Le industrie e le fabbriche hanno gradualmente fagocitato le meravigliose spiagge di sabbia di Sampierdarena e Cornigliano

La “Diga” – Quartiere Diamante a Begato, Genova. Foto di Jacqueline Poggi (© Jacqueline Poggi). Fonte: Paola Valenti, art. cit. infra

Nel saggio “La fine delle periferie”, pubblicato nel 2010, Pippo Ciorra esamina in modo approfondito e colloca in un ampio inquadramento storico e socioeconomico le questioni poi riassunte nella voce del Lessico, facendo esplicito riferimento alla città di Genova: “Quella della periferia contemporanea è allora una mappa che scopriremo complessa e contraddittoria, fatta di vecchi quartieri di edilizia pubblica e settori ‘degradati’ di centri storici (basta pensare a Napoli, Genova, Palermo o Marsiglia), casette sparse in zone dimenticate dalla pianificazione e complessi turistici riciclati, centri suburbani o rurali totalmente interessati dai flussi di immigrazione (e quindi trasformati in periferia)”.
In effetti, tanto per l’orografia del suo territorio quanto per le peculiari vicende della sua storia novecentesca, il capoluogo ligure presenta oggi caratteristiche che rendono estremamente difficile ragionare in termini di centro, di zone di espansione e di periferie.
[…] In effetti, il XX secolo non è stato clemente con la città di Genova, con il suo patrimonio architettonico, con il suo paesaggio e, di conseguenza, con la sua identità storica e culturale: le industrie e le fabbriche sorte a partire dalla metà del XIX scolo nel ponente cittadino hanno gradualmente fagocitato le meravigliose spiagge di sabbia di Sampierdarena e Cornigliano e hanno trasformato radicalmente i contesti signorili in cui sorgevano eleganti palazzi e pregevoli ville; ora quegli insediamenti hanno cessato il loro ciclo produttivo e stanno ormai lasciando il posto a centri commerciali e impianti ricreativi, senza che rimanga traccia, neppure a livello di archeologia industriale, di un recente passato che ha comunque contribuito a sollevare le condizioni economiche e sociali di gran parte della popolazione. L’ampiamento del porto verso Sampierdarena, avviato sotto il fascismo con l’intento di creare una base militare, e i successivi riempimenti operati per la realizzazione dell’acciaieria, dell’aeroporto, del Porto Petroli e, infine, dell’interscalo container di Voltri hanno definitivamente compromesso il paesaggio costiero del versante
occidentale del capoluogo ligure. Nel centro cittadino ai danni bellici causati dai bombardamenti aereonavali durante la seconda guerra mondiale si sono aggiunti, nei decenni seguenti, i non meno disastrosi sventramenti di interi quartieri medioevali e rinascimentali (da Madre di Dio a Portoria) e la distruzione di complessi ottocenteschi, come quello di Borgo Pila e di Corte Lambruschini..
Petrillo ritiene che in un simile panorama emergano “periferie di periferie”, realtà che sorgono ai margini di zone già segnate dal declino quali, ad esempio, il Cep a Voltri o il comprensorio di Begato a Rivarolo: “si tratta di quartieri per molti versi cresciuti in parallelo, edificati a distanza di qualche anno, ultime espressioni dell’edilizia pubblica tra anni Settanta e Ottanta. Si tratta di modelli insediativi completamente avulsi dal tessuto urbano, di un’urbanistica collinare fuori scala e fuori luogo, nata in un’epoca in cui la città aveva disperata fame di case e poco denaro da spendere, realizzazioni già anacronistiche e tristemente superate rispetto ai modelli dell’edilizia popolare europea coeva. Quartieri segnati da numerose debolezze, che si manifestano non solo nel livello di reddito e nella composizione demografica dei residenti, ma sono evidenti anche sul piano territoriale e infrastrutturale. Zone ‘amorfe’ della città che hanno a lungo funzionato come strumento di confinamento sociale”. (Petrillo 2016:206-207)
