La curiosità da geografo dei popoli e delle culture, tipica di Giuliano Pajetta

Un caso del tutto particolare di rapporto tra antifascismo e lavoratori italiani nell’emigrazione è quello dell’Unione Sovietica. Qui la distinzione fra i concetti di emigrazione economica e di emigrazione politica sfuma del tutto, dal momento che la determinazione di recarsi in quel paese presupponeva un’adesione di principio al modello di organizzazione economico sociale che vi si andava attuando (in Russia esistevano peraltro anche piccoli nuclei di emigrazione italiana già nel periodo prerivoluzionario) <41. Sebbene si trattasse di espatri che, generalmente, avevano come motivazione primaria il bisogno di sottrarsi alla morsa del fascismo, sopravvenendo la motivazione ideologica della partecipazione in prima persona alla costruzione del comunismo nella “nuova patria” sovietica solo in seconda battuta, al momento della scelta della destinazione, questa emigrazione fa comunque parte più della storia del comunismo italiano che dell’antifascismo.
Un’altra ragione per riservarle un trattamento distinto nel quadro complessivo delle emigrazioni antifasciste è l’ovvia circostanza che in ogni altro luogo di emigrazione l’antifascismo ebbe uno statuto pluralistico e visse nella dialettica tra correnti ideali ed organizzazioni diverse, mentre in terra sovietica solo il filone comunista godeva del diritto d’asilo.
La storia di questi emigrati di tipo particolare ebbe non di rado un finale tragico, dal momento che molti di loro, al pari dei compagni di lavoro sovietici, furono risucchiati negli ingranaggi della macchina repressiva staliniana; ed è proprio questo aspetto della loro esperienza ad avere attratto maggiormente l’attenzione <42.
Altri ricercatori per accostarsi alla condizione degli emigrati di fede comunista, non solo quelli esuli nell’Urss, hanno scelto di scavare nel loro “vissuto”, così come traspare dai carteggi familiari abbondantemente intercettati dai servizi di vigilanza fascisti, prendendo quindi in esame i militanti non solo come soggetti politici e agenti di un’idea, ma anche come uomini concreti, portatori di esperienze di vita, spesso di drammi personali <43.
[NOTE]
41 Cfr. Marco Clementi, In Russia, in Storia dell’emigrazione italiana, vol. II, Arrivi, a cura di Piero Bevilacqua, Andreina De Clementi ed Emilio Franzina, Roma, Donzelli, 2002, pp. 171-179.
42 Romolo Caccavale, Comunisti italiani in Unione Sovietica. Proscritti da Mussolini, soppressi da Stalin, Milano, Mursia, 1995; Elena Dundovich, Tra esilio e castigo. Il Komintern, il Pci e la repressione degli antifascisti italiani in Urss, Roma, Carocci, 1998; Id., Francesca Gori ed Emanuela Guercetti, L’emigrazione italiana in Urss: storia di una repressione, in Gulag. Storia e memoria, a cura di Eaed., Milano, Feltrinelli, 2004, pp. 177-232; Id. e Francesca Gori, Italiani nei lager di Stalin, Roma-Bari, Laterza, 2006.
43 Patrizia Gabrielli, Col freddo nel cuore. Uomini e donne nell’emigrazione antifascista Roma, Donzelli, 2004; Fiamma Lussana, Lettere dalla Russia. Vivere o morire di comunismo negli anni Trenta, “Studi storici”, XLV, 4 (2004), pp. 905-938.
Leonardo Rapone, Emigrazione italiana e antifascismo in esilio in «Archivio storico dell’emigrazione italiana», IV, 2008, 1

