La radicalità della violenza che si estese nella penisola dal ’43 al ’45 ha infatti collegamenti specifici con la storia dell’Italia unita

Riaffermando parallelamente una condotta della lotta politica interna incentrata su principi di legalità, il Duce ha nel frattempo emanato il 21giugno 1944 un decreto legge sulle Norme penali dei cittadini in tempo di guerra e il 24 dello stesso mese ha sostituito nella carica di Capo di polizia Tullio Tamburini con Eugenio Cerruti, portando a termine un concomitante massiccio ricambio d’uomini alla periferia fra Capi provincia e questori (167).
Mussolini appare, infatti, intenzionato ad aumentare il proprio controllo sulle prerogative dei reparti di polizia ausiliaria e sulle istituzioni statali periferiche proprio nel momento in cui affida al partito militarizzato la battaglia contro il nemico interno, esautorandolo dalla quasi totalità dei precedenti compiti amministrativi. Le Brigate nere mantengono la competenza, infatti, su una sola funzione amministrativa: ad esse resta affidato il controllo sulla raccolta e sulla produzione in sede locale di generi alimentari attraverso la gestione degli ammassi (168). La finalità politica dei nuovi provvedimenti emessi sembra quella di rinsaldare autorità e disciplina nella gestione dell’ordine pubblico mentre viene autorizzata una libertà d’azione pressoché incondizionata nella lotta alle bande, ottenendo il duplice obiettivo di rinvigorire la battaglia al nemico interno e di rinsaldare contemporaneamente l’apparente legittimità formale alla base dell’azione repressiva intrapresa dalla Repubblica fascista. La nuova azione armata antipartigiana, propagandata con clamore dalla stampa fascista, non tarda a produrre effetti tangibili. Fra il luglio e l’agosto 1944 si moltiplicano le esecuzioni sommarie: dovunque sono rinvenuti cadaveri abbandonati per le strade o appesi ad alberi e lampioni (169); corpi spesso deturpati con una sevizia che testimonia l’assuefazione dei militi fascisti alla morte violenta, scomposta e volutamente esposta (170) – come accade il 22 luglio 1944 nel piccolo borgo montano di Tavolicci in provincia di Forlì.
167 D. Gagliani, Brigate nere, cit., p. 131.
168 Cfr. Ivi, pp. 239-240.
169 Vedi, ad esempio: Segnalazione del Capo provincia sulla fucilazione a titolo di rappre-saglia di 5 ribelli ricoverati in ospedale, Aosta, 31 luglio 1944, ACS, MI, Gabinetto RSI, b. 20,K16/16 Tutela ordine pubblico – esecuzioni capitali; Segnalazione della Questura sulla fucilazione pubblica operata dalla GNR per rappresaglia all’uccisione del colonnello Nannini di 16 cittadini prelevati fra la popolazione di Carpi, Modena, 17 agosto 1944, Ibid..; Segnalazione sull’utilizzo della Legione Muti da parte del prefetto per attuare la soppressione di elementi sospetti (fra cui anche donne), Piacenza, s.d., ACS, MI, DGPS, DAGR, SCP, RSI, b. 57, f. Appunti per il Duce 1944/8-9, sf. settembre; Segnalazione sull’uccisione compiuta da una pattuglia di militi della Brigata nera di un diciassettenne scoperto con altri ad imbrattare muri conscritte sovversive, Genova, 12 settembre 1944, Ibid.; Telegramma del Capo provincia al Ministero dell’Interno sulle fucilazioni per rappresaglia di 13 civili eseguite a Lugo tra l’11 e il 13 agosto, Ravenna, 15 agosto 1944, ACS, MI, DGPS, SIS, 1946-49, b. 35, f. Ravenna; Rapporto della Prefettura al Ministero dell’Interno Divisione SIS sulla fucilazione per rappresaglia di 8 civili eseguita a Rovereto di Novi il 6 agosto 1944, Modena, 17 aprile 1946, ivi, f. Modena.
170 Vedi, ad esempio: Segnalazione del questore sull’impiccagione operata da uomini della X MAS nella piazza centrale di Ivrea, Aosta, 29 luglio 1944, ACS, MI, Gabinetto RSI,b. 20, K16/16 Tutela ordine pubblico – esecuzioni capitali; Segnalazione della Prefettura sull’impiccagione per rappresaglia di 3 sovversivi, Padova, 18 agosto 1944, ACS, MI, DGPS,DAGR, SCP, RSI, b. 57, f. Appunti per il Duce 1944/8-9, sf. settembre; Segnalazione della Questura sull’impiccagione al ponte sito in frazione Cà di Lugo, Ravenna, 26 settembre 1944, Ibid. Cfr. Giovanni De Luna, Il corpo del nemico ucciso. Violenza e morte nella guerra contemporanea, Einaudi, Milano 2006, pp. 151-166.
