. Mi esorta a fare per il meglio. Come mai hanno attaccato di fronte Keren? Stanotte dovrò andare di pattuglia. Sto osservando la posizione delle stelle. Ci sarà anche la luna. Piena.
4 Febbraio
La pattuglia è stata divertente. Dieci uomini della mia squadra. Naturalmente ho dovuto scegliere tutti volevano venire. Ne ho lasciato tre in linea. Ho fatto lasciare a casa le armi, cioè i 91. Quattro bombe a mano in tasca. Niente casco. Giubba nei pantaloni. Io ho lasciato le uose bianche. Partiamo con la luna piena dopo aver dato qualche istruzione. Silenzio. Un sibilo, fermi. Due sibili avanti. A circa tre chilometri c’è un cimitero arabo. Bisogna arrivare fin là. Verificare tutti i tucul indigeni. I ragazzi sono veramente a posto. Io sorrido al ricordo che faccio sul serio, striscio per terra e mi diverto come quando da bambino facevo con gli amici la guerra e si andava alla conquista della Torre dei Mostaccini [n.d.r.: l’autore del Diario, Giuseppe Balbo, fa in questo caso un riferimento ad un sito storico di Bordighera (IM), la sua città di residenza].
Davanti all’entrata di un tucul sosto. Spalanco la porta. Proietto la luce della lampada elettrica nell’interno. Una visione impressionante. In piedi un indigeno mezzo avvolto nella sciamma alza le braccia al cielo, gira gli occhi nel viso terreo. E’ l’immagine della paura. Ci stava aspettando poveraccio! Ci aveva sentito e temuto. Accidenti. Un giro di lampada mi fa vedere il tucul libero. Macchè inglesi. Proseguiamo verso il letto del uadi sulla nostra sinistra. Sempre più cauti strisciando fra gli arbusti. Ad un tratto un trapestio. Un sibilo. Acquattati a terra. Ci restiamo parecchio. “John!” una voce cauta appena soffiata. Beh! Quelli non sono granatieri. Mi salta in testa di tentare di fare qualche prigioniero. Due sibili. Ci muoviamo sulle tracce. Si sono volatilizzati. Ma è possibile che tutti gli inglesi si chiamino John?
Arriviamo al cimitero, senza altri incidenti. Ritorniamo che la luna sta scendendo oltre i monti di Keren. Non ha paura delle cannonate?
Si fa scuro. Le nostre posizioni son là, proprio sotto Orione che nel cielo che si rabbuia scintilla sempre più.
5 febbraio
Stamane, rientrato all’alba e fatto il mio rapporto mi stendo sotto all’albero di incenso per dormire. Vicino c’è Furigno. Un sibilo prolungato attira la mia attenzione. Devo essermi addormentato ma la cautela del sibilo mi fa restar fermo. Giro gli occhi verso Furigno. E’ inginocchiato curvo immobile. Mi fissa negli occhi. Quando si accorge che son ben sveglio gira gli occhi in su sulla mia testa. Non parlo. Cerco di comprendere il messaggio dei suoi occhi. C’è qualcosa di grave. Quanto tempo passa? Minuti, secondi, attimi? Non l’ho mai saputo contare il tempo quando c’è un’emozione di mezzo. Ho ragionato? Non so. Mi son trovato a un metro a due metri lontano dalla mia posizione rotolando, scattando, saltando tutti insieme. E il mio sguardo ha sorpreso per aria una saetta, un serpe. Un cobra senz’altro. Era della sua grandezza e del suo colore.
Grazie Furigno! Non abbiamo più dormito. Ma ci siamo quasi abbracciati subito dopo per evitare le schegge di bombe che hanno massacrato il povero albero d’incenso. Ora la sua corteccia si sfalda come fogli di pergamena slabbrati.
E’ di nuovo sera. Una visione indimenticabile ad un tratto. Su una cresta rocciosa di pochi metri una cinta di ramaglia secca. Corna di zebù, dorsi di zebù contro il cielo chiaro della luna che piena si illumina lo spazio intorno e scurisce le forme nel controluce. Una xilografia vedo. Tragica.
6 Febbraio
Il cannoneggiamento su Keren è tambureggiante. C’è una battaglia indiavolata laggiù. Mi ha chiamato il capitano. Ha bisogno di sfogarsi. Mi dice che c’è ordine di resistenza ad oltranza. Non ci sono linee di ripiegamento. “O morti o prigionieri” conclude. La seconda alternativa mi suona strana, nuova, imprevedibile ed impossibile.
