La sconfitta di Manzo contro il ligure Ricca, dovuta alla minore abilità dei suoi terzini

Augusto Manzo a Torino nella finale del campionato di pallone elastico persa contro Balestra (1955). Fonte: tonyface.blogspot.com

L’espressione “gioco del pallone” viene solitamente utilizzata per indicare il calcio, ma in realtà si riferisce a una serie di sport simili tra loro, detti anche sport sferistici, che si praticano in un impianto particolare, lo sferisterio. Tra questi si possono annoverare il pallone elastico, oggi chiamato pallapugno, il pallone col bracciale, la pantalera, la pelota e molti altri; si tratta di attività che si sono sviluppate e oggi sopravvivono in aree determinate e specifiche, che vanno dal Piemonte alla Liguria, dalla Romagna alla Toscana, ma che nel corso del tempo hanno visto l’ideazione di varianti che hanno raggiunto anche il Trentino, il Veneto, la Lombardia e le Marche. La presenza della palla è fondamentale
[…] Questi sport hanno trovato posto anche in letteratura: solo per citare due nomi noti, nell’Ottocento Giacomo Leopardi prima, con la canzone “A un vincitore nel pallone”, Edmondo De Amicis poi, con il romanzo “Gli Azzurri e i Rossi”, hanno celebrato il gioco del pallone nelle sue varie forme. Fa capo al periodo di cui ci si sta occupando, invece, Beppe Fenoglio con “Paese”, opera rimasta incompiuta e pubblicata postuma nel 1973: l’ambientazione si colloca tra le due guerre mondiali, ma il testo venne scritto, secondo gli studiosi, tra il 1954 e il 1957-58 e vi sono testimonianze di amici che ricordano l’autore come un appassionato spettatore di partite giocate nello sferisterio Mermet di Alba. Come per De Amicis, vi sono altri testi in cui si accenna al gioco del pallone, ma “Paese” è quello più importante, perché è presente un’analisi delle sue caratteristiche, dei suoi effetti, della sua considerazione ed emerge il punto di vista dell’autore.
Dell’opera sono rimasti solo quattro capitoli, il primo, il secondo (che si interrompe bruscamente), il terzo e l’undicesimo, tutti ambientati nelle Langhe, luogo tanto amato e descritto da Fenoglio; in particolare, si fa riferimento alla località di San Benedetto. Il gioco appare rapidamente nel primo capitolo, mentre il terzo è dedicato per intero proprio a questo sport, poiché arriva nel piccolo paese un campione che deve vagliare le capacità e l’abilità di uno dei suoi abitanti per poterlo, eventualmente, inserire in squadra.
Nell’osteria che dà sulla piazza si trovano, oltre alla padrona Jeanne, il medico Durante, il messo comunale, il falegname Gino e Paco, piccolo “imprenditore”: gli uomini discutono della propria vita e dei propri fallimenti, in campo amoroso o lavorativo, facendo emergere, a poco a poco, «la propria natura di sconfitti» <135. Durante ha voglia di giocare: «Farei volentieri una partita al pallone. Con dei giovani s’intende. Io batterei e basta. Disse Gino: – Sarà difficile che oggi si combini la partita. Ho visto Placido andare al suo prato e Sergio con la posta a Bossolasco, e senza quei due di buone partite non se ne combinano» <136. Paco minaccia il medico, a cui ha offerto un passaggio, di lasciarlo tornare a piedi, ma l’uomo sottolinea che la cosa sarebbe durata poco e vi è una prima descrizione del gioco, in cui emerge la figura di un suo abile rappresentante.