Toni Rovatti, Leoni vegetariani. La violenza fascista durante la RSI, CLUEB, Bologna, 2011

La tesi di dottorato ha per oggetto le tecniche di controguerriglia dell’Esercito nazionale repubblicano della Repubblica sociale italiana (1943-45). Fino ad oggi il tema della repressione partigiana è stato prevalentemente affrontato soffermandosi sulla sua componente politica, in particolare, analizzando il ruolo avuto da reparti come Brigate nere, Guardia nazionale repubblicana o SS italiane. L’Esercito – fino a questo momento studiato superficialmente – attraverso questa analisi si dimostra, invece, una istituzione centrale nella repressione partigiana. Oltre alle 4 Divisioni, infatti, furono costituiti una serie di reparti minori, non indivisionati, tra cui due che avrebbero dovuto costituire la “punta di diamante” nella lotta alla resistenza: il Centro addestramento reparti speciali, poi Raggruppamento «Cacciatori degli Appennini», ed il Raggruppamento anti partigiani. Era il primo serio tentativo da parte della R.S.I. di creare reparti destinati esclusivamente alla lotta antipartigiana. Il C.a.r.s., poi Raggruppamento «Cacciatori degli Appennini», ebbe modo di operare in Emilia Romagna, Veneto e Piemonte (effettuando anche alcune azioni in Liguria). I «Cacciatori degli appennini» costituirono la “matrice” su cui si perfezionò la teoria e la pratica della controguerriglia: dagli ammaestramenti ricevuti, infatti, lo Stato maggiore dell’Esercito nazionale repubblicano costituì, successivamente, il Raggruppamento anti partigiani, un’unità che accoglieva al suo interno differenti specialità d’arma, tra cui anche i Reparti arditi ufficiali, una sorta di “commandos” destinati a svolgere operazione di controbanda e di spionaggio. Entrambe le unità operarono sino ai primi di maggio 1945 quando si arresero alle truppe Alleate. In questo periodo parteciparono a tutti i maggiori rastrellamenti a fianco dei reparti tedeschi macchiandosi anche di crimini sia nei confronti della resistenza che contro la popolazione.
L’analisi è incentrata su quattro elementi. Prima di tutto è passata in rassegna la guerra partigiana in Italia, esaminando il concetto di guerra civile, della scelta fascista e della nascita della R.S.I. Successivamente, sono studiate le tecniche di controguerriglia dell’Esercito nazionale repubblicano. Qui, la tesi analizza la teoria della lotta antipartigiana per, poi, soffermarsi sulla concretizzazione di questi principi nei due reparti presi in esame.
Il documento, inoltre, ha inserito anche un paragrafo relativo alla costruzione dell’immagine del partigiano, elemento fondamentale per l’addestramento alla controguerriglia e per la costruzione della visione del nemico.
Nella terza componente, è affrontata la violenza e la repressione: partendo da un’analisi “antropologica” sugli uomini e le donne che costituivano entrambi e reparti, la tesi analizza le principali operazioni di rastrellamento eseguite sino a prendere in considerazione la violenza della controguerriglia.
Infine, vengono esaminati i fattori in grado di influenzare i comportamenti di un reparto militare come la formazione del reparto, il ruolo delle perdite ed il ripianamento dei quadri, la disciplina ed il morale delle truppe, i fattori geo-climatici e le privazioni fisiche.
Federico Ciavattone, “Banditi e ribelli ecco la vostra fine!”. Dottrine e tecniche di controguerriglia dell’Esercito nazionale repubblicano, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Pisa, 2011

In un altro rapporto proveniente dalla zona liberata di Reggio Emilia del 20 giugno 1945 e ancora in uno precedente della fine di maggio erano fornite notizie dettagliate (indirizzi, attività di sevizie e torture, località in cui queste venivano praticate) sulla Sicherheitdienst (il Servizio segreto delle SS) e sui movimenti del colonnello Eugenio Dollman e dei suoi dipendenti, ben precedenti all’ingresso degli Alleati in città il 23 aprile precedente. Di Dollmann, del quale si produceva anche materiale fotografico, si scriveva che aveva portato da Roma il suo personale di fiducia, (otto persone) e in loco aveva assunto personale domestico che era rimasto però estraneo alla sua attività spionistica. Di tutti era fornito il nome, l’alias, la nazionalità, i connotati, l’età, rapporti interpersonali, posizione in istituzioni fasciste e repubblicane e ogni altro elemento utile per la ricerca che il reparto stava conducendo. Notizie dettagliate furono date anche su altri elementi che avevano agito, in modo ufficiale o non, come agenti dei nazisti, anche in Toscana, sempre con numerosi dettagli che dimostravano come questi individui fossero stati a lungo sotto l’occhio vigile e esperto di elementi del controspionaggio italiano, molto tempo prima della liberazione del territorio.
