La guerra totale è diventata reale solo nel recente conflitto

Processo di Norimberga. Un gruppo di imputati: prima fila, da sinistra: Göring, Hess, von Ribbentrop, Keitel; seconda fila, da sinistra: Dönitz, Raeder, Schirach, Sauckel – Fonte: Wikipedia

Abbiamo visto che sia nel mondo giuridico che in quello militare il grande processo di Norimberga con i suoi stravolgimenti legali fu un vero e proprio cataclisma che negli anni successivi avrebbe comportato delle serie ripercussioni nel diritto internazionale e interno di molti Paesi.
Anche l’opinione pubblica si divise in proposito. Non mancarono in Germania vive soddisfazioni per la condanna a morte dei principali responsabili della guerra e allo stesso tempo forte fu l’indignazione per un processo che sapeva di vendetta e che pareva dimostrare come il procedimento fosse anche una vetrina politica per i vincitori.
Allo stesso modo non mancarono elogi da parte degli organi d’informazione occidentali tuttavia senza che questo comportasse la mancanza di un certo scetticismo a fare da contorno.
Il Daily Telegraph affermò: «in Germania e fuori, ci sarà oggi e più ancora domani chi dirà che i criminali tedeschi sono stati puniti perché erano stati sconfitti».
Il Times in una corrispondenza del 30 settembre 1946 sfiorò, senza trattarla a fondo, la questione dei reati per i quali al tempo in cui furono commessi non era prevista alcuna sanzione penale. Il Consolato italiano a Londra sottolineò come il quotidiano britannico evitasse di prendere una posizione netta sui problemi legali e morali sollevati dal processo: «e si limita qua e là a farvi cenno buttando nella coscienza del lettore il seme del dubbio e lasciando che esso germogli o inaridisca a seconda della natura del terreno dove è caduto» <488.
Il Manchester Guardian in un articolo del 1° ottobre dello stesso anno rimproverò la leggerezza con cui si era stato invocato il Patto Kellog-Briand quando fino a quel momento la pubblica opinione mondiale riteneva quella “norma” che proibiva la guerra d’aggressione «una pia aspirazione». Il quotidiano riconobbe che difficilmente lo storico imparziale di domani avrebbe letto di nazisti condannati per aver ordinato distruzioni indiscriminate senza che il suo pensiero corresse ad Amburgo, Dresda o Hiroshima. Il New Statement del 5 ottobre rimproverò il fatto di aver voluto processare secondo una legge posteriore alla data del crimine concludendo che il vero merito del processo era di aver stabilito per la prima volta dei principi di moralità internazionale applicabili a tutte le nazioni, ed in base ai quali doveva essere giudicata la condotta non solo di Keitel e di altri, ma di ogni comandante inglese o americano che aveva deliberatamente ordinato distruzioni indiscriminate quali il bombardamento di Nagasaki e Hiroshima.
L’Economist del 5 ottobre pur condividendo le condanne ricordò il patto russo-tedesco, l’aggressione della Finlandia, i bombardamenti indiscriminati del Giappone, della Germania e l’espulsione di milioni di tedeschi dalle loro case.
Il New York Daily Mirror il 1° ottobre uscì con due editoriali opposti sulla valutazione del processo. Quello che vide negativamente il procedimento penale concluse: «In definitiva, le decisioni di Norimberga significano che d’ora in poi nessun Paese potrà rischiare di perdere una guerra. Un capo di Stato, per sopravvivere come individuo, dovrà vincere ad ogni costo».
La propaganda e l’enfasi che gli alleati diedero al processo non impedì dunque a molti loro cittadini di porsi notevoli domande sulla legittimità e sulla legalità del processo. In fondo tali perplessità non mancarono neanche tra i dirigenti dei Paesi vincitori che casomai inizialmente avevano anche appoggiato la stessa costituzione del Tribunale.
