In questo bosco si strinsero la mano i volontari della libertà di tre Province, oggi gelose custodi di tre medaglie d’oro al valor partigiano

Casa Forestale della Candaglia. Fonte: Mapio.net

Dalla chiesa di Montanès (provincia di Belluno), dedicata a San Martino, si domina il Lago di Santa Croce. Lo sguardo si spinge dal Cansiglio al Col Visentin e alle dolomitiche pareti della Schiara.
In lontananza si distinguono il Grappa e l’Altopiano di Asiago dove “Piccoli maestri” partigiani scrissero altre pagine significative.
Tra il ’43 e il ’45 molte furono le vicende di questa conca verde circondata dalle cime suggestive di Col Nudo, Teverone, Crep Nudo, Antander, Messer…
Su alcuni episodi della Resistenza in Alpago ero stato informato dal compianto Luigi De Min di Lamosano, comandante di un battaglione della Brigata Fratelli Bandiera, nome di battaglia “Squalo” per il servizio militare svolto in Marina, nei sommergibili.
Altre notizie le avevo poi avute da Nino De Marchi (il comandante “Rolando”), autore del libro “Memorie 1943-1945”.
Per saperne di più avevo poi incontrato Carlo Barattin, classe 1925, di Montanès.
“Nel 1943 -mi spiegava- anche noi dell’Alpago siamo stati annessi alla “Grande Germania” del Reich, come l’intera provincia di Belluno insieme a quelle di Bolzano, di Trento e al Friuli Venezia Giulia. Era il territorio dell’Alpenvorland, governato direttamente dai tedeschi”.
Proprio riferendosi a questo evento Nino de Marchi affermava che “la nostra lotta fu, senza dubbio, guerra di liberazione ed anche di indipendenza”.
Racconta Carlo Barattin: “Personalmente ero già stato alla visita di leva italiana, ma nel novembre ’43 venni richiamato dai tedeschi. A Montanès eravamo in 8 del ’25 e in un primo momento non ci presentammo. Poi, minacciati dal Podestà (sosteneva che in tutto l’Alpago solo noi non ci eravamo presentati), andammo a Puos per la visita. Ripensandoci è stato un errore. Da quel momento avevano nomi e cognomi precisi di ogni renitente e se ti prendevano eri spacciato”.
La cartolina arrivò dopo quindici giorni e “noi abbiamo preso la corriera verso Ponte nelle Alpi. D’accordo con l’autista siamo scesi in una zona disabitata e per due mesi siamo rimasti nascosti nei boschi”.
A questo punto il gruppo di renitenti decise di integrarsi nella Resistenza, alcuni in Cansiglio, altri in Alpago. Qui operava la Brigata Fratelli Bandiera comandata da Nino De Marchi, ex ufficiale di Artiglieria Alpina. In seguito De Marchi doveva diventare il comandante della Brigata Nino Bixio. Nella piana del Cansiglio si era insediato il Comando di Divisione Nino Nanetti (dedicata ad un esponente delle Brigate Internazionali caduto, con il grado di generale, sul fronte basco al comando di una divisione dell’Esercito popolare) che comprendeva le brigate del Gruppo Vittorio Veneto: Cairoli, Fratelli Bandiera, Bixio (con i battaglioni Manara, Nievo e Manin) oltre alle brigate Mazzini, Tollot e Piave.
“Ad un certo punto -continua Carlo Barattin- ci siano spostati a Pian Cajada, sopra Longarone e Fortogna, dietro il monte Serva. Poi siamo andati alle casere Stabali, sotto al Monte Dolada e al Col Mat, verso Venal di Montanes. Con noi c’era anche il comando del CLN. Ricordo che con Giorgio Bettiol e Attilio Tissi dovevamo fare la guardia ad un gruppo di tedeschi. Grazie al parroco di Padola, don Weiss, organizzammo uno scambio di prigionieri alle “paludi”, vicino al canale sotto Tignes. Noi abbiamo consegnato otto tedeschi e contemporaneamente, in base all’accordo, a Bolzano venivano liberati alcuni prigionieri dal campo di concentramento”.
Naturalmente nel gruppo dei giovani partigiani “c’era un po’ di paura. Noi eravamo in quattro (più il parroco) con otto prigionieri. Di fronte, in mezzo alla strada, c’era un maresciallo tedesco con quattro soldati”. Carlo ricorda che in quel periodo vennero attaccati il presidio di Puos, quello di Bastia e di Santa Croce. Una volta un attacco è fallito perché “dovevamo attraversare un ghiaione e il rumore dei sassi che cadevano ha messo in allarme i nemici che hanno cominciato a sparare”.
Un evento particolare nella storia dell’Alpago è rappresentato dall’arrivo del maggiore Harold William Tilman. Del mitico comandante della missione alleata Beriwind, conosciuta come Simia, mi avevano parlato sia Luigi De Min che Nino De Marchi.
Nato nel 1898, Tilman, noto alpinista-esploratore con esperienze himalaiane, viene ricordato per la prima ascensione del Nanda Devi nel 1936, all’epoca la più alta vetta mai raggiunta. Al suo attivo scalate sui monti Kenya, Ruwenzori. Kilimanjaro e in Patagonia, oltre a tre tentativi sull’Everest.
In Alpago e Cansiglio Tilman manteneva i collegamenti con le truppe sbarcate nel sud d’Italia e garantiva la possibilità di ricevere rifornimenti paracadutati dagli aerei.