Poche ore dopo arriva l’ordine di prepararsi alla partenza. Il bombardamento è furioso. Come va laggiù? Abbandoniamo le linee a sera. Scendiamo dall’altura. Ogni tanto nella notte c’è qualche militare che ci indica la via giusta. Sulla strada abbiamo trovato i camions. Chiusi nei teloni sorpassiamo Keren fino alle alture per le quali passa la strada per Asmara. E’ un ripiegamento? E’ la ritirata? Sbarcati ci stendiamo in attesa di ordini. Sono stanco. Dormo nel terreno sabbioso come nel più soffice materasso. Continua il tuono del cannone. Un ordine. Zaino in spalla. A posto.
8 Febbraio
Mi pare che ci sia una gran confusione. La compagnia si trova riunita sotto un folto di eucaliptus.ci sono aerei inglesi che girano nel cielo. C’è con noi anche il Colonnello che dice “Aerei o non aerei bisogna andare avanti” . Usciamo dal folto. Abbiamo ricevuto l’ordine di andare in vetta dell’altura che abbiamo davanti. Conquistarla se ci sono inglesi. Ritornare se non ci sono. Vado col mio plotone quasi a passo di corsa. Siamo vicini alla cima e il cuore mi scoppia dalla fatica. Arriviamo in quota. E’ libera! Appena in cima due aerei inglesi ci ispezionano e mitragliano. Siamo col naso appiccicato a terra. Uno spezzone ci scoppia a un metro. Ho un pò di sangue nel pollice destro. Una scheggetta si vede. Ordine di scendere. A mezza china mi sento un aereo addosso. Faccio un salto a pesce in un cerchio di sassi. E’ la tomba di un santone arabo. Provvidenziale.
Ci riuniamo con qualche difficoltà e procediamo in mezzo a una indicibile confusione. C’è di tutto. Cataste di munizioni, posto di medicazione, feriti, morti, dottori in camice bianco che curano le ferite gravi dandoci intorno allucinati, tende addossate a enormi blocchi di granito. Ascari muli e vicino il tuono del cannone. Due aerei inglesi passano quasi radenti le acacie. Ordine di non sparare. Ma hanno scoperto qualcosa. Mitragliano a casaccio incrociandosi. Giriamo intorno ai blocchi per non farci cogliere. Con tutti quei feriti chi s’accorge di un ferito in più? Urla, comandi, imprecazioni. Finalmente se ne vanno. Ci troviamo incolonnati.
Procedendo tracce di militari. Teli da tenda strappati, brandine sgangherate, zaini, fez rossi, indumenti sacchi piccoli squarciati da ferite bianche di farine. E’ questa la linea? Ci viene incontro un ufficiale:“Attenti ragazzi. Gli Inglesi vengono di qui” e ci indica un sentiero.
Volgo gli occhi intorno. Che ore sono? Le quattro. Scimmie dal culo rosso si arrampicano sulle cime rocciose e squittiscono. A ogni granata che scoppia balzano disorientate fra i massi. Ascari, pochi intorno. In piedi. Fascia nera alla vita fez rosso. Ci guardano altezzosi. Non approvano il nostro modo di far la guerra. Loro non si piegano non si nascondono. Li ammiro ma li compiango. Non cerco nemmeno di convincerli a ripararsi. Uno cade stecchito. Vado a vedere. E’ morto. Gli prendo la fascia nera e me l’avvolgo intorno alla vita.
Annotta. Verso le sette un pò di pace. Alle nove si scatena l’inferno. Controllo. Fino alle 9.45. Pausa. Alle dieci ricomincia. Serro gli occhi con forza. Vedo gli scoppi vedo chiaro. Distinguo le cannonate Inglesi che passano oltre. Troppe si fermano. Fruscio e tuono. Deve essere una bombarda. Non sono molto precisi. Uno dei compagni è immobile. Riccardi trema come una foglia alla brezza. “Sei ferito?” “Io tiro le bombe”. “E tirale” gli dico sperando che si calmi. Poi a un tratto sparisce. Resto solo col morto. Finalmente penso. Non ho più nulla da osservare, chiuso fra quei sassi. Osservo solo me stesso. Attendo di essere dilaniato all’improvviso. Mi preparo morire. Cerco una preghiera. Una facile da ricordare. L’Ave Maria. Provo a recitarla a bassa voce. L’ho dimenticata. Mi sforzo a ricordare. Parola per parola, secondo il ritmo arrivo alla fine. Mi pare che ci sia tutta. La ripeto. “…nunc et in hora mortis nostrae. Amen. “ insisto. La ripeto tre quattro volte. Insisto sul “ mortis nostrae”. Mi confesso al Signore. Sia fatta la tua volontà. Forse è meglio così.
Verso le tre il bombardamento diventa feroce. Son fuochi d’artificio tuoni e scoppi che pare impossibile la testa gli orecchi resistano. Divento una fodera del sasso. Ma gli Inglesi quando vengono? La notte è buia, illune. E’ lugubre. Ululati di jene. Scimmie, jene, sono affezionate alla loro zona.