Con tale processo il cosiddetto modello westfaliano venne seriamente stravolto visto che esso si poggiava su tre elementi fondanti quali un ordine internazionale concepito come un equilibrio di forze, una rigida ripartizione di compiti fra diritto interno e diritto internazionale e, infine, una severa separazione fra morale e politica.
Una tale struttura aveva permesso una coesistenza fra due tipi di diritto che si rivolgevano a due personalità differenti quali lo Stato e l’individuo.
Norimberga travolse in parte questi principi perché se il metro di giudizio partì da basi per lo più morali era anche vero che una parte di queste si potevano poggiare sulla Convenzioni internazionali dell’Aja e di Ginevra dove si cercò di limitare la violenza in generale e nei confronti di certe categorie se ne impediva l’utilizzo purché queste rispettassero a loro volta le norme comportamentali impostegli.
Antoine Garapon ha fatto notare su cosa si basassero i due tipi di diritto ben distinti al centro del modello westfaliano: «Il diritto internazionale riposa sul modello del combattimento, della guerra e della riconciliazione; il diritto penale su quello della trasgressione, della giustizia e della espiazione. Da qui scaturisce lo scontro fra due logiche – il discorso morale punitivo del diritto penale da una parte, la ragione pragmatica e riparatrice del diritto internazionale dall’altra» <489.
E probabilmente è anche questa separazione che fece sì che in Italia l’accettazione di una stagione processuale atta a perseguire i militari tedeschi colpevoli di violenze sulla popolazione civile trovasse un ostacolo nel mondo giuridico e in particolare in quello militare.
I crimini di guerra furono per l’appunto violenze commesse in tempo di guerra e per motivi di guerra con finalità belliche pur rivolgendosi spesso contro civili indifesi e inoffensivi. Limitare la loro valutazione al diritto interno nonostante fossero azioni belliche, indipendentemente dalla loro legittimità, metteva chi doveva valutarle in una situazione di disagio dove troppi elementi riferibili al diritto internazionale venivano a galla col rischio così di travalicare le proprie prerogative rientranti nel diritto interno. Infatti anche l’azione dei tribunali militari di guerra italiani e tedeschi nei territori occupati non potette fare a meno di rifarsi a consuetudini e a convenzioni internazionali per punire il comportamento dei partigiani e di chi, direttamente o no, li appoggiò.
In fondo fino alla seconda guerra mondiale la concezione positivista del diritto internazionale rimase sostanzialmente predominante in Italia. Essa rifiutò le concezioni di studiosi che tesero ad identificare il diritto internazionale con quello che era il loro ideale e la loro aspirazione sul modo in cui la comunità internazionale avrebbe dovuto essere organizzata e funzionare: «Positiva era la scuola in quanto basava le proprie costruzioni dottrinali sull’esame della realtà internazionale quale risultava dalla struttura propria di tale comunità e soprattutto dal comportamento dei suoi consociati» <490.
Chiedere a un individuo che operava quotidianamente con lo strumento del diritto di comprendere l’evoluzione bellica e culturale che portò con sé la seconda guerra mondiale era un conto. Chiedergli di accettarla dal punto di vista giuridico un’altra. Lo storico e il politico si potevano permettere una tale libertà di manovra, il giurista militare invece, educato all’obbedienza delle leggi e di chi le emanava, subì uno stravolgimento culturale che rimise in discussione tutta la sua formazione e la sua esperienza di rappresentante della legge.
Questo perché se la valutazione storica e politica di un fatto trova giustificazione nel suo essersi verificato, nel diritto invece le ripetute violazioni di una norma non creano di per sé sole una norma contraria <491.
Ma tale constatazione non significava che il diritto venisse ingessato fino a diventare un semplice strumento statale. Nello stesso diritto positivo l’essere era importante per valutare la possibile esistenza di una norma.