“- Io batterei soltanto, ho detto, poi mi ritirerei ben bene nel vuoto della porta del fornaio. Tirano certi palloni al volo così forti che se ti beccano nel ventre ti fanno secco. Ma mi piace troppo. Mi piace e mi spaventa insieme. Specie il ricaccio di Sergio. Ricaccia il pallone come se volesse vendicarsi di un torto, un torto grave. Io mi caccerei nell’uscio e a pallone passato mi sporgerei a indicare ai miei compagni il rimbalzo del pallone.Se rimbalza. Ma coi palloni di Sergio ne rimbalza uno su cento, tutti gli altri rasoterra che nemmeno si vedono. Non hai tempo di postare il braccio, che Sergio ti ha già fatto il punto”. <137
Il pallone fa così il suo ingresso nella narrazione, però «la sua pratica pare configurarsi in una prospettiva mitica, come un’alternativa alle frustrazioni della vita miserabile sulle Langhe» <138. Un po’ alla volta gli avventori del locale se ne tornano al lavoro o a casa, ma Durante rinuncia al passaggio di Paco, e si reca sulla piazza, ossia sul campo di gioco, occupato solo dai conigli del fornaio Placido e delimitato su tre lati dalla chiesa, dalla casa del messo e dal forno, mentre il quarto dà verso le colline e un piccolo dirupo. Il vento soffia e aumenta il senso di solitudine dell’uomo che, pur pentendosi di essere ora a piedi, preferisce essere lì piuttosto che a casa con la moglie e «si impegna in una sorta di partita immaginaria, nella quale le frustrazioni della realtà possono essere compensate dall’ordine sublime, dalla perfezione del mito. […] Ma è un’esperienza puramente onirica, visionaria, dove tutto è perfetto persino nei minimi dettagli soltanto perché non è reale» <139.
“Oggi non si gioca: comunque finse di battere un pallone e fece tutte le mosse necessarie e tutte bene. Si strinse alla vita la giacchetta, cambiò piede d’appoggio, bilanciò in mano l’immaginario pallone, fece cinque passi, sempre più corti e rapidi, mirò alla pantalera e liberò il pallone; vibrato e radente. Poi si rilassò la giacchetta e disse a mezza voce: – Sarebbe stata una battuta di prim’ordine. Il pallone sarebbe svirgolato fra i due asticini, preso effetto e volato raso al muro, vicinissimo agli strappi del reticolato, che nessuno avrebbe potuto ricacciare. Nemmeno Sergio”. <140
Il gioco, allora, come si è detto, sembra essere l’unica via d’uscita da una vita misera, povera, senza nessuna possibilità di migliorarsi; «quante volte, per il richiamo di una partita, aveva visto uomini abbandonare qualunque cosa avessero in mano pur d’esserci. Li vedevi comparire da un momento all’altro, rattenuti, ingiuriati e criticati dalle mogli, ma invano; venivano con le scarpe di corda e la fettuccia per fasciarsi il pugno» <141. Emerge un chiaro giudizio negativo, una luce di inequivocabile condanna illumina il gioco e ne sono portatrici le donne, custodi della famiglia e del lavoro, nel tentativo di fermare i mariti che lasciano tutto ciò che stanno facendo pur di essere presenti in campo, anche, probabilmente, come spettatori o protagonisti, a volte, di scommesse <142.
Nel terzo capitolo quanto si è già visto viene maggiormente sviluppato e si aggiungono anche altri ingredienti. In paese è arrivato un campione, Augusto Manzo, che è rimasto a metà campionato senza uno dei due terzini ed è lì per visionare ed eventualmente assumere Sergio, il giocatore più bravo e la figura mitica evocata nei discorsi di Durante nel primo capitolo. L’atleta è accompagnato dal terzino che è ancora in squadra e che giocherà contro Sergio per verificarne le capacità e da un terzino ritiratosi dall’attività, che valuterà il candidato da bordo campo. In breve tempo la piazza si riempie di uomini che hanno abbandonato la loro occupazione per vedere il Manzo, campione italiano di pallone elastico, giunto direttamente da Alba <143. «La notizia si sparse in un baleno. Gente che stava a lavorare sulla mezzacosta di Mombarcaro fischiò verso casa perché venissero a ritirare le bestie e come si trovava, nelle flanelle fradice di sudore e nei calzoni impastati di letame. Quelli del paese già si stringevano intorno al campione» <144. Sergio non è ancora arrivato, perché lavora all’ufficio postale: l’occasione che ha ora davanti si profila per lui come un riscatto sociale da lungo atteso, non può assolutamente perdere il treno che sta per passare, altrimenti sarebbe costretto a continuare la vita misera che ora conduce; il pallone non è dunque solo uno svago o un divertimento ma è qualcosa di più, che può per lui diventare un mestiere, il più bello che conosca. Ciò che può verificarsi è una specie di favola, in cui il giovane di umile condizione si trova per caso di fronte al campione e può dimostrare il suo valore, facendo ciò che gli riesce meglio, ossia giocare allo sport che ama.