Tra il maggio e il giugno 1944 circa cinquanta agenti nazisti erano caduti nella ‘rete’ del controspionaggio italiano sulla base soprattutto di una raccolta informativa che aveva preceduto la liberazione del territorio dove agivano le spie naziste: nomi italiani e stranieri, metodi e canali di reclutamento, localizzazione dei campi di addestramento, metodi di infiltrazione nelle aree liberate: secondo il rapporto di sintesi annuale dell’attività del Battaglione 808/Sezione Seconda, il metodo preferito dal nemico per infiltrare normalmente le spie era quello di paracadutarle da piccoli aerei che decollavano il più possibile vicino alle linee di combattimento, con equipaggiamento per sabotaggi o intercettazioni radio.
[…] Di notevole interesse anche un esame generale della situazione di Firenze del 31 marzo 1945: un rapporto molto articolato sia sullo stato della popolazione sia sulle attività sovversive ancora in corso nella città, anche se veniva rilevato che era impressione assai diffusa[tra la gente] che il partito fascista potesse tornare ad imperare in Italia, sotto altro nome…facendo riferimento anche al fatto che personalità in vista del passato regime erano elementi direttivi in seno agli attuali Partiti… Il fascismo, nella sua nuova dimensione social-repubblicana rimaneva ancora chiaramente legato ai fascisti dell’Italia settentrionale, utilizzando la radio e continuando a intensificare la sua attività diretta a sabotare l’azione politica del governo italiano e quella militare degli Alleati, creando confusione fra le popolazioni con il sistema della diffusione di notizie false, allarmistiche e tendenziose. Vi erano poi anche le giornaliere trasmissioni della radio fascista diretta ai ‘camerati’ dell’Italia ‘occupata’ dagli anglo-americani: era ben noto ai Carabinieri del Battaglione che, tramite la radio, venivano inviati messaggi convenzionali, dove si impartivano istruzioni sul modo di organizzare e compiere atti di sabotaggio e si incitavano i militanti a aggredire e uccidere militari alleati isolati. Vi è da dire che la maggior parte dei messaggi lanciati nell’etere erano compresi nel loro vero significato dagli specialisti del Battaglione che molto spesso potevano neutralizzare azioni del genere.
Pochi giorni dopo la fine di marzo 1945, scriveva ancora da Firenze il capitano dei CCRR, Felice Scafa, Capo di quel Centro CS del Battaglione, che sempre più era sentita la necessità di un’opera di epurazione, in modo sollecito e radicale, per eliminare tutti quegli elementi ancora presenti e compromessi con il regime fascista: non era sufficiente limitarsi a trasferirli ad altro incarico in altra città o cittadina vicina. A mano a mano che il territorio era liberato dai nazi fascisti, aumentava anche l’operatività del Battaglione, che seguiva le truppe anglo-americane.
[…] Ricordiamo, infatti, che la RSI, appena costituita, aveva organizzato un Servizio Informazioni Difesa – SID (informalmente il 1° ottobre 1943). Di conseguenza aveva immediatamente inviato ai vari Centri CS da Roma una circolare con direttive precise nella quale intimava a quegli Uffici (molti dei quali avevano cessato la loro attività l’8 settembre) di riaprire e riprendere il lavoro abituale: come successe nel caso di Firenze, per il quale fu banalmente o forse a ragion veduta (il dubbio è lecito ma non è provata la mala fede), utilizzata la vecchia carta intestata del SIM. Vi fu chi, ricevendo l’ordine, non avendo avuto ancora notizia di quanto era in realtà successo a Roma, nel disordine che era seguito nei primi giorni dell’annuncio dell’armistizio, ritenne spesso in buona fede che l’attività normale del SIM di prima dell’armistizio fosse ripresa, per accorgersi poi di essere obbligato a giurare fedeltà a una Repubblica sociale e fascista.
[…] Solamente il 25 febbraio 1944 il Maresciallo Graziani, Ministro della Difesa Nazionale della RSI, dopo alcuni mesi di effettiva attività, precisò, questa volta su carta intestata del Ministero, che il SID, Servizio Informazioni Difesa, era “l’unico ed esclusivo organo informativo” delle Forze Armate repubblicane e che ogni altra attività nel settore condotta da altri uffici o organismi doveva essere considerata illegale e quindi il servizio di controspionaggio della RSI rimaneva di esclusiva competenza del SID.
Nel marzo 1944, con il foglio n. 1403/S.M. lo stesso Graziani aveva dato disposizioni per articolare organicamente il Servizio, creando presso gli Stati Maggiore dell’Esercito, della Marina e dell’Aeronautica speciali organi del SID, denominati “Uffici C”; aveva poi costituito dei “Centri C” e dei “Nuclei C” presso i comandi regionali e provinciali dell’Esercito, presso i Comandi servizi della Marina e presso i Comandi di zona dell’Aeronautica. Compito “basilare” di questi organi “C” era, secondo le disposizioni impartite, quello della difesa del segreto militare nell’ambito delle Forze Armate e in quello più ampio del concorso nella difesa della nazione.
