La chiave che fa di Pinter la nota stonata nel grande concerto della drammaturgia inglese degli anni Cinquanta

E un’altra metafora, che fa capolino nella maggior parte delle commedie, è quella del gioco. Pinter usa questo espediente immaginativo per suggerire l’avanzamento o la perdita di dominio sull’altro, secondo i punti di vista delle parti che si contendono il potere. Questo tipo di gioco è agonistico, ha il compito di testare forza e abilità tra i personaggi, un elemento identificativo del comportamento dell’homo ludens <60 nelle sue forme di organizzazione sociale. Spesso segna una linea di demarcazione del luogo rappresentato in scena, tra l’intruso e chi lo incontra, segnalando l’incipit della lotta, come il fischio dell’arbitro a inizio partita, capovolgendone spesso i ruoli, come in accade in The Room. Quando Mr Kidd racconta a Rose dell’incontro con il misterioso Riley e gli propone di giocare a scacchi, Riley rimane inerme, evita la sfida. Il suo atteggiamento è simile a quello di Kullus, è il padrone delle regole del gioco e del suo rifugio, il quale ha potere su chi per diritto di proprietà si presenta come il padrone della casa, All I know is he won’t say a word (…). He wouldn’t even play a game of chess. All right, I said, the other night, while we’re waiting I’ll play you a game of chess. (…) He just lies there. It’s no good for me. He just lies there, that’s all, waiting. (Vol. 1, 104). Ma successivamente, entrano in gioco altri schieramenti e Riley, aggirato l’ostacolo del primo fante, al primo round, poiché ormai padrone della stanza, come lo era diventato Kullus, sembra perdere nel secondo round con l’entrata finale di Bert, padrone della stanza e marito di Rose, molto più forte di Mr Kidd, il re al fianco della regina, sconfigge il cavaliere nel Finale di partita in un’unica mossa, mettendolo definitivamente fuori gioco, sulla scena-scacchiera. Pertanto, la metafora assume la valenza metateatrale; la partita non si gioca soltanto tra i personaggi in scena, ma la disputa avviene tra il trio autore-pubblico-personaggi, con tutte le combinazioni possibili: tutti hanno la possibilità di giocare, nella democrazia della partecipazione. Pinter preferisce fare spesso riferimento a questo tipo di gioco, forse per influenza beckettiana (si pensi ai significati simbolico-letterali del game of chess in Murphy, il primo romanzo beckettiano che Pinter scopre, intorno al 1951, leggendolo in biblioteca). Molto probabilmente è il gioco che meglio si presta per le sue caratteristiche a esprimere le tattiche e le mosse dei giocatori, il più diffuso per tradizione nei paesi anglosassoni: esso accentua the power of opposition tra due avversari in un duello faccia a faccia.
La metafora del gioco, inaugurata in The Room, dunque, continua in The Birthday Party, attraverso vari riferimenti appartenenti allo stesso campo semantico e iconico. Il gioco iniziato alla fine del I Atto, è quello infantile di Stanley che suona selvaggiamente il tamburo, sostituto del piano. Il legame tra il gioco e il suono dello strumento musicale è messo ulteriormente in risalto nella lingua inglese dall’ambivalenza del verbo to play, attraverso un pun estremamente efficace. In questa occasione, dunque, egli si confronta solo con se stesso, con il suo stadio regresso, davanti a Meg-pubblico. Poi, il gioco prosegue nel II Atto. Qui la disputa avviene con altri giocatori che entrano in scena. Petey anticipa il riferimento, sostenendo che non può partecipare alla festa di compleanno perché deve andare a concludere una partita di scacchi. Subito dopo l’allusione si riflette nella domanda di Goldberg che mette in dubbio e sferra l’attacco all’autorevolezza di Stanley sulla gestione della politica domestica, Are you the manager here? (…) Is it a good game?. E si riflette anche durante l’interrogatorio. Goldberg gli chiede Why do you force that old man out to play chess? (Vol. 1, 41), presupponendo che Stanley abbia costretto un vecchio a giocare, sapendo di essere il più forte e quindi di vincere in partenza e viene accusato di barare al gioco.