La consuetudine era infatti un metodo ben collaudato nel diritto internazionale oltre che la fonte primaria. Ed è per questo che il carattere di positività è sempre conferito alla norma giuridica dal suo derivare da un fatto creativo che si sia realizzato nella storia sia tramite atti nati da una norma sia dalla consuetudine.
La storia anticipava il diritto ed anche per questo non si poteva pretendere un mutamento parallelo da parte di chi rientrava nel mondo del diritto nazionale e internazionale.
Se il positivismo giuridico vietò ai cittadini di porre in discussione la validità morale delle leggi tanto meno una cosa simile era permessa a chi la legge doveva applicarla. L’obbedienza alle leggi se era un dovere del civile tanto più lo era per un uomo di legge che oltretutto era anche un militare.
Questo fece sì che in presenza di un ordine impartito da un superiore e forse in assenza della coscienza di commettere un’azione contraria al diritto, quali i massacri di donne, vecchi e bambini, risultava assai difficile per i giudici individuare la componente soggettiva dell’atto criminale <492.
È anche vero che i giuristi non disponevano di strumenti efficaci per operare contro i crimini di guerra a meno che non si decidesse di scendere sul piano politico per condannare gli accusati ma abbandonando allo stesso tempo il ruolo di persona di legge.
Nel “Caso Flick” il Tribunale di Norimberga si espresse così sulle regole della guerra terrestre della Convenzione dell’Aja: «Sono state scritte in un giorno in cui gli eserciti viaggiavano a piedi, nei veicolo trainati da cavalli e sui treni delle ferrovie; l’automobile era nella sua fase di Ford Modello T. Usare gli aeroplani come uno strumento di guerra era semplicemente un sogno. La concentrazione di industrie in grandi organizzazioni che trascendono i confini nazionali era appena iniziata. I blocchi erano i principali mezzi di “guerra economica”. La “guerra Totale” è diventata reale solo nel recente conflitto. Questi sviluppi hanno reso chiaro la necessità di valutare la condotta degli imputati in relazione alle circostanze e condizioni del loro ambiente. Senso di colpa, o la misura della stessa, non può essere determinata teoricamente o astrattamente. Ragionevoli e pratiche norme devono essere considerate» <493.
Regolamenti quindi datati che poco o male potevano risultare efficaci nella repressione penale delle violenze di guerra commesse in un’Europa che si riteneva immune da comportamenti che le proprie truppe applicarono invece con solerzia nelle colonie.
Il Tribunale militare statunitense nel processo ai generali del Sud-Est così si espresse il 19 febbraio 1948: «L’idea che una persona innocente possa essere uccisa per atti criminali di altri è aberrante per ogni legge naturale.
Condanniamo l’ingiustizia di tali regole come relitti barbari di un tempo antico. Ma non è nella nostra prerogativa scrivere la legge internazionale come vorremmo che fosse, dobbiamo invece applicarla per come la troviamo» <494.
A questo si sommava l’impunità storica di cui quasi sempre godettero i militari e che contribuì probabilmente a una sostanziale insensibilità giuridica che non permise la codificazione di determinate norme repressive. In fondo il militare non uccideva da solo come un individuo arbitro delle propria volontà. Uccideva in quanto quello era il suo dovere e spesso in gruppo. Il suo uccidere non poteva configurarsi neanche come omicidio, e quindi penalmente perseguibile, perché tale atto avveniva in un contesto collettivo e in tempo di guerra rendendolo un semplice ingranaggio della macchina armata dello Stato. E il problema della persecuzione dei crimini di guerra era sempre riferibile allo Stato nonostante gli sforzi di chi cercò di concentrare la questione sulla responsabilità penale per far sì che tali atti non rimanessero impuniti.
Lo Stato era il centro gravitazionale intorno a cui ruotavano tutte gli elementi inerenti i crimini di guerra in quanto fonte e depositario della sovranità. I presunti limiti erano più che altro rivolti a limitare i danni della guerra che potevano danneggiare lo Stato stesso piuttosto che le vittime dirette.