Maria Gabriella Pasqualini, L’opera di controspionaggio dell’Arma dei Carabinieri dopo l’8 settembre 1943, – In occasione del Bicentario dell’Arma dei Carabinieri e del 70° Anniversario della Guerra di Liberazione – I Carabinieri nella Resistenza e nella Guerra di Liberazione 1943-1945, Giornata di Studi Saluzzo, 7 novembre 2014, Salone d’Onore antico Palazzo Comunale, via Salita al Castello, 26, Evento organizzato dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Saluzzo, Anpi di Saluzzo, Comune di Saluzzo, Comando Provinciale Carabinieri di Cuneo e Istituto Storico della Resistenza di Cuneo

Dopo l’8 settembre 1943, migliaia di giovani scelsero di aderire alla repubblica sociale italiana e, durante la transizione dal fascismo alla repubblica, molti di loro furono processati per collaborazionismo con i tedeschi.
Poiché molti dei giovani imputati erano minorenni dal punto di vista penale, la maggior parte dei processi nei loro confronti riguardò il tema dell’imputabilità, la cui sussistenza, ai sensi dell’art. 98 c.p., doveva essere valutata dal giudice in relazione alla capacità di intendere e di volere.
Mentre, nei primi mesi successivi alla liberazione, la sezione speciale della corte di cassazione di Milano confermò in genere le sentenze delle corti d’assise straordinarie che dichiaravano i minori capaci di intendere e di volere (e dunque li condannavano, limitandosi a diminuire la pena come prescritto dall’art. 98 c.p.), nel corso del 1946, la seconda sezione della corte di cassazione iniziò ad annullare le sentenze di condanna, attribuendo rilevanza alla propaganda fascista che aveva influito sulla capacità di intendere e di volere dei minori, secondo la tendenza ad attenuare il rigore repressivo nei confronti del reato di collaborazionismo che ha caratterizzato la giustizia di transizione italiana.
Raffaella Bianchi Riva, “Una saggia politica criminale”. I ‘ragazzi di Salò’ nella giurisprudenza della corte di cassazione, 19 dicembre 2019, Italian Review of Legal History, Fascicolo N. 5

La radicalità della violenza che si estese nella penisola dal ’43 al ’45 ha infatti collegamenti specifici con la storia dell’Italia unita, in particolar modo nel complesso e peculiare rapporto tra classi dirigenti e popolazione <382. Tuttavia dall’altra parte, la violenza del secondo conflitto mondiale si inserisce in un particolare sviluppo della cultura militare e politica d’Europa e non solo, che ebbe un’influenza diretta in tutti i teatri di guerra tra 1939 e 1945 <383. Il concetto di “soldato politico” o “soldato ideologico” <384, abbozzato nel capitolo precedente per gli ufficiali e i militi della MVSN, ma propriamente inteso, per gli anni della Seconda guerra mondiale, per i reparti più ideologizzati delle forze armate tedesche, obbediva a principi dipendenti da determinati sviluppi della cultura bellica e politica europea. La radicalizzazione della violenza della Seconda guerra mondiale, concretizzatasi in un ampliamento degli obiettivi bellici, fino alla comprensione della totalità delle popolazioni coinvolte, appare generalmente come l’esito di un processo plurisecolare teso a sviluppare differenti interpretazioni dello “stato di guerra” e della violenza ad esso connesso <385; sinteticamente, tali sviluppi possono esser fatti partire dal superamento della cosiddetta Kabinettskrieg <386, hegelianamente fatta terminare a Valmy <387 e connotata dall’esclusività “professionale” della conduzione militare <388; l’esito di questa traiettoria arriva a caratterizzare gli atti di guerra con determinati tratti ideologici e con una significativa apertura al volontarismo “irregolare” <389.
[NOTE]
382 F. Della Peruta, Rivoluzione borghese e conflitti sociali, in Ganapini, Vendramini, op. cit. pp. 10-20.
383 Naturalmente il ’45 non deve essere visto come limite temporale a queste caratteristiche della violenza, cfr. J. Semelin, Purificare e distruggere. L’uso politico di massacri e genocidi, Einaudi, Torino, 2007, pp. 13 e seg. L’autore fa riferimento a tre distinti genocidi, due dei quali pienamente contestualizzati all’interno di scontri intestini e successivi alla met{ del’900: in Bosnia ed in Rwanda.
384 Ivi, 224, 225.
385 Sull’argomento relativo alla problematizzazione del concetto di “violenza” a livello storico e soprattutto socio-politologico sono stati utilizzati i contributi di P. Imbusch, The Concept of Violence, in W. Heitmeyer, J. Hagan (a cura di) International Handbook of Violence Research, Springer, Dordrecht (Ned.), 2003, in particolare pp. 27-33.e di R. Collins, Micro and Macro causes of violence, in ‹‹International Journal of Conflicts and Violence››, n° 1, 2009.