Negli ultimi anni, tuttavia, alcuni di questi insediamenti hanno visto i loro destini mutare soprattutto a seguito di interessanti processi di empowerment e intelligenti operazioni di mixité interculturale promossi dai loro stessi abitanti. Risultati concreti si sono registrati al Cep (Centro edilizia popolare), oggi denominato Quartiere Ca’ Nova, sorto tra la fine degli anni sessanta e i primi anni settanta in una zona collinare dell’estremo ponente genovese, tra i quartieri di Voltri e di Prà, precedentemente destinata a uso agricolo e rimasta, da allora, priva di servizi e mal servita dai mezzi pubblici: “una realizzazione che ricorda quanto a collocazione e tipologie architettoniche la banlieue parigina, destinata dichiaratamente a ospitare ceti popolari […] La realizzazione degli edifici è risultata decisamente inadeguata rispetto agli intenti originari dei progettisti e ha consegnato fin dall’inizio ai residenti abitazioni e qualità della vita quantomeno discutibili, una quotidianità fatta anche di piogge in casa, di ballatoi senza manutenzione, di ascensori che funzionano a singhiozzo, di infrastrutture esterne lasciate deperire”. (Petrillo 2016:209-210)
Opportunamente Petrillo ricorda come il Cep sia stato fino a tempi recenti risucchiato da una “caratteristica spirale di svalutazione pubblica e di autosvalutazione da parte degli abitanti stessi”, divenendo un caso emblematico di schlechte Adresse, ossia un “cattivo indirizzo”, secondo la definizione coniata da alcuni sociologi tedeschi per indicare quelle vie immediatamente associate ai luoghi più malfamati della città <2.
Nel corso degli anni novanta, però, la composizione degli abitanti del Cep inizia a cambiare: agli operai della prima ora, provenienti in gran parte dal meridione, si aggiungono centinaia di migranti magrebini ma anche un discreto numero di rappresentanti dei ceti medi, spinti verso il comprensorio dall’aumento dei prezzi e dalla rarefazione degli affitti in altre zone. Da questa prima, debole mixité culturale scaturirà, negli anni seguenti, una energia capace di trasformare lentamente il volto del rione: una energia alimentata da un comitato di quartiere (e non dalle istituzioni cittadine) che, guidato dall’unico farmacista della zona, Carlo Besana, si impegna a creare spazi collettivi e a promuovere iniziative culturali, sportive e ludiche, senza mai trascurare la nuova identità multiculturale del Cep: l’apertura di un bar e di un circolo, l’istituzione di corsi di alfabetizzazione digitale per anziani (elogiati ufficialmente dal ministero della Pubblica istruzione), l’ideazione della “Ceppions League”, che vede misurarsi diverse squadre calcistiche di ragazzini, l’ironica contrapposizione della “Notte grigio topo” alle “notti bianche” organizzate con finanziamenti pubblici nei centri cittadini e ancora, fondamentale tassello, la costruzione del PalaCep, una tensostruttura di circa mille metri quadri realizzata con fondi pubblici che, dalla sua inaugurazione avvenuta il 5 luglio 2009, ha accolto importanti eventi sportivi, culturali e musicali ma, soprattutto, ha contribuito in modo sostanziale al riscatto del quartiere, richiamando su di esso un’attenzione positiva che ha inorgoglito innanzitutto gli abitanti più giovani, ora fieri di indossare magliette con la scritta “I love Cep” prodotte sull’onda di un entusiasmo collettivo che ha indotto i promotori di questa “rinascita” a lanciare addirittura un “Cep Pride”. Petrillo (2016) riflette su come si sia così generata “una controtendenza importantissima rispetto ai processi canonici di etichettamento e di inferiorizzazione dei quartieri, quegli ‘effetti di luogo’ che si generano all’intersezione tra dimensione spaziale e sociale, e che producono con la loro azione una vera e propria squalifica sociale e una stigmatizzazione territoriale <3”.
Se la “rinascita” del Cep si deve soprattutto ai suoi abitanti, in anni più recenti anche l’amministrazione civica ha iniziato a fare la sua parte, finanziando significativi, seppur parziali, interventi di ristrutturazione
edilizia e di decoro urbano: 348 alloggi di proprietà comunale gestiti da A.R.T.E. (Azienda Regionale Territoriale per l’Edilizia della Provincia di Genova) sono stati ristrutturati e ridipinti, secondo un nuovo “piano del colore” studiato dagli operatori del Servizio Estetica Urbana del Comune che ha affrancato il quartiere dal tetro grigiore in cui era immerso <4; accorpando spazi commerciali non utilizzati sono stati creati due alloggi protetti e quattro appartamenti riservati a ragazze madri; una “piastra” su pilotis, rifugio di drogati e spacciatori e ricettacolo di carcasse d’auto (a dimostrare la scarsa lungimiranza nella reiterazione degli stilemi dell’architettura funzionalista senza tenere conto dei contesti), è stata demolita; una abitazione contadina ormai in rovina è stata trasformata in una “casa famiglia” per minori (Voltri Due, 2017).