In questo libro di Giuliano Pajetta (come in ogni scrittura memoriale) si intrecciano, si rimandano a vicenda e – insomma – giocano fra loro diverse temporalità, almeno tre. Ciascuna di esse rivendica il proprio diritto a essere considerata, e ciascuna deve essere presa in esame da chi voglia capire il libro che vi accingete a leggere.
La prima temporalità è quella dei fatti narrati, dunque la Russia sovietica del 1932-34, descritta come appare agli occhi di un ragazzo italiano poco piú che sedicenne (era nato il primo ottobre del 1915).
La seconda è la temporalità della narrazione, cioè il tempo della scrittura di quei fatti da parte di Giuliano Pajetta, tanti anni dopo, e precisamente nel periodo che va dal 1983 alla prima pubblicazione di questo libro, nell’aprile del 1985; ed è questa anche la data della partecipe “Prefazione” di Paolo Spriano che assai opportunamente si è scelto di conservare in questa riedizione.
La terza temporalità è ovviamente quella nostra, di noi che oggi, all’inizio del 2013, abbiamo scelto di rileggere, di ripubblicare, di capire meglio, o forse di leggere per la prima volta, questo libro importante.
[…] Il tempo trascorso opera sui fatti narrati una duplice, e contrapposta, deformazione (e siamo dunque venuti al rapporto fra la seconda e la prima fra le temporalità di questo libro, fra gli anni Ottanta e i Trenta): da una parte – in negativo – col passare degli anni molto va di certo perduto, si ottenebra, si confonde, i fatti tendono a scomparire nell’oblio; ma dall’altra parte – in positivo – aumenta con la distanza prospettica anche la capacità di capire, perché la possibilità di prolungare nel tempo alcune linee di cui nel passato si poteva scorgere solo l’inizio consente di coglierne a posteriori con maggiore chiarezza il piú vero significato. Nel libro di Pajetta fra le due deformazioni del tempo questa seconda (quella che potremmo chiamare positiva) sembra decisamente prevalere.
[…] Quello stesso ragazzo comunista italiano, ora diciottenne e che dopo due anni di corsi ormai si riteneva un «quadro» adulto espertissimo, non verrà rimandato in Italia (dove era stato già arrestato il fratello Gian Carlo) ma prima si trasformerà in un «funzionario alla propaganda» dell’organizzazione della gioventú comunista presso una fabbrica di locomotive in Ucraina (che in realtà si apprestava a fabbricare carri armati), poi lavorerà come improvvisato traduttore (criticato per la bassa qualità del suo lavoro dall’inflessibile Togliatti) per le Edizioni in lingue estere di Mosca, infine sarà spedito in Crimea, a insegnare ai ragazzi, a organizzare un Club e perfino a svolgere una minima attività di giornalista presso il Kolchoz «Sacco e Vanzetti»; era questa una comunità di italiani (specie pugliesi) stabilitisi laggiú da molti anni e che conservavano nelle loro camere da pranzo i ritratti di Umberto e Margherita Savoia. Qui Pajetta assisterà anche a una sorta di processo politico contro i dirigenti locali nell’ambito della piú generale «epurazione» del 1933-34, un odioso processo pubblico e collettivo basato su antichi odi personali e sul «sentito dire» di accuse senza possibilità di smentita, concluso allora con un’assoluzione, ma segno inquietante di quali basi di consenso avrebbe avuto la terribile degenerazione che si preparava.
[…] La propaganda ateistica, con le reliquie esibite nel museo antireligioso, non lo entusiasma affatto: «Trovo il tutto abbastanza macabro e greve e non mi pare che gli altri visitatori si sentano ateisti militanti piú di me o piú di prima. Sappiamo che vi sono state superstizioni e soperchierie. Importante è guardare avanti» (p. 54). Quando visita una città o anche una fabbrica, Pajetta vorrebbe sempre saperne di piú, e soprattutto conoscerne la storia, cosciente come è che la storia del passato peserà ancora sul futuro: «Chi ci accompagna non ci aiuta a capire quali città vediamo, che storia hanno avuto e che peso potrà ancora avere questa storia» (p. 37).
Dunque è già del tutto politico lo sguardo del giovane Giuliano.
Si consideri, ad esempio, come Pajetta vive e descrive la lotta spietata contro i kulaki che fu particolarmente aspra proprio in Ucraina: « (…) vedo un convoglio di militari accompagnare dei detenuti. È un lugubre corteo: visi di affamati, vesti cenciose, almeno 400-500 uomini inquadrati da una dozzina di militari. Sui marciapiedi i passanti osservano con indifferenza. (…) Non deve essere una scena nuova per loro, ma lo è per me che lascio la cena e il sonno. Vedevo allora, e vedo ancora adesso mezzo secolo dopo, quei volti di poveri contadini inebetiti dalla stanchezza e dalla fame, non certo i volti di kulaki grassi e cattivi, con le buone giacche di fustagno, con gli stivali lucidi, quali sono esistiti realmente e quali li descriveva la propaganda» (p. 87). Ed è assai interessante notare che anche in questo caso il comunista italiano Pajetta fa prevalere l’analisi politica delle «alleanze», cioè la sua critica non si arresta all’emozione ma si concentra sulla necessità politica di separare nettamente i kulaki dalla massa dei contadini: «In quella collettivizzazione, che Stalin definí poi una rivoluzione dall’alto, combinando la forza del potere statale sovietico con le aspirazioni dei braccianti e dei contadini poveri, ha sovente preso la mano il sistema piú spiccio, quello della maniera forte. Cosí i kulaki non si sono trovati soli e isolati e il peso delle requisizioni e delle relative resistenze o sabotaggi si è esteso a gran parte dei contadini» (p. 87).
[…] A lui, vero internazionalista, appare particolarmente grave un aspetto involutivo che viene troppo spesso trascurato dalla letteratura sull’Urss, ed è la soppressione delle nazionalità che componevano l’originalissima costruzione politico-statuale dell’Unione e che vengono sempre piú appiattite in nome di un rinnovato sciovinismo grande-russo. «Il discorso sui diritti delle varie nazionalità, sul multiculturalismo, sulla convivenza e coesistenza tra tanta gente diversa ci accompagnò per tutto il viaggio, portando a un serio approfondimento delle questioni…» (p. 74). E noi sappiamo che questa appassionata curiosità da geografo, geografo dei popoli e delle culture, sarebbe rimasta una caratteristica duratura della personalità di Giuliano Pajetta, che l’avrebbe accompagnato per tutta la sua vita.
Raul Mordenti, Introduzione (R.M. 28/3/2013) a Giuliano Pajetta, Russia 1932-1934, Editori Riuniti, 2013

Si può concludere positivamente questa macabra parentesi sulle vittime italiane dello stalinismo citando una celebre lettera scritta dalla più bella mente che abbia partorito il Novecento nel suo primo mezzo secolo. Da Città del Messico, a novembre del 1944, Victor Serge scrisse a Togliatti per ricordargli le sua passate responsabilità nella persecuzione degli antifascisti italiani e per chiedergli almeno di far avere ai famigliari notizie su alcuni dei compagni fucilati o inghiottiti dal Gulag (cita Francesco Ghezzi, Otello Gaggi, Luigi Calligaris). La lettera, apparsa sulla rivista messicana Mundo, fu tradotta su La Sinistra proletaria a febbraio 1945 ed è stata poi variamente riprodotta (su Lotta continua il 18 febbraio 1978, su Belfagor a gennaio 1983).
Inutile aggiungere che Togliatti non diede mai segno di averla ricevuta.
Piero Bernocchi e Roberto Massari, C’era una volta il Pci… 70 anni di controstoria in compendio, Massari editore, Bolsena (VT), 2021