Per un discorso maggiormente ancorato alla storicizzazione della violenza si rinvia a G. Elwert, S. Feuchtwang, D. Neubert, (a cura di), Dynamics of violence: processes of escalation and de-escalation in violent group conflicts, Dunker and Humboldt, 1999 e G. De Luna, Il Corpo del Nemico Ucciso, violenza e morte nell’età contemporanea, Einaudi, Torino, 2006.
386 Con “guerre dei gabinetti” si intendeva fino alla Rivoluzione francese l’insieme di operazioni belliche dipendenti dalle decisioni, esclusive, degli ufficiali appartenenti agli stati maggiori, caratterizzate dal rifiuto dei volontarismi “politici” e di un teorico rispetto per i civili, nelle operazioni belliche, si veda a livello generale J. Keegan, La grande storia della guerra, dalla preistoria ai giorni nostri, Mondadori, Milano, 1994; per il discorso relativo alla seconda guerra mondiale si vedano invece E. Traverso, A ferro e a fuoco, la guerra civile europea, Il Mulino, Bologna, 2008, pp. 11 e seg. e Ranzato, un evento, op. cit. pp. XXX.
387 C. Pavone, La seconda guerra mondiale: una guerra civile europea?, in ivi, pp. 92 e seg.
388 Tale esclusività tuttavia non deve trarre in inganno, lo stesso Clausewitz ad esempio, pur formatosi all’interno dell’accademia militare prussiana e fieramente “anti-francese”, non disdegnava la cooperazione di milizie civili agli sforzi degli eserciti regolari, tuttavia la sua attività si inserisce in un periodo successivo al 1789-92, cfr. C. Jentzsch, S. Kalyvas, L. I. Schubiger, Militias in civil wars, ‹‹Journal of Conflict Resolution››, n° 5, 2015, pp. 755-769.
389 Schmitt fa riferimento tra i primi casi di “partigiani” agli irregolari spagnoli foraggiati dalla Gran Bretagna per “resistere” all’occupazione napoleonica, in id. Teoria del partigiano, op. cit. pp. 27 e seg.
Jacopo Calussi, Fascismo Repubblicano e Violenza. Le federazioni provinciali del PFR e la strategia di repressione dell’antifascismo (1943-1945), Tesi di dottorato, Università degli Studi Roma Tre, 2018

ROBERTO VIVARELLI, La fine di una stagione. Memoria 1943-1945, pp.126, Lit 18.000, il Mulino, Bologna 2000
Il libro può essere letto sotto molteplici profili. Innanzi tutto ci si può chiedere se esso apporti novità di qualche rilievo alle conoscenze che già abbiamo sulla Repubblica sociale italiana. La risposta è negativa. Si trovano peraltro nel libro molte conferme, ad esempio che, secondo gli atti istitutivi, le Brigate Nere, alle quali Vivarelli appartenne, furono impiegate soprattutto come strumento di lotta antipartigiana, cui anche egli partecipò.
Vivarelli, che dichiara di essersi arruolato per fedeltà all’alleanza con i tedeschi e per combattere contro gli invasori angloamericani, si mostra più volte deluso per il mancato invio al fronte; e quando questo desiderio sembra finalmente sul punto di essere appagato siamo ormai verso la fine dell’aprile 1945 e la sua brigata arriva a Bologna giusto in tempo per dissolversi, abbandonata dai camerati tedeschi in fuga.
Posta a confronto con le altre opere di memorialistica dei fascisti di Salò, ormai numerose, questa presenta molte significative assonanze e sostanziali coincidenze: si pensi ad esempio a opere ormai da tempo in circolazione, come quelle di Giose Rimanelli e di Carlo Mazzantini. Anche da questo punto di vista il libro di Vivarelli non può dunque essere considerato, come pur è stato detto, rivelatore di vicende e di esperienze costrette finora a rimanere nascoste.
Un discorso più articolato è tuttavia suggerito dalla persona dell’autore – autorevole storico delle origini del fascismo, studiate da un angolo visuale di ispirazione democratica – e dal clamore creato attorno al suo libro.
Si presenta innanzi tutto una questione di metodo. Qual è l’io narrante che si racconta in queste pagine? è il tredicenne che fugge di casa per combattere con i fascisti risorti sotto l’egida tedesca o è l’uomo maturo di questi nostri giorni? il libro vuole rievocare il ragazzo di allora o intende esporre il giudizio che oggi lo storico dà degli eventi vissuti da quel tredicenne-quindicenne?
Queste domande nascono dal fatto che Vivarelli cita più volte le pagine di un suo diario di allora, alternandovi parafrasi e giudizi che ritiene tuttora validi e che non si capisce bene se facciano parte di una memoria scarsamente rielaborata o della interpretazione storica di cui oggi egli vuol farsi portatore. È spia di questa non dichiarata ma praticata sovrapposizione di piani l’orgoglioso rifiuto che Vivarelli compie della “attenuante” dell’essere egli allora un adolescente: il valore della scelta fatta non patisce per lui limiti di età.