Sono, questi, solo i primi passi, perché il quartiere continua a essere penalizzato da una carenza di servizi e da un tasso di disoccupazione tra i più elevati della città che si riverberano sul suo tessuto sociale; nondimeno, è evidente che al Cep la mixité culturale, unita a quella che Petrillo definisce l’“intelligenza delle periferie” (Petrillo, 2013, 2016), ha dato vita a un processo di empowerment ancora sconosciuto in quartieri cittadini con una storia e una composizione sociale molto simile <5.
È il caso del comprensorio di Begato, sul quale domina l’imponente fabbricato della cosiddetta “Diga”, progettata e realizzata tra il 1978 e il 1985 dall’architetto Pietro Gambacciani con gli architetti Garibaldi, Gambino, Ferreri e l’ing. Tomasinelli (Gambacciani,1978; 1980) suddivisa nella “Diga rossa” e nella “Diga bianca” – che contano, rispettivamente, 276 e 245 alloggi popolari – accoglie al suo interno tutte le profonde contraddizioni e lacerazioni che il fallimento del progetto lecorbusiano della “macchina per abitare” porta inevitabilmente con sé, a meno che la “macchina” non subisca un radicale cambiamento della sua programmatica destinazione d’uso (quella di fornire alloggio alla classe lavoratrice meno abbiente) e si trovi al centro di processi di gentrificazione, come già è avvenuto nel caso del “prototipo” di Marsiglia e come sta avvenendo per le altre tre Unité d’Habitation realizzate da Le Corbusier in Francia, nonché per quella di Berlino <6.
Ma a Genova, nel bene e nel male, le cose sono andate in modo diverso e Begato è oggi una delle periferie più degradate di Italia: l’idea originaria era quella di farne una città immersa in un parco urbano, con negozi e servizi nei corridoi delle Dighe, proprio come nei progetti di Le Corbusier per le Unité d’Habitation. Invece i negozi non hanno mai aperto, i servizi non sono mai stati istituiti, il parco è sparito ingoiato dall’incuria e dalla fame di metri quadri: in pochi anni, intorno al colosso di Gambacciani, sono stati costruiti molti altri edifici, per un totale di 1600 alloggi in un’area completamente priva di infrastrutture. L’alta concentrazione di situazioni di indigenza e di marginalità (soggetti affetti da psicopatologie, ex carcerati o detenuti in regime di libertà vigilata, tossicodipendenti, disoccupati, occupanti abusivi) ha favorito comportamenti illegali e diffuso un senso di rassegnazione e di abbandono tra gli abitanti: il degrado sociale, associato a quello ambientale, favorito da una edilizia realizzata a basso costo e con standard di qualità minimi, ha determinato la cattiva fama del quartiere e il suo conseguente isolamento, al punto che molti aspiranti assegnatari di case popolari hanno rifiutato di prendervi alloggio <7.
Da più parti, e da tempo, si invoca la demolizione della “Diga”; a questa richiesta fa da contraltare la ricerca di strategie per il risanamento edilizio e per la riqualificazione sociale dell’intero quartiere di Begato che puntano, in primo luogo, al coinvolgimento attivo degli abitanti (Niri, 2005). Nonostante l’impegno dei comitati di quartiere e degli educatori di strada del Consorzio Agorà i risultati sono ancora lontani da quelli raggiunti al Cep, soprattutto per quanto riguarda la creazione di spazi collettivi e l’ideazione di iniziative partecipate che possano favorire la coesione sociale <8.
[NOTE]
2.-Cfr. Petrillo 2016, pp. 210-211; Petrillo si riferisce in particolare a Carsten Keller, Armut in der Stadt. Zur Segregation benachteiligter Gruppen in Deutschland, Westdeutscher Verlag, Opladen/Wiesbaden 1999.