Tutto ciò ha il sapore del mito e infatti «non manca neppure la deificazione della figura di Augusto Manzo attraverso il ricorso ad un lessico di netta impronta religiosa, sicché il pallone pare per un momento assumere anche in Fenoglio l’aspetto di una fede» <145. Il campione trova il suo posto sulla terrazza di Fresco, sollevato rispetto a tutti, e i suoi due accompagnatori si rivolgono a lui utilizzando l’iniziale maiuscola, proprio come si fa per le divinità. Menemio, il terzino in pensione, non solo ha idolatrato Manzo («ne ho vinte di partite e di coppe e di medaglie con Quello lassù» <146) e suggerisce un paragone ardito a Sergio alla fine della partita («ricordati che Lui per te è il Padreterno» <147), ma è disposto a morire pur di non farlo perdere e arriva a rinnegare perfino le sue origini, perché vorrebbe essere nato anche lui nello stesso paese del collega <148. Anche l’altro terzino, sebbene in misura ridotta, guarda con estremo rispetto Manzo e per questo non manca ancora una volta l’uso della maiuscola: «neanche Lui si fa aspettare tanto» <149. Dal canto suo, il campione si comporta come tale, accetta tutte le cortesie del momento e dà il via all’incontro, riferendo una serie di consigli a Sergio, perché tutto possa andare per il verso giusto.
Nonostante quanto finora visto, questi ospiti restano pur sempre uomini e la descrizione del loro fisico li riporta alla realtà, all’imperfezione, in qualche modo alla mediocrità che accomuna tutti. «A differenza dei campioni di De Amicis, dai fisici perfetti e scultorei, modelli supremi di efficienza e insieme di armonia, uomini di una razza superiore, i giocatori di pallone di Fenoglio sembrano piuttosto creature deformi, quasi mostruose, simili, più che a veri eroi, a bizzarrie da circo» <150. L’uno dopo l’altro, i tre personaggi vengono passati in rassegna e l’autore sembra voglia dare un messaggio molto chiaro, ossia quello di andare oltre le apparenze e di rimanere ancorati alla realtà, perché non tutto ciò che sembra positivo e magnifico poi si rivela tale in ogni suo aspetto. Manzo «era un uomo altissimo, e con un gonfio torace, e la spalla destra sensibilmente più alta dell’altra. Quando poi per il caldo si rimboccò le maniche, videro che il suo avambraccio destro era grosso e tubolare come un mattone, sparito il polso» <151; inoltre i presenti si accorgono che «gli difettava la gamba, marciava lento e pesante e non troppo coordinato»152. Il terzino titolare è «giovane benché già molto stempiato e ora che si sfilava la camicia per restare in canottiera rivelava un fisico minuto e secco, ma come intessuto di filo di ferro»153; l’altro «camminava come un orso e teneva sempre le mani aperte e rivoltate, come se ancora oggi si aspettasse, ad ogni passo, un pallone da fermare» <154.