Eppure di attenuanti Vivarelli va più volte in cerca, non tutte pienamente convincenti. Dichiara che “ignorava del tutto” cosa fosse il nazismo (p. 24): se si riferisce a un corretto giudizio storico è quasi una ovvietà; ma è meno ovvio affermare che nei tedeschi “non vedevamo i nazisti ma semplicemente i nostri alleati”. Basti pensare alla esaltata consonanza ideologica fra fascismo e nazismo che era il cemento dell’alleanza alla quale egli volle rimanere fedele. Ancor meno convincente è l’affermazione secondo la quale “tra la generalità dei militanti della Rsi che io ho conosciuto una questione ebraica semplicemente non esisteva” (p. 26): oltre alla politica antiebraica praticata ormai da cinque anni dal regime fascista, come si potevano ignorare il punto 7 della Carta di Verona (“Gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri. Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica”) e la concreta caccia agli ebrei che i tedeschi avevano scatenato assistiti dai fascisti? Del resto, a p. 23 l’autore parla dei “nostri compagni di fede [sottolineatura mia] e di lotta”, dove il passaggio dall’io al noi, molto frequente nella sua scrittura, segnala lo slittamento dal piano del ricordo personale a quello di una testimonianza di gruppo ritenuta tuttora veritiera.
La patria, identificata con il fascismo e la sua guerra, e l’onore da riscattare contro il tradimento monarchico e badogliano sono le motivazioni più forti che Vivarelli dà della sua scelta. Ma il suo libro poco ci fa comprendere di cosa fossero davvero per lui patria e fascismo, né egli ricorda che della patria e dell’onore si potessero dare, in quelle circostanze, anche interpretazioni opposte alla sua. Comunque, le sue motivazioni sono quelle che si trovano ripetute in larga parte della memorialistica dei “ragazzi di Salò” e, già prima, nelle lettere dei caduti della Rsi. Non mi soffermerò pertanto su questo punto, limitandomi a ricordare che l’espressione “ragazzi di Salò” (non usata peraltro da Vivarelli), oggi in gran voga, occulta gran parte di quella che fu davvero la Rsi, fatta anche di vecchie cariatidi del fascismo, di opportunisti che avevano sbagliato indirizzo, di aspiranti al ritorno alle origini violente e “sociali” del fascismo, di apparati burocratici e repressivi ereditati dal ventennale regime, di persone dedite al doppio gioco: insomma una complessità di componenti che la storiografia va ormai ponendo in rilievo – si pensi ad esempio ai recenti libri di Dianella Gagliani e di Luigi Ganapini – e che anche Vivarelli riconosce quando parla della Repubblica sociale come di un “coacervo difficile da capire per chi non l’abbia vissuta” (p. 26).
L’argomentazione che Vivarelli usa per rivendicare con immutato vigore la sua scelta – e questo mi pare un punto di particolare rilievo – induce a un difficile e delicato discorso di metodo storico e, nello sfondo, di filosofia morale. Egli afferma che “l’onestà riguarda le intenzioni e il modo particolare del proprio agire” (p. 15); che è ingiusto attribuire “meriti o demeriti morali non in base al comportamento e alla buona fede di ciascuno, ma alla parte nella quale ci si trova schierati, che poi significa dalla parte dei vinti o dei vincitori” (p. 16); e infine, icastica chiusa del libro, che “io feci semplicemente quello che ritenevo il mio dovere, e credo che basti” (p. 106). Purtroppo non basta, per Vivarelli come per qualsiasi altro essere umano.
[…] Ma esaminiamo nel merito alcune delle affermazioni di Vivarelli basate sulla confusione fra la memoria e il giudizio storico.
Una delle pagine che più colpisce è quella in cui si sostiene che nella lotta fra fascisti e resistenti (il caso in questione è quello di Milano) “la partita era impari”, a tutto svantaggio dei fascisti e dei tedeschi. Questi infatti “per lo più circolavano in divisa ed erano quindi facile bersaglio degli avversari. I quali applicavano nei nostri confronti la regola dello spara e fuggi” (p. 55). L’impressione che l’autore stia pedissequamente riproponendo uno dei peggiori temi cari alla propaganda fascista è rafforzata da quanto subito segue: “Noi consideravamo questo genere di imprese una vigliaccheria, perché si indirizzavano contro vittime impossibilitate a difendersi. Certo eravamo armati anche noi, sicché in teoria avremmo potuto reagire, ma di fatto non ne avevamo il tempo (…) perché in genere ci sparavano alle spalle, sicché a colpirci era un vero e proprio tiro al piccione” (p. 56). I fascisti, dice in un altro passo, erano “carne da macello” (p. 49). Lo stereotipo del partigiano vigliacco che colpisce a tradimento è qui riprodotto con totale adesione.