Di conseguenza, la sconfitta di Stanley, segnata dall’immagine della reazione fisica violenta, il calcio nello stomaco a Goldberg, viene annunciata a suon di tamburo, che segna il gong della fine del primo round, quello dell’interrogatorio, e l’inizio di un altro, quello della festa-gioco a cui prenderanno parte anche Meg e Lulu. Stanley partecipa ai giochi in maniera alquanto passiva: da giocatore capace di adottare le mosse più congeniali, subisce la sua stessa sconfitta, sociale e psichica, diventa una pedina, un pezzo della scacchiera, da spostare a proprio piacimento quando arriva il suo turno.
Meg, la padrona della casa, la regina degli scacchi, decide di fare la prima mossa, proponendo I want to play a game. Si gioca a mosca cieca, che riflette la cecità di Stanley, quando MacCann e Goldberg poco prima gli avevano strappato dalla faccia gli occhiali. Nel frattempo Goldberg ha intrapreso un altro gioco con Lulu, un gioco di seduzione, parallelo a quello più grande della scena. Goldberg vi fa riferimento nella battuta Maybe I played piggy-back with you. (Vol. 1, 54). Le storie che si sviluppano parallelamente fanno venire in mente alcuni drammi shakespeariani, come per esempio As you like it o King Lear, per mettere in risalto quella principale e avere una visione d’insieme, suggerita ancora di più da Pinter che concentra lo spazio, dando origine a una rifrazione di giochi nella cornice della festa-gioco.
Ma quando arriva il suo turno, Stanley, incomincia a seguire l’istinto; la sua mente è offuscata e accecata dalla rabbia e dagli istinti repressi, la cui metafora è proprio il gioco della mosca cieca che lo porta alla sua eliminazione totale dalla scacchiera, dopo un ultimo tentativo di rivalsa su Lulu della quale si prende gioco, abusandone, prima che Goldberg alla fine della festa si prenda gioco di lei. La lotta riguarda ora il possesso della donna, Goldberg è riuscito a conquistare anche la sua amica Lulu, che si accorge di essere stata usata e di aver perso e per questo è fuori gioco ed esce di scena, I’ve had enough games.(…) You used me for a night. A passing fancy (Vol. 1, 73-74).
Stanley, privato anche delle sue forze fisiche, viene portato via dai due come un manichino, pronto a eseguire ordini, incapace di intendere e di volere. Per contrasto, Petey, il padrone di casa e il re, impegnato nel finale di partita la sera precedente, gli dice Stan, don’t let them tell you what to do!
Il monito di Petey diventa la frase-chiave che echeggia nelle commedie pinteriane successive. Sulla scia tematica della caccia all’uomo, costretto a subire un processo kafkiano, Pinter raggiunge un climax in The Dumb Waiter, che si sviluppa in un crescendo di paura e minaccia sulla scena. In questo dramma, scritto nel 1957 e messo in scena per la prima volta a Francoforte sul Meno nel febbraio del 1959, le intuizioni drammaturgiche dei lavori teatrali precedenti sembrano trovare un più efficace equilibrio. Dopo il turbinio di sensazioni di paura e interrogatori terrificanti, Pinter mette in scena, di nuovo due sicari, ma con un compito ben preciso: aspettare l’arrivo della vittima, per l’esecuzione, come è stato ordinato loro.
Nell’ambiente chiuso di un soffocante seminterrato i due sicari, Ben e Gus ammazzano il tempo, aspettando l’ordine che comunicherà loro chi devono uccidere, con l’indifferenza e la ripetitività del professionista. Ma le tensioni e le incertezze mettono in crisi la loro complicità lavorativa: il non sapere perché e per conto di chi agiscono li pone in una situazione di cecità e, quindi, di incapacità e inettitudine, di debolezza e sottomissione, alienandoli e facendoli diventare semplici macchine pronte a eseguire ordini, senza discutere. Il significato della minaccia è l’occultamento della volontà e della capacità di resistere, caratteristiche tipiche di Kullus in The Examination; la negazione della libertà di pensare, un’arma a doppio taglio, è assurda e porta soltanto all’autodistruzione, come dimostra la fine del dramma.