Non è tutto. Menemio infatti è tisico e Porello, l’altro terzino, spiega a Sergio: «La tosse ti viene certamente. Dono pieno di correnti d’aria, vedrai, e tu hai sempre la maglia fradicia di sudore. Vedrai. […] Un bel giorno sputi come hai sempre sputato, ma stavolta è rosso. Ricca sputa rosso, Gavello idem, idem Rabino. E ti dico tre capi quadriglia, tre Padreterni» <155. Il gioco, dunque, in qualche modo distrugge il fisico, mina fortemente la salute e ciò è il rovescio della medaglia che l’autore mette in evidenza. Forse non vale la pena nemmeno per il guadagno; il sacrificio di Menemio è stato inutile e lo stesso il suo servilismo: «Ne è innamorato, peggio che fosse una bella donna. Innamorato, e non s’è avanzato una lira, soltanto una bella etisia. E il Padreterno non gli viene incontro d’una lira, mai che gli paghi una birra e un panino al bar dello sferisterio» <156; la divisione dei profitti, frutto spesso delle scommesse, è solo apparentemente equa: «Vedrai il mucchiettino che spetterà a te. E se a te pare abbastanza, è perché non vuoi pensare che hai gli stinchi rotti e le unghie asportate e i fianchi ammaccati. Loro no, ma vedrai il mucchio suo di Lui e del secondo» <157. La sconfitta di Manzo contro il ligure Ricca, secondo il campione stesso, non è attribuibile alla sua incapacità o a qualche suo errore, bensì alla minore abilità dei suoi terzini, rispetto alla forza degli altri due; viene spazzata via, dunque, ogni sorta di sportività e vi è solo il desiderio di vincere per dimostrare una superiorità contro una rappresentativa perfino di un’altra regione.
Gli elementi necessari per una partita sono allora la cattiveria, la violenza, l’assenza di pietà, la determinazione di fronte a tutto nel fare il punto o nell’impedire all’avversario di farlo; Fresco tranquillizza Manzo sulla bravura di Sergio, afferma che «è forte. E gioca con passione e con cattiveria» <158. All’inizio la partita non trasmette particolare entusiasmo, sebbene Sergio dimostri capacità e bravura.
“Passato alla battuta, Sergio batté storto, perché Ugo ribattesse alla meglio. Così fu e Sergio ebbe un pallone comodo per la ribattuta. Con la coda dell’occhio vide il terzino chiudergli la visuale e glielo sparò addosso rasoterra. Il terzino intuì la traiettoria e glielo arrestò con due stinchi. «Mi hai fatto il punto, – disse Sergio, – ma gli stinchi ti faranno male ancora domattina ad Alba». Il terzino si era voltato per non dare a Sergio la visione della sua sofferenza”. <159
Poi Sergio dà una dimostrazione di essere bravo anche con la volata, sebbene il campione gli abbia detto che non gli interessa, visto che ai terzini capita poco di praticarla. «La descrizione della partita di pallone è tutta imperniata su immagini di violenza bellica […] e ferocia primitiva» <160; l’arrivo di una ragazza, Anna, innamorata di Sergio e ricambiata, ma amata anche da Ugo, provoca uno scoppio di gelosia e «la partita di pallone si trasforma in una specie di combattimento bestiale per la conquista della femmina. […] L’eros non è spinta al miglioramento delle doti naturali del campione, non genera colpi sublimi per eleganza, ma è corpo a corpo cruento, lotta ad oltranza, sorprendente e imprevedibile sovvertimento delle gerarchie» <161. Il tutto, però, giova a Ugo, che ritrova un eccezionale quantitativo di forze e una maggiore abilità, destinati presto a scomparire, quando si accorge che la ragazza se ne è andata e non lo sta più osservando.