Clausewitz nel suo capolavoro incompiuto sulla guerra e tenuto a modello di riferimento nelle accademie militari di molti Paese anche in epoca novecentesca, tese a chiarire fin dall’inizio la superfluità di certe questioni. Riguardo alla forza intesa come esercito sottolineò: «Essa è accompagnata da restrizioni insignificanti, che meritano appena di essere menzionate, alle quali si dà il nome di diritto delle genti, ma che non hanno capacità di affievolirne essenzialmente l’energia» <495.
Il diritto delle genti a cui fece accenno il grande ufficiale prussiano non era niente di meno e niente di più che quello a cui fecero riferimento i sovrani e i governi che elaborarono e sottoscrissero la Convenzione dell’Aja del 1899.
Essi in pratica non smentirono questa cruda affermazione del lungimirante militare tedesco perché tutte le disposizioni riguardanti le regole della guerra terrestre furono subordinate al concetto della necessità militare. Clausewitz d’altronde ricordò che gli elementi che potevano moderare una guerra erano contingenti e per questo: «mai si potrà introdurre un principio moderatore nell’essenza stessa della guerra, senza commettere una vera assurdità» <496.
L’unico principio moderatore che poteva frenare la guerra erano per l’appunto quei «contrappesi insiti» nei principi dell’azione e dalla sua natura subordinata di strumento politico, «ciò che la riconduce alla pura e semplice ragione» <497.
Se questo era il pensiero dei dirigenti politici e militari, o almeno di gran parte di loro, sulla guerra e sulle sue presunte limitazioni ben poco ci si poteva attendere da dei giudici militari a cui poteva sembrare un’opera titanica e forse antistorica la punizione di crimini di guerra connessi a una violazione degli stessi regolamenti di guerra nazionali e internazionali per mano dei civili.
Dell’importanza di questi regolamenti è significativa la parte conclusiva della cosiddetta clausola Martens mai abbastanza sottolineata negli studi sulla storia del diritto: «Attendendo che si possa istituire col tempo un codice completo delle leggi di guerra, le Alte Parti contraenti stimano opportuno di stabilire che nei casi che non hanno potuto essere previsti nelle disposizioni da esse adottate, le popolazioni e i belligeranti rimangono sotto l’egida e la signoria dei principi del diritto delle genti, quali risultano dagli usi vigenti fra gli Stati civili, dalle leggi dell’umanità e dalle esigenze della coscienza pubblica. Essi dichiarano che segnatamente gli articoli 1 e 2 del Regolamento adottato vanno intesi in questo senso».
Conseguentemente i partigiani che violarono proprio i due articoli citati non rientrarono nelle categorie protette scendendo così, agli occhi di chi la guerra la faceva per mestiere, a un livello di vera e propria inciviltà.
Addirittura la reazione spropositata delle truppe nazifasciste poteva trovare, agli occhi dei militari, una valida giustificazione giuridica anche se non morale.
Il Tribunale militare americano di Norimberga che processò e condannò all’ergastolo il feldmaresciallo Wilhelm List per il duro regime di repressione instaurato in Serbia riconobbe tuttavia ai comandanti tedeschi del Sud-Est il diritto di ricorrere alle rappresaglie contro la popolazione civile e il non riconoscimento dei partigiani perché non erano «un gruppo combattente legale», provocando così la furiosa reazione del vice ministro degli Esteri jugoslavo, generale Velebit, in un’intervista all’agenzia Reuter <498.
Non negando che tali conclusioni del Tribunale fossero il segnale di un processo di riabilitazione del gruppo militare tedesco in un contesto di nascente Guerra fredda, le argomentazioni che furono utilizzate dimostrano un substrato culturale che cozzò violentemente con gli stessi principi emanati nella Carta di Londra e nella Dichiarazione di Mosca.