Alle quattro calma. Colpi cessano d’un tratto. Attendo un poco. Poi vado a vedere la mia squadra. Mi fanno festa. Vogliono che resti con loro. Sono ben riparati. Mi convincono. Mi lascio convincere. Non è possibile restar soli all’inferno. Ho ritrovato Furigno e gli altri. Nelle tasche del cappotto ho una scatoletta di carne. Un boccone ciascuno. Nella borraccia un po’ d’acqua. Un sorso ciascuno. Parliamo. Vien giorno, sento il bisogno di fumare. Devo andar a prendere la pipa e la borsa del tabacco. Ho voglia di disegnare.
Guardo avanti. Un sicomoro di almeno sessanta centimetri di diametro che è davanti ai massi è mutilato slabbrato. Un albero d’incenso un poco più avanti ha preso la forma di croce.
Faccio qualche schizzo. Le mani mi tremano. I ragazzi mi osservano meravigliati. Apro la via alle confidenze. Sentiamo il bisogno di conoscerci. Prima di morire. Pastori, braccianti, senza mestiere. Tutti arruolati volontari nei Granatieri per trovare una sistemazione in Africa e intanto poter mandare il sussidio alle famiglie. Loro con cinque lire al giorno e mantenuti hanno da scialare.
Aerei volteggiano spezzonano e mitragliano. Non ne vediamo dei nostri: è deprimente. Che giornate lunghe ripiene di fatti. Ad ogni fatto corrisponde un’emozione nuova. A descriverle ci sarebbe da prolungare il tempo all’infinito.
9 Febbraio
Oggi un po’ di pace. Mi son raso con un cucchiaio d’acqua. Ho disegnato. Il tremolio non cessa.
14 Febbraio
Ho lasciato la linea. Ci sono giorni indimenticabili e giorni che si dimenticano. Fatti precisi e fatti imprecisi. Non ritrovo nemmeno la differenza fra giorno e notte fra giorno e giorno. Confusione. Dovuta all’abbruttimento senza dubbio. Allo choc nervoso.
Ho visto i primi elmetti foderati esternamente di rete. Non ho guardato in faccia il nemico. Mi si son trovate davanti allo sguardo delle facce che mi ricordavano molto quella di Al Johnson, dipinto da negro. Occhiaie chiare labbra chiare: da clown. Inglesi per modo di dire. Qualche bianco c’era. Tutti negri. Bombe loro, bombe noi. Ma noi urlavamo più di loro. Abbiamo cominciato con Savoia poi per gli altri contrassalti alla baionetta qualcuno ha gridato “figli di puttana” e quello è stato il grido fin quando son stato a Keren. Nove contrassalti in un giorno. In qualche contrassalto abbiamo toccato le posizioni inglesi. Abbiamo fatto come i ladri di polli. Fatta man bassa di scatole e borracce di quanto potevamo portare siamo ritornati a casa.
Ma in poche ore quanti cambiamenti!
Furigno. Non voleva andare all’Ospedale. Volevo mandarcelo perché mi aveva fatto vedere qualcosa nel palmo della mano. Un sassolino nero. Non capivo. Mi fece segno all’inguine. Un calcolo. Non volle andare all’Ospedale. Poco dopo me lo sentii pesare addosso senza un lamento. Una scheggia in testa.
Il 12 Febbraio un carnaio. Aerei e cannonate. Un uragano. Eravamo partiti da Addis Abeba che la mia compagnia aveva 120 effettivi. La sera del 12 eravamo in linea 23 tutti malconci. Di morti oltre settanta. Non più una mitragliatrice.
La mattina del 13 all’alba il capitano mi dice che sono richiamato, come tutti gli allievi, ad Addis Abeba per la nomina. Gli dico che spero di ritornare presto. “Speriamo di vederci in qualunque altro posto ma non in questo inferno.” Mi incarica di saluti per la famiglia.
Mi inoltro. Con una bomba in mano. Mi trovo nell’uadi, verso Keren. Ho sete. Spunta la luna. Avanzano due ascari con una collana di borracce a tracolla. Li prego di farmi bere. Mi porgono una borraccia. Credo di averla vuotata. In tasca ho qualche moneta da cinque lire. Gliene porgo una. Rifiutano. “Anche noi stare tre giorni senza bere”. Prima di lasciarli sentiamo un lamento. Sul ciglio del uadi addossato a un pepe, vicino a un’agave un sciumbasci [ Lo Sciumbasci era un grado militare delle Truppe coloniali italiane, equivalente al grado di Maresciallo del Regio Esercito.] Ha una gamba straziata. Aspetta che lo vengano a prendere. Deve soffrire per lamentarsi. Proseguo.
Le macerie della bella cittadina aumentano ad ogni cannonata. Senza pietà. Non c’è anima viva al di fuori dei soldati.
Marco Balbo, Giuseppe Balbo, Diario di guerra 6: La battaglia di Keren © Archivio Balbo 2018  – 11 febbraio 2018