“Sergio ebbe un pallone comodo e lo spinse in maniera da far arrendere Ugo, ma questi recuperò miracolosamente e di volo lo rimandò incredibilmente. Sergio era così convinto di averla spuntata che era venuto molto sotto. Si vide sopravanzare da quell’insolito pallone, recuperò con un tale sforzo che i vicini lo sentirono rantolare, colpì forte e bene, lungo, ma Ugo rivenne di volo e lo scagliò di nuovo lontano. Sergio rispose da fermo, col braccio quasi sopra la testa. Porello si avventò per finirlo, Ugo gli urlò di lasciarlo a lui, ma Porello era il terzino del campione, lo finì lui alle spalle di Sergio”. <162
Il gioco è da poco ripreso perché è stato interrotto da Emilio Cogno, un contadino che ha un magazzino che dà sulla piazza e per poter scaricare della merce che trasporta con degli animali ha fatto sospendere la partita, pur sapendo che c’è il campione a vederla. Il fatto, comico in sé, assume un significato importante se si considera che i valori di cui sono portatrici le donne, il lavoro e la famiglia, vengono rappresentati proprio da un uomo che si disinteressa del gioco e si preoccupa di cose ben più importanti. Il breve scambio di battute tra Fresco e Cogno testimonia ciò: «Non la smetti mai di lavorare? – Infatti, voi giocate – disse spregioso Cogno. – Io sono sulla fatica, voi sul gioco. Per non morire della vostra carità» <163. L’uomo, rivolgendosi a Sergio, lo appella come poco accorto nello scegliere la via del gioco e destinato a peggiorare, a trasformare questa stupida ingenuità in qualcosa di peggio: «Tabalori sei nato, ora diventerai lazzarone completo, perché mezzo lo sei, a fare il giocatore professionista…» <164. Emilio accetta il proprio destino di lavoro perché «sa che la tentazione della fuga dal paese verso un altrove utopico come quello che sembra spalancarsi di fronte agli occhi di Sergio è soltanto illusione» <165 e non ha come fine ultimo quello di arricchirsi, ma di evitare la miseria, «considera cioè il lavoro un dovere in sé, la condizione necessaria del suo essere uomo: contrappone l’etica del lavoro alla tentazione, apparentemente seducente, ma in realtà perniciosa del gioco. E accanto al lavoro è animato dal senso della famiglia» <166. L’uomo, infatti, chiama a sé la figlioletta Agostina e le fa ripetere alcune frasi, che spiegano come Sergio non lavori più alla posta, ma allo sferisterio, e sia un “tabalori e un lazzarone”. Si tratta di «un momento educativo, un additare la scelta degli affetti famigliari come il valore autentico, di contro al sogno di una vita fondata sull’assenza di responsabilità, sul gioco e sul piacere» <167.
Il pallone assume dunque vari significati in Fenoglio, a seconda che si scelga come punto di vista quello del giovane frustrato o dell’uomo maturo o del già navigato giocatore; la speranza, la seduzione, la delusione si intrecciano inequivocabilmente e il bilancio che viene tracciato è certamente negativo.
“Nella narrativa fenogliana il pallone si presenta a prima vista come l’alternativa ad una realtà di sofferenza e di dolore, il riscatto dalla sconfitta che è l’essere prigionieri in quell’angolo dimenticato da tutti che è San Benedetto, il dover dipendere da quella terra porca che tanto lavoro esige ed è tanto avara di frutti; e in tal senso, il gioco del pallone può apparire quasi una sorta di culto. Ma è un’alternativa già irrimediabilmente minata fin dall’inizio, perché non esclude il male e la sofferenza, anzi li accentua; reca con sé l’idea della fuga dal proprio dovere, dal lavoro e dalla famiglia, per una vita da oziosi, da sradicati. Soltanto i tabalori, gli sciocchi ingenui che vivono il dramma della loro sconfitta nel mondo chiuso di San Benedetto, possono innalzarlo alla dimensione sublime dell’utopia, possono riporvi la fiducia che si ripone in una religione”. <168
Il mondo al di fuori del paese, dunque, non è migliore, anzi, rischia di essere peggiore, dominato ancor più dall’avidità, dallo scontro per primeggiare, dalla necessità di emergere sugli altri per non scomparire e non essere presto dimenticato. Il pallone allora non è più un mito, il mestiere più bello, ma un lavoro come un altro, con la sua dose di rischio per la salute, il guadagno basso e in più la possibilità maggiore di perderlo e una religione tutta sua, che rasenta il blasfemo e celebra l’uomo in quanto tale, non rendendosi conto che è caduco e costretto a perire. Porello l’ha capito ed è caustico, quasi irriverente, nel descrivere a Sergio, che è stato scelto e ormai vive in una specie di sogno, il mondo in cui lui si trova, nel tentativo di tenerlo con i piedi per terra.
Oltre l’uomo, oltre il lavoro, oltre il gioco, oltre la ragione, rimane solo una cosa: il destino. Ugo, alla richiesta di Sergio di battere buoni palloni, aveva risposto affermativamente, sottolineando anche, però, che, oltre l’intenzione, «poi i palloni sono rotondi» <169 (solo dopo si scopre la sua volontà di vendicarsi per motivi amorosi, che si concretizza con tiri troppo mosci); il capitolo si conclude con una espressione simile del terzino, che esprime l’ineluttabilità dei fatti: «da noi si dice che la palla è rotonda» <170.