Questi principi, forse andando oltre la volontà dei loro estensori, potevano portare a un ridimensionato sostanziale dello Stato e dell’autorità che legittimava la sua esistenza. Intaccarlo proprio quando pochi anni prima se ne era glorificato la sua onnipotenza con regimi che miravano a un controllo totalitario delle società comportava forse un lasso di tempo troppo breve per permettere al mondo del diritto di metabolizzare un tale cambiamento che – come dimostrarono i conflitti successivi alla seconda guerra mondiale dove le vittime civile rappresentarono la maggioranza assoluta delle vittime – tuttavia non riuscì a realizzarsi o almeno c’è riuscito solo in parte.
In Italia il fascismo rese un possibile cambiamento di mentalità ancora più complicato visto che vent’anni di regime in cui si cercò in ogni campo della vita amministrativa, sociale e culturale di far penetrare l’ideologia del regime, non potevano essere cancellati di punto in bianco nonostante una sconfitta bellica e morale di proporzioni enormi. Senza dimenticare tra l’altro il sostanziale fallimento del processo di epurazione di gran parte dell’apparato statale italiano.
L’accondiscendenza che riguardò anche la classe intellettuale italiana venne alla luce con la sottoscrizione del giuramento di fedeltà al regime da parte dei docenti universitari. Alcuni di loro si appellarono a motivazioni antifasciste facendo intendere che la loro presenza nei luoghi d’insegnamento avrebbe significato un’attiva resistenza. Ma questo fu forse il vero motivo tra i pochi che cedettero visto che la maggioranza pare che guardò ai propri interessi personali <499.
Nemmeno l’emanazione delle leggi razziali nel 1938 provocò una reazione pubblica nel mondo accademico.
Così sotto il fascismo il concetto di Stato inteso come autorità si stava avviando verso una sua estremizzazione non trovando sostanziali opposizioni. L’allievo di Carlo Gentile, e futuro rettore dell’Università di Palermo, Giuseppe Maggiore <500, da giurista mostrò come un accademico – tra l’altro con una passata vicinanza al Partito popolare – potesse sposare la visione politica e culturale del regime in proposito all’idea di autorità e diritto.
Secondo Maggiore era lo Stato stesso che creava la società: «non c’è società senza un’autorità super-individuale» <501.
Oltre a un’apologia del capo, il Duce, in cui s’incarnava la personalità dello Stato, l’autore affermò come l’uomo moderno nascesse, si formasse e si perfezionasse nella politica in quanto «vive non solo nello Stato ma per lo Stato» <502.
[…] Un giurista e teorico politico, grande pensatore del ventesimo secolo, che s’imbatté nell’accusa di crimini di guerra nell’arco dei processi di Norimberga, per poi uscirne indenne, fu Carl Schmitt.
Isolato nel dopoguerra per l’appoggio che diede al regime nazista, continuò a riflettere e pubblicare opere che sono tutt’ora al centro di studi e dibattiti e che mostrano come il suo pensiero sia sempre una stazione di fermata obbligatoria se si vuole comprendere lo sviluppo della culturale occidentale non limitata al mondo del diritto <504.
Attraverso le maggiori opere di Schmitt si possono trovare quei due elementi sempre presenti nella storia dei crimini di guerra e la debolezza del diritto interno e internazionale per reprimerli prima ancora che per prevenirli.
Padre del “decisionismo”, Schmitt vide in un ritorno allo Jus Publicum Europaeum antecedente alle due guerre mondiali l’unica àncora di salvezza dalle distruzioni di quel periodo. Un ritorno a quel diritto significava uno Stato inteso come “principe” a cui spettava l’affermazione dei valori per mezzo della legge, ma anche contro la legge qualora essa ostacolasse gli interessi della comunità.
Per Schmitt il diritto internazionale aveva un compito preciso: «impedire la guerra d’annientamento, ovvero di limitare la guerra qualora sia inevitabile» <505.