Le parti in gioco sono già state assegnate e non c’è nessuna disputa per la conquista del potere: l’autorità è tutta nelle mani di un presunto capo che si manifesta attraverso sintomi e segni ermetici: una busta di fiammiferi scivola sotto la porta; un cigolio meccanico e inaspettato annuncia la discesa del calapranzi. Dall’alto provengono indicazioni enigmatiche e oblique, forse segnali in codice o forse ordini per la cucina del ristorante. Pinter in questo dramma studia le reazioni dei due sicari che di fronte al potere vengono messi alla prova, in un modo simile a quello in cui era stato sottoposto Kullus nella stanza, come per esempio le difficoltà che Gus incontra per preparare il tè: l’assenza dei fiammiferi, che solo successivamente scivolano in un pacchetto sotto la porta, e il fornello della cucina che non funziona, It’s going. (Vol. 1, 127). I due si portano dentro paure che esplodono in battibecchi serrati, in piccole violenze personali, come per un accumulo di cariche elettriche interne e, nello stesso tempo, prendono forma materiale e si riflettono proiettandosi sulla realtà esterna, degli elementi della scena: il calapranzi sale e scende impazzito e reclama cibi bizzarri come fegato in cipollata, ormitha macarounada e persino lo sciacquone ha dei comportamenti anomali.
Questi giochi che un deus ex machina dumb waiter sottende ai due aggiungono un sapore comico al dramma, ma lasciano un retrogusto amaro quando alla fine il gioco si fa pericoloso e smette di essere tale. Alla finzione della fabula si riflette la terrificante realtà scenica: Ben dice You kill me. (Vol. 1, 118), rimanda alla scena finale, ma con i ruoli rovesciati; e allo stesso modo quando Gus prova le mosse dell’uccisione. Anche la battuta di Ben, You’re playing a dirty game, my lad! (Vol. 1, 134), che echeggia quella di McCann, durante l’interrogatorio, anticipa e proietta il finale. Ma tutti questi giochi portano all’esasperazione: Gus finisce con il mal di testa, sintomo della sua inadeguatezza e alla fine esplode, Well, what’s he playing all these games for? (Vol. 1, 146). L’ambivalenza della domanda, che assume i toni di un grido disperato, di tortura, può essere rivolta anche all’autore da parte del pubblico, suggerendo un’allusione alla metafora metateatrale. L’effetto della minaccia è efficace perché, appunto, si ribalta sul pubblico. Nessuna soddisfazione, nessuna consolazione salvano la platea dai propri dubbi quando cala il sipario. Nessun ispettore e nessun detective arrivano alla fine per chiarire il mistero. Metaforicamente, dunque, si allude alla lotta per il dominio tra autore e pubblico, Gus che cerca di spiegare tutto razionalmente. In un’intervista Pinter mette in evidenza il suo rapporto con il pubblico. Da attore egli lo considera un nemico, ho imparato a nutrire ostilità nei confronti del pubblico. Il teatro diventa allora una specie di gara tra il pubblico e l’opera che viene allestita in palcoscenico. Da questo nasce la tensione di un lavoro teatrale, <61 da cui, per Pinter, è sempre quest’ultimo a uscire vittorioso.