“È il riconoscimento dell’imprevedibilità del destino, dell’impossibilità dell’uomo di controllarlo, a dispetto del proprio impegno e della propria volontà. […] Il finale lascia trapelare l’idea che proprio il destino si sia fatto carico della vendetta più subdola, dando a Sergio la possibilità di entrare a far parte di quel mondo dei giocatori professionisti del pallone, che è tutt’altro che il luogo del mito e dell’utopia, come crede la gente del paese”. <171

Augusto Manzo. Fonte: tonyface.blogspot.com
Augusto Manzo. Fonte: tonyface.blogspot.com
Fonte: tonyface.blogspot.com
Fonte: tonyface.blogspot.com

[NOTE]
135 VALTER BOGGIONE, Il mito del pallone. Dittico, in Campioni di parole: letteratura e sport, cit., p. 131.
136 BEPPE FENOGLIO, Paese, in Un Fenoglio alla prima guerra mondiale, a cura di Gino Rizzo, Torino, Einaudi, 1973, p. 19.
137 Ivi, pp. 19-20.
138 VALTER BOGGIONE, Il mito del pallone. Dittico, in Campioni di parole: letteratura e sport, cit., p. 131.
139 Ivi, p. 132.
140 BEPPE FENOGLIO, Paese, in Un Fenoglio alla prima guerra mondiale, cit., p. 28. La pantalera è una piccola tettoia su cui far rimbalzare la palla al momento del servizio, al posto del battitore: in questo e in altre piccole varianti differisce dalla pallapugno e costituisce la versione più tradizionale del pallone elastico, perché può essere giocata in spazi ristretti, senza il bisogno di un impianto apposito. Avendo regole leggermente diverse è uno “sport autonomo”, detto appunto “pantalera” o “pallapugno alla pantalera”.
141 Ivi, p. 29.
142 La posizione di De Amicis è diametralmente opposta, sia in relazione al campo di gioco e ai suoi protagonisti, sia in relazione al pubblico. In Fenoglio la piazza è popolata dai conigli mentre Durante prova la sua battuta; dunque «lo sferisterio non è il teatro dello scontro tragico col destino, alla maniera di De Amicis, né il personaggio ha la dignità necessaria per misurarvisi», ma è «il luogo dell’impotenza, della rassegnazione miserevole, inesorabilmente degradato». VALTER BOGGIONE, Il mito del pallone. Dittico, in Campioni di parole: letteratura e sport, cit., p. 132. Del secondo invece: «lungi dal costituire un’élite aristocratica fondata sul culto della bellezza e della virtù, come in De Amicis, il pubblico fenogliano del pallone è una combriccola di sfaccendati, persino di piccoli delinquenti», come emerge anche in altri suoi racconti. Ivi, p. 134.
143 Augusto Manzo non è un personaggio di fantasia, ma è un campione realmente esistito. Ricoprì il ruolo di battitore e gareggiò sia nella pallapugno, sia nel pallone col bracciale; iniziò la sua carriera con la prima e vinse i titoli italiani nel 1932, 1933 e 1935. Passò poi al pallone col bracciale, vincendo nel 1937 e nel 1942. Dopo la guerra tornò a dedicarsi alla pallapugno e militò in una squadra di Alba, vincendo cinque titoli consecutivi dal 1947 al 1951.