Per questo un’abolizione delle guerra senza una sua autentica limitazione non poteva che avere: «come unico risultato quello di provocare nuovi tipi di guerra, verosimilmente peggiori, ricadute nella guerra civile e altre specie di guerre d’annientamento» <506.
Chiara era qui la critica nei confronti di chi voleva la messa fuorilegge della guerra come prospettato dal Patto Kellogg-Briand e durante il processo di Norimberga dove spesso vi venne fatto riferimento.
Nel diritto internazionale il nemico era lo justus hostis che in quanto totale veniva distinto dal criminale. Era questo il merito dei giuristi dell’epoca moderna che avevano detronizzato i teologi.
Era la loro grande opera, l’apporto che divenne il nucleo di un nuovo diritto internazionale <507. Ed era proprio lo justus hostis che mancava alla figura del partigiano generatore involontario dei massacri nazifascisti.
Il diritto internazionale basato sul riconoscimento esclusivo degli Stati aveva permesso che la guerra rimanesse circoscritta a uno scontro tra eserciti, ma il partigiano per sua natura si era posto al di fuori dell’inimicizia convenzionale trasferendo se stesso e la guerra in un’altra dimensione: «quella della vera inimicizia, che attraverso il terrore e le misure antiterroristiche cresce continuamente fino alla volontà di annientamento» <508.
E per questo secondo Schmitt era opportuno il ritorno a quel diritto internazionale che aveva permesso di non criminalizzare il nemico.
Ma per farlo il nemico non poteva che essere lo Stato sovrano, l’unica entità legittimata ad essere riconosciuta dallo Jus Publicum Europaeum. Fuori da esso ci poteva essere solo il crimine e la barbarie. I popoli che infatti non erano in grado di dotarsi di un’organizzazione tipicamente statale non potevano rientrare nei principi delle Convenzioni internazionali come l’articolo 22 del Patto della Società delle Nazioni recitava <509.
Schmitt chiarì alla perfezione dove la guerra era guerra invece che semplice violenza criminale: «Lo Stato assorbe in sé tutta la razionalità e tutta la legalità: al di fuori dello Stato tutto è “stato di natura”» <510.
E in proposito, come abbiamo visto, non fu un caso che molti partigiani cercarono con i loro comportamenti una formalità statuale oltre all’interesse di mantenere ordine e disciplina nei loro ranghi.
Il mondo di Schmitt era il mondo dove i principi nazifascisti andando oltre lo Jus Publicum Europaeum riportarono la guerra a un conflitto politico-religioso dove l’unica via per una sua conclusione non poteva che essere quella che conduceva alla vittoria o alla morte. Le violenze gratuite contro persone quasi sempre indifese, meglio noti come «crimini di guerra», commessi da eserciti che non sempre furono marcatamente, o almeno non totalmente, politicizzati, rientrarono in quella reazione a quella figura che a sua volta andava oltre quel diritto internazionale rendendolo carta straccia. La figura del partigiano rappresentò l’alter perfetto al nazismo per i principi che lo muovevano – questo valeva in particolar modo per i comunisti – ma allo stesso tempo era lo specchio dello stesso aggressore in quanto come lui non si muoveva per vana gloria o per inerzia burocratica, ma perché mirante a cambiare radicalmente lo stato delle cose esistenti. La guerra accomunava i contendenti, la guerriglia partigiana no. Era dunque un nemico che doveva essere disumanizzato sia da parte del soldato nazifascista che dal semplice militare in quanto raccoglieva in sé tutto quello che gli era avverso – ideologia politica e rifiuto dei militari come unici aventi diritto a fare la guerra – e che lo spogliava della sua specificità.
Un nemico criminale di questa portata non poteva che scatenare una risposta criminale secondo la logica nazifascista per non dire semplicemente militare.
Per un appartenente alla ruolo della giustizia militare questo non voleva dire che fosse accettabile, ma sicuramente comprensibile. E questa comprensione, in un momento dove eventuali processi a carico dei colpevoli erano ancora delle ipotesi e dove la politica iniziò a fare pressioni avverse nei loro confronti, facilitò il loro aborto.