Pagine come questa rafforzano una impressione che spesso viene suscitata dalla lettura della memorialistica fascista. I fascisti, e Vivarelli con loro, dimenticano che essi erano parte integrante di uno Stato che guardava loro le spalle, che garantiva vitto e alloggio e li faceva agenti del potere dominante contro i fuorilegge perfidamente dediti alla vita clandestina. C’è un’altra pagina di Vivarelli in cui questo punto di vista è ribadito come giudizio tuttora valido. Il reparto di Brigate Nere di cui egli fa parte elimina con procedimento sommario tre presunte spie, e Vivarelli formula un disinvolto paragone con il modo in cui operavano in casi analoghi le forze della Resistenza, “perché di fatto neppure noi disponevamo di un retroterra istituzionale in grado di risolvere casi del genere secondo regole meno barbare”. Ma la Repubblica sociale italiana disponeva di un riesumato tribunale speciale, di tribunali militari, di una Direzione generale di pubblica sicurezza passata al suo servizio, di una buona rete di carceri, insomma proprio di un largo e poderoso “retroterra istituzionale”.
Per capire la rimozione da lui operata credo che occorra rifarsi a un dato costitutivo della storia del fascismo, dalle origini a Salò. I fascisti hanno sempre amato rappresentarsi come ribelli, ma hanno sempre agito, anche nelle loro azioni più violente, con una copertura istituzionale, esplicita o implicita. Questo accadeva anche sotto la Rsi, ma i “movimentisti” preferivano far finta di ignorarlo, anche per il nascosto desiderio di mimesi che molti di essi nutrivano verso le sinistre e ora verso i partigiani. C’è nel libro di Vivarelli una interessante spia linguistica. A proposito dello stato d’animo suo e dei suoi giovani camerati durante i quarantacinque giorni badogliani egli scrive: “ci consideravamo già come dei ribelli” (p. 19). Perché già? Forse i brigatisti neri che, come lui, facevano parte della guardia del corpo di Pavolini erano dei ribelli?
Vivarelli aderisce a una tesi oggi largamente diffusa: dal 1943 al 1945 si sono combattute in Italia due minoranze armate, le uniche a essere veri attori, quale che fosse la parte scelta, mentre “la maggior parte delle persone erano semplici spettatori” (p. 55) e preferivano “stare alla finestra” (p. 106; e anche questa è una espressione tipica della propaganda fascista). La stragrande maggioranza del popolo italiano andrebbe pertanto ascritta a quella che suole essere chiamata “zona grigia”. Di questa zona si danno oggi peraltro due opposte interpretazioni, specularmente ideologiche. Per gli uni essa rappresenta la senior et maior pars del popolo italiano, refrattaria per natura e per cattolica educazione a ogni lotta di fazione. Per gli altri, come per Vivarelli, si tratta invece dell’amorfa massa dei voltagabbana e degli opportunisti. Nel proporre più volte e con forza questa tesi, Vivarelli non tiene conto dei risultati della storiografia, che ha cominciato a scomporre la zona grigia, mostrando come nella massa di coloro che non impugnarono le armi, che erano ovviamente la maggioranza, fossero presenti la Resistenza passiva, la Resistenza civile, il rifiuto di partecipare al doppio gioco e al collaborazionismo passivo, fino ad arrivare a coloro il cui impegno fondamentale fu sopravvivere come che fosse in attesa dell’arrivo degli Alleati, non della vittoria di Hitler (“attesisti”, li chiamavano i resistenti). E curioso che Vivarelli citi episodi che consua scrittura operi alcun tentativo di mediazione. Ricorda ad esempio che i brigatisti neri per essere bene accolti dai contadini erano talvolta costretti a travestirsi da partigiani (p. 66); e, riportando con onestà il giudizio rispettoso di alcuni brigatisti sulla banda partigiana di cui erano stati per qualche tempo prigionieri, sottolinea “l’aiuto costante” che i partigiani ricevevano dalla popolazione e “il modo estremamente corretto” con cui erano stati trattati i prigionieri (p. 71). Speculare contraddizione emerge quando egli scrive che, almeno in una certa fase, “Milano pareva essere tornata una città fascista” (p. 62).
Vivarelli è certamente sincero quando scrive che “il formarsi e lo scendere in campo di un movimento partigiano fu una complicazione non gradita” (p. 26), ribadendo poi che “la guerra civile fu una conseguenza sgradita e non l’originario stimolo dell’impegno e dell’azione” (p. 71). Anche queste affermazioni vanno tuttavia lette in un contesto schiettamente fascista. Abituati ad esercitare la violenza in regime di monopolio illegale e/o legale, i fascisti non riuscivano a capacitarsi, e sembra che ancora non si capacitino, del fatto di trovarsi questa volta di fronte altri italiani in armi contro di loro: davvero una sgraditissima sorpresa.