E proprio quello che sembra più portato ai dubbi e alle domande, Gus, il più debole dei due, quello che più parla e che vuole svelare il mistero, diventa, nel finale inatteso e sorprendente, la vittima designata che si trova puntata addosso la pistola di Ben un attimo prima che cali il sipario. Ma la minaccia non si conclude sul palcoscenico, il significato è da rintracciare altrove, è dislocato attraverso la catacresi della metafora assoluta <62, come accade nella poesia di Dylan Thomas. Pinter stesso ha risposto: Il mondo è pieno di sorprese in qualsiasi momento una porta può aprirsi e qualcuno può entrare. Ci piacerebbe sapere chi è. Ci piacerebbe sapere che cosa ha in mente, e perché è venuto. Ma quante sono le volte in cui sappiamo davvero ciò che ha in mente, o chi è, o perché è ciò che è, e che relazioni ha con gli altri? <63
I due sicari, che per mestiere dovrebbero rappresentare la minaccia, quindi portatori di essa, finiscono per essere minacciati dalla macchina che sembra aver vinto sulla volontà umana, annientandola. La minaccia a scatola cinese mette in risalto l’assurdità del paradosso e il cambio di ruolo di Gus da sicario a vittima, riflette maggiormente la doppia valenza. Questo, molto probabilmente, è il tratto innovativo che contraddistingue la commedia di Pinter dal racconto breve The Killers di E. Hemingway, a cui il drammaturgo si ispira.
Dalla situazione traspare il motivo unificante del senso ineludibile di minaccia. Ecco la chiave che fa di Pinter la nota stonata nel grande concerto della drammaturgia inglese degli anni Cinquanta, rispetto ai suoi coetanei.
In The Dumb Waiter la minaccia è suggerita anche dai toni violenti dei due sicari. Qui si raggiunge con più intensità la violenza iniziata nella scena finale di The Room; essa continua con l’interrogatorio di Goldberg e McCann e i loro giochi in The Birthday Party. In questo dramma essa diventa metafora scenica del mondo pieno di terrore e di minaccia.
Come sostiene Harold Hobson, il terrore è nell’aria. Non gli si può dare un volto, ma alita nella stanza ogni volta che la porta si apre. (…) C’è sempre la possibilità che un giorno due individui capitino davanti alla vostra porta. <64
La reazione al pericolo della minaccia è molteplice e ognuno reagisce in modi diversi a seconda dell’effetto che produce sull’altro. Perciò si può dire: tanti ordinamenti, tante estraneità, tante ostilità. Ogni tipo di ordine dispone di speciali meccanismi per produrre immagini e concetti del nemico <65, opera di un immaginario sociale nero e distruttivo.
Una forma più accentuata di ostilità è l’aggressione che porta ad una violenza diretta, immediata, corporea, scatenando il conflitto. Esiste però un parossismo della violenza che non cerca soltanto di dominare sull’altro, non cerca semplicemente il profitto a costo dell’altro, ma la sua morte. Si innesca un meccanismo di autodifesa che segue la logica dell’annientamento del nemico, dell’eliminazione della sua presenza, sostituita con la distruzione definitiva. L’odio passionale, come l’amore, non riesce a fare calcoli.
L’annientamento del nemico attraverso la manipolazione del potere nella forma di un sistema organizzato è il motivo principale di The Hothouse dove, come in The Dumb Waiter, viene rappresentata una macchina del potere che impartisce ordini, ma a differenza della commedia precedente, il tentativo di rivolta finale del rifiuto di un potere autoritario, lascia intravedere per qualche attimo un barlume di speranza.
Ma l’elemento innovativo di questo dramma è soprattutto la reversibilità dei rapporti di potere.
[NOTE]
60 Guido Almansi, Simon Henderson, Harold Pinter, London and New York, Methuen, 1983, p. 24
61 R. Canziani, G. Capitta, Harold Pinter. Scena e potere, op. cit., pp. 191-192
62 Marcello Pagnini, Difficoltà e oscurità: il linguaggio del modernismo, in Franco Marenco (a cura di), Storia della civiltà letteraria inglese, Torino, Einaudi, 1996, Vol. III, p. 34
63 R. Canziani, G. Capitta, Harold Pinter. Scena e potere, op. cit., p. 42
64 Ibidem, p. 39
65 B. Waldenfels, Fenomenologia dell’estraneità, op. cit.
Elisa Faiulo, “Terror and menace” nell’opera di Harold Pinter, Tesi di Dottorato, Università “La Sapienza” – Roma, Anno Accademico 2008/2009