3- Cfr. www.pianacci.it/articoli/2009/039_art_Blue_CEP_Pride_novembre2009.pdf 4. Petrillo 2016, p. 220; Petrillo rimanda a proposito a Pierre Bourdieu, “Effetti di luogo”, in Id. (a cura di), La miseria del mondo, Mimesis, Milano 2015
4.-Tra i possibili esempi, a livello internazionale, del potere “taumaturgico” dell’impiego del colore in contesti urbani degradati si vuole qui ricordare per la sua eccezionalità il caso di Tirana, dove dal 2000 l’allora sindaco-artista Edi Rama, oggi Primo Ministro dell’Albania, ha avviato un programma di riscatto della città promuovendo la coloritura delle facciate degli edifici, secondo un progetto in cui il colore non assolve a una mera funzione estetica o artistica bensì a una profonda necessità politica. L’artista albanese Anri Sala ha dedicato al progetto di Edi Rama la sua pluripremiata opera video del 2003 Dammi i colori; quello stesso anno, durante la Biennale di Tirana, Anri Sala e Hans Ulrich Obrist hanno invitato diversi artisti internazionali, tra cui Olafur Eliasson, Liam Gillick e Dominique Gonzalez-Foerster a progettare interventi per trasformare in opere d’arte le facciate di anonimi complessi abitativi. Tra i molti articoli e materiali consultabili risulta particolarmente interessante la documentazione video dell’incontro con Edi Rama e Anri Sala organizzato dalla Tate Modern di Londra nell’ambito del ciclo di conferenze Architecture + Art: Crossover and Collaboration, https://vimeo.com/8254763 (data ultima consultazione: 19 febbraio 2017).
5.- Cfr. Petrillo 2016, pp. 223; il riferimento è a John Friedmann, Empowerment: the Politics of Alternative Development, Wiley-Blackwell, Oxford 1992. Petrillo riflette sulle potenzialità della mixité anche nel suo Peripherein. Pensare diversamente la periferia, cit., p. 129 ss., in particolare prendendo posizione contro le scettiche considerazioni espresse da Jacques Donzelot in Quand la ville se défait. Quelle politique face à la crise des banlieues?, Seuil, Parigi 2006.
6.- Si vedano a proposito i siti delle Unité d’Habitation di Marsiglia (http://mamo.fr), Rezé (http://maisonradieuse.org), Briey-en-Forêt (http://www.lapremiererue.fr), Firminy (http://sitelecorbusier.com) e Berlino www.corbusierhausberlin.de).
7.- Cfr. Roberto Bobbio (a cura di), Il caso “Diga”. Strategie di riqualificazione dell’edilizia sociale a Genova, CD Rom, INU edizioni, Roma 2010; Giovanna Franco, “Le dighe del quartiere Diamante a Genova Begato: problemi di manutenzione e di riqualificazione”, Il Progetto sostenibile, n. 25, 2010, pp. 72-75; Ead., “Strategie di riqualificazione dell’edilizia sociale. Il caso «Diga» a Genova”, Techne, n. 03, 2012, pp.262-269, www.fupress.net/index.php/techne/article/download/10850/10463, (data ultima consultazione: 19 febbraio 2017).
8.- La mancanza di spazi di aggregazione che offrano occasioni per “togliersi dalla strada” risuona, per esempio, nelle parole di Daniele La Vittoria, giovane rapper che lotta quotidianamente per poter coltivare il suo amore per la musica e che sogna di potere un giorno offrire gratuitamente ai ragazzi di Begato l’opportunità d’imparare a suonare strumenti e comporre basi in una struttura da lui stesso gestita. Cfr. “‘Il rap mi salverà’. La storia di Daniele La Vittoria e della sua musica dal ‘ghetto’ di Begato a Ge”, https://www.youtube.com/watch?v=TK-rz_B8G1w (data ultima consultazione: 19 febbraio 2017).
Paola Valenti (Università degli Studi di Genova), Periferie al centro: gli spazi liminari della città di Genova tra crisi dell’architettura, identità dei luoghi e interventi di rigenerazione urbana e culturale, on the w@aterfront, vol. 54 – 10 maggio 2017

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