Mi sono in precedenza soffermato sulla non esaustiva validità dei criteri della buona fede e della retta intenzione nel giudicare i grandi eventi storici e il comportamento in essi dei singoli esseri umani. Possiamo ora comprendere come l’equiparazione delle due minoranze annate composte da volontari sicuri di sé trovi in Vivarelli la sua base, altrettanto arbitraria, nella netta separazione che egli opera fra la lotta in cui esse reciprocamente si uccidevano e il contesto generale della guerra contro la Germania nazista e l’Italia fascista e della posta in gioco mondiale – l’umana civiltà – che essa comportava.
Vivarelli distingue infatti tra fascismo e fascisti: il primo è da condannare con il giudizio storico, i secondi sono da assolvere per la loro buona fede, così come, sembra, vanno assolti i resistenti.
Voglio ora affrontare un ultimo punto. Vivarelli, come ho già ricordato, ribadisce più volte con fermezza che la scelta da lui allora compiuta era giusta, tanto che la rifarebbe senza esitazioni. Che rapporto c’è fra queste nette e chiare affermazioni e l’opera storiografica da lui svolta proprio sulle origini del fascismo?
[…] D’altra parte, se si legge con attenzione quanto da Vivarelli scritto, non solo nella recensione ora ripubblicata, attorno a quel momento della nostra storia, è possibile rintracciare tracce e segnali delle posizioni che, espresse in passato con discrezione, vengono finalmente alla luce nel clima politico-culturale oggi prevalente in cui, attraverso la equiparazione delle due parti, si mira alla rivincita degli sconfitti. Egli scrive infatti che da quella “specie di esilio” in cui ha vissuto per più di mezzo secolo solo ora, scrivendo queste pagine, è riuscito a uscire (p. 95). E lo scrive con il sospiro di sollievo di chi senza rischio può finalmente lasciarsi alle spalle una sorta di pesante nicodemismo troppo a lungo praticato.
Nel 1955 Vivarelli inviò a “Il Ponte” (XI, pp. 750-54), di cui era collaboratore, una lettera nella quale, con onestà, parlava del suo passato nella Rsi. Lo spirito di quello scritto, allora espresso con parole caute e misurate, non è molto lontano da quello del libro odierno.
Nel 1998 Vivarelli ha pubblicato su “Belfagor” (n. 315, pp. 346-54) un breve saggio, Guerre ai civili e vuoti di memoria, molto polemico contro gli studi sulle stragi compiute in Italia dai tedeschi e dai fascisti. Era preso particolarmente di mira il libro di Michele Battini e Paolo Pezzino, Guerra ai civili. Occupazione tedesca e politica del massacro: Toscana 1944 (Marsilio, 1997; i due autori risposero in modo bene argomentato su “Belfagor”, 1998, n. 319, pp. 346-54: De Bello civili, con postilla di Vivarelli). Vivarelli accentuava alcune sue tesi quali la negazione di ogni specificità nazista alla guerra condotta dai tedeschi, la ineliminabilità in qualsiasi guerra “senza eccezioni” delle atrocità da non considerare pertanto monopolio nazista, come “tante anime belle unite nella lotta contro la Germania” affermano, e infine la tesi, ripetuta in questo libro più drasticamente, che i veri invasori furono gli angloamericani, non i tedeschi. Queste e altrettali proposizioni convivono nel saggio con la riaffermazione che “moralmente e storicamente” la Resistenza rappresentò “la parte giusta”.
Possiamo dunque tornare al problema posto prima: la difficile conciliazione dei due criteri interpretativi proposti da Vivarelli. Egli si dichiara contrario al cosiddetto “revisionismo” proprio mentre vi apporta sostanziosi contributi, accolti con grande soddisfazione da chi milita in quel campo politico-ideologico; sembra invece stranamente convinto che succubi del revisionismo siano proprio coloro che indagano sulle stragi naziste e fasciste. Ripete più volte il luogo comune che la storia la scrivono i vincitori, qualificati nel libro come impostori, ma non spiega come egli abbia potuto scrivere i suoi libri di storia proprio passando dalla parte dei “vincitori” e utilizzando tutte le opportunità che gli hanno offerto la sconfitta del fascismo e la vittoria della democrazia. Dichiara che preferisce essere stato dalla parte dei vinti perché così ha potuto sfuggire alla superbia dei vincitori; ma oggi, nel clima di rivincita della vecchia Italia che va guadagnando spazio, sembra non saper resistere alla tentazione della superbia dei vinti.
Insomma, sul piano della critica storica, la conciliazione del Vivarelli di quest’ultimo libro con lo studioso di stampo democratico, o addirittura salveminiano, appare veramente ardua. Ma qui debbo fermarmi. Memoria e storia intrattengono fra loro rapporti complicati, segreti e spesso contraddittori. Forse la confusione che Vivarelli opera fra rievocazione e giudizio storico potrebbe essere attribuita a una incompiuta elaborazione del lutto della sua disastrosa esperienza adolescenziale.
Claudio Pavone, Memoria fascista di uno storico democratico, L’Indice dei Libri del mese, Gennaio 2001, Anno XVIII – N. 1