[NOTE]
488 ASMAE, Affari politici 1950-57, b. 176, Consolato generale d’Italia, telespresso n. 6022/2043, al Ministero degli Affari Esteri, Reazioni inglesi alla sentenza di Norimberga, 10 ottobre 1946.
489 Antoine Garapon, Crimini che non si possono né punire né perdonare. L’emergere di una giustizia internazionale, op. cit., p. 40.
490 Angelo Pieri Sereni, Dottrine italiane di diritto internazionale, in Scritti di diritto internazionale in onore di Tomaso Perassi, vol. II, op. cit., p. 281.
491 Angelo Pieri Sereni, Dottrine italiane di diritto internazionale, op. cit., p. 288.
492 Pier Paolo Portinaro, I conti con il passato. Vendetta, amnistia, giustizia, Feltrinelli, Milano 2011, p. 83.
493 International Military Tribunal, vol. 17, p. 507. Riportato anche in August von Knieriem, The Nuremberg Trials, op. cit., pp. 299-300.
494 Heinrich Albrecht Schütze, Die Repressalie unter besonderer Berücksichtigung der Kriegsverbrecherprozesse, Ludwig Röhrscheid, Bonn 1950, p. 74.
495 Karl von Clausewitz, Della Guerra, Mondadori, edizione integrale, Trento 2009, Libro I, pp. 19-20. Titolo originale, Vom Kriege, 1832.
496 Karl von Clausewitz, Della Guerra, op. cit., Libro I, pp. 20-21.
497 Ibidem.
498 ASMAE, Affari politici 1950-57, b. 174, fascicolo “Criminali di guerra tedeschi. Pratica generale”.
499 Su tale questione vedi Helmut Goetz, Il giuramento rifiutato. I docenti universitari e il regime fascista, La Nuova Italia, Firenze 2000.
500 Giuseppe Maggiore venne destituito dall’insegnamento per ordine del comando alleato già dall’ottobre del 1943 motivando tale atto in quanto «dirigente fascista, dottrinario e propagandista negli ambienti universitari» e «autore di libri e articoli di carattere virulentissimo in appoggio del fascismo e contro gli Stati Uniti e l’Inghilterra e in generale contro i principi democratici». Per una sua nota biografica vedi il Dizionario Biografico degli Italiani Treccani.
501 Giuseppe Maggiore, Diritto penale totalitario nello Stato totalitario, in “Rivista italiana di diritto penale, vol. XVII, 1939, p. 144.
502 Ibidem.
504 Le opere maggiori di Schmitt dopo la guerra furono: Der Nomos der Erde im Völkerrecht des Jus Publicum Europaeum (1950); Theorie des Partisanen (1963); Die Tyrannei der Werte (1967).
505 Carl Schmitt, Il Nomos della Terra, op. cit., p. 315.
506 Ibidem..
507 Carl Schmitt, Ex Captivitate Salus, Adelphi, Milano 1987, p. 74. Titolo originale, Ex Captivitate Salus Erfahrungen der Zeit 1945/47, Greven, Köln 1950.
508 Carl Schmitt, Teoria del partigiano, op. cit., pp. 20-21.
509 Art. 22/1 della S.D.N.: «I principi seguenti si applicano alle colonie e territori che, in seguito alla guerra, hanno cessato di essere sotto la sovranità degli Stai che governavano precedentemente e che sono abitati da popoli non ancora capaci di reggersi da sé nelle condizioni particolarmente difficili del mondo moderno […]».
510 Carl Schmitt, Sul Leviatano, Il Mulino, Bologna 2011, p. 85.
Marco Conti, La cultura giuridico militare e i crimini di guerra nazifascisti, Tesi di Dottorato, Università Ca’ Foscari Venezia, 2014