A lui è dedicato un articolo di Giovanni Arpino apparso su «Il Giornale» il 6 marzo 1980; si tratta di una celebrazione dell’uomo e dello sportivo, con numerosi riferimenti aulici. «Una palla che pesa centottanta grammi. Ma, come in ogni gioco di palla, è solare, strumento e simbolo. Augusto Manzo l’ha battuta in volo per anni e anni, e ancora v’è gente che ricorda quel rimbalzo, quel colpo possente, quel micidiale tocco che va a segno. È stato il re del pallone elastico, una disciplina che ormai impallidisce mentre avrebbe meritato il lauro olimpico, perché chi “sa” di pallone elastico è atleta che ha scienza di corsa, di pesi, di scatto, di belluinità agonistica. Augusto Manzo incarnò tutto questo sapere muscolare e psichico». E ancora: «un re, dal bicipite mostruoso, dal polso destro che merita un calco, ma tenero e leale e solenne come un esametro». Si colgono la sua fama, le scommesse che venivano fatte, il suo desiderio di vincere proprio perché era il campione, la sua popolarità; è la testimonianza vivente di uno sport che sta scomparendo. La conclusione: «Ecco dove la potenza atletica si rivela: quando lascia intravvedere il velluto interiore, tenace come la scorza che lo ricopre. Nessun sospiro per Manzo, mai. Ma per la razza umana che lui rappresenta, che non sforna più simili individui: qui Platone, più ancora di Pindaro, avrebbe versato una lacrima». GIOVANNI ARPINO, Il re delle Langhe, in I luoghi di Arpino, in Opere, vol. V, Teatro, poesie e altre storie, a cura di Bruno Quaranta, Milano, Rusconi, 1992, pp. 1428-1431.
144 BEPPE FENOGLIO, Paese, in Un Fenoglio alla prima guerra mondiale, cit., p. 52.
145 VALTER BOGGIONE, Il mito del pallone. Dittico, in Campioni di parole: letteratura e sport, cit., p. 135.
146 BEPPE FENOGLIO, Paese, in Un Fenoglio alla prima guerra mondiale, cit., p. 54.
147 Ivi, p. 63.
148 «Sono nato e abito dall’altra parte di Tanaro, ma darei non so cosa per essere nato da questa parte. […] Non so cosa darei per essere nato a Santo Stefano». Ivi, p. 54.
149 Ivi, p. 55.
150 VALTER BOGGIONE, Il mito del pallone. Dittico, in Campioni di parole: letteratura e sport, cit., p. 136.
151 BEPPE FENOGLIO, Paese, in Un Fenoglio alla prima guerra mondiale, cit., p. 53.
152 Ibidem.
153 Ibidem.
154 Ivi, p. 60.
155 Ivi, p. 65.
156 Ivi, p. 64.
157 Ivi, p. 65. «Non solo gli eroi del pallone sono deformi e sfigurati dal gioco; sono anche avidi, egoisti, intimamente malvagi (tutto il contrario, ancora una volta, di quelli di De Amicis). […] Il campione è indifferente ad ogni altra cosa che non siano il successo e il denaro». VALTER BOGGIONE, Il mito del pallone. Dittico, in Campioni di parole: letteratura e sport, cit., pp. 137-138.
158 BEPPE FENOGLIO, Paese, in Un Fenoglio alla prima guerra mondiale, cit., p. 53.
159 Ivi, p. 57.
160 VALTER BOGGIONE, Il mito del pallone. Dittico, in Campioni di parole: letteratura e sport, cit., p. 138.
161 Ivi, p. 139.
162 BEPPE FENOGLIO, Paese, in Un Fenoglio alla prima guerra mondiale, cit., p. 62.
163 Ivi, p. 59.
164 Ivi, p. 60.
165 VALTER BOGGIONE, Il mito del pallone. Dittico, in Campioni di parole: letteratura e sport, cit., p. 140.
166 Ibidem.
167 Ivi, p. 141.
168 Ibidem.
169 BEPPE FENOGLIO, Paese, in Un Fenoglio alla prima guerra mondiale, cit., p. 56.
170 Ivi, p. 65.
171 VALTER BOGGIONE, Il mito del pallone. Dittico, in Campioni di parole: letteratura e sport, cit., p. 142.

Antique photo: Italy’s National Game, Pallone col Bracciale, Pallapugno, Pallone Elastico
Fonte: www.turismo.it
Mombarcaro (CN). Fonte: Welcome Langhe Roero

Francesco Pomiato, Letteratura, sport e società in Italia nel secondo dopoguerra (1945-1960), Tesi di laurea, Università Ca’ Foscari – Venezia, Anno accademico 2011/2012