Carlo fece parte del gruppo incaricato di incontrare Tilman (arrivato a piedi dall’Altopiano di Asiago dove era stato paracadutato pochi giorni prima) e di portarlo in Alpago.
“Siamo andati a prenderlo sul Piave, nella zona tra Castion e Sagrogna, nel maggio del 1944, di notte. Durante il ritorno, eravamo appena arrivati a Puos e ci eravamo fermati per riposare, è iniziato l’attacco di un altro gruppo di partigiani al presidio. Naturalmente siamo ripartiti immediatamente”.
Tilman rimase a lungo con il gruppo di Carlo esplorando le vette circostanti. In particolare “cercava un passaggio da utilizzare per sfuggire ai rastrellamenti raggiungendo Cimolais e la valle del torrente Cellina (in Friuli) attraverso i monti”. Spesso queste esplorazioni si concludevano in piena notte. Del maggiore ricorda anche che “in pieno inverno scendeva dal Col Nudo (quota 2471) e per lavarsi si tuffava nell’acqua gelida”.
Tilman “riceveva e trasmetteva in codice, senza che neppure il marconista, un toscano, potesse comprendere. L’interprete era un tenente di artiglieria di Trento”.
Ai partigiani era affidato il compito di recuperare i piloti inglesi e americani colpiti dai tedeschi. Racconta che “ne avevamo sempre una dozzina nascosti. Una volta in Cansiglio cadde una fortezza volante; tre piloti morirono, ma altri tre sopravvissero. Tra questi c’era un capitano di nome Tom”. A Montanès si ricordano anche di un certo “Tech”. Rimasero tutti nascosti per mesi nelle casere sopra il paese.
“Un altro pilota – prosegue Carlo – lo abbiamo recuperato in Fadalto, vicino al Lago di Santa Croce. La vita non era facile. C’era poco da mangiare e non era semplice procurarsi del cibo”.
Inizialmente i paracadute venivano bruciati “poi li usammo per fare delle camicie”.
Ogni tanto “i piloti sparivano. Tilman trovava il modo di mandarli verso Venezia, verso Trieste, verso il mare…dove venivano recuperati”. E’ significativo che dopo la guerra alcune famiglie di Montanès abbiano avuto un riconoscimento benemerito dalla RAF.
Bisognava inoltre recuperare il materiale paracadutato dagli aerei. I “lanci” avvenivano soprattutto in Cansiglio e Pian Cavallo, dove era facile nascondere le armi e i viveri nelle numerose cavità naturali.
Luigi De Min mi aveva raccontato di quando con Tilman aveva risalito il Venal di Montanès fino al Passo di Valbona, tra il Col Nudo e la Cima della Pala del Castello per poi inoltrarsi lungo il sentiero impervio delle Landres Negres, già nel Friuli. Al ritorno il maggiore si levò il giubbotto e con quello scese per il ripido pendio ricoperto di neve “come se fosse sopra ad uno slittino”.
Ma anche i tedeschi erano alla ricerca del passaggio.“Una volta –racconta il nostro interlocutore-prelevarono alcune persone a Montanès tentando di raggiungere il Passo di Valbona con i muli”. Sembra che siano riusciti ad “arrivare fino a Claut, forse a Barcis. Uno dei sequestrati è riuscito a scappare: gli altri due poi sono stati rilasciati…era solo un giro di esplorazione”.
Ben più grave quella che accadde durante un rastrellamento quando “i tedeschi arrivarono da Farra, mentre il nostro gruppo si trovava a Col Indes (sopra Tambre). Il primo morto lo hanno fatto a Sant’Anna dove allora c’era soltanto la malga”. Era l’epoca dei grandi rastrellamenti che colpirono anche sulle montagne vicentine: dalla valle di Posina (in agosto, Malga Zonta), all’Altopiano (ne parla Meneghello in “Piccoli maestri”), al Grappa. Poi, in settembre, toccò al Cansiglio e all’Alpago. Durante il rastrellamento del settembre 1944 i tedeschi “hanno ucciso anche alcuni malgari in Val Salatis, la valle che risale verso il Monte Cavallo. A Spert i partigiani catturati e uccisi sono stati appesi ai ganci, esposti come in una macelleria”.
Carlo ricorda con commozione anche un’altra vittima dei nazifascismi, il “Comandante Zero”, originario da Soccher, del battaglione Piave. Era stato fatto prigioniero e avrebbe dovuto portare i soldati in Venal di Montanès, alle casere Stabali dove erano nascosti i partigiani e il comando del CLN. Finse di sbagliar strada portandoli in Venal di Funès, sull’altro versante del Teverone. Naturalmente “quando si resero conto di essere stati ingannati i tedeschi lo ammazzarono. Il corpo del comandante Zero venne ritrovato nei boschi da Tilman, vicino alla Crosetta. Noi pensavamo che dopo la cattura fosse stato deportato. Con il suo sacrificio -sottolinea- ha salvato una cinquantina di persone, tutte quelle che in quel momento si trovavano a Stabali”.
E prosegue ricordando che “nel gennaio del 1945 da Tambre vennero deportate una cinquantina di persone, in maggioranza renitenti. Alcuni finirono a Mathausen e solo tre o quattro ritornarono a casa. Uno in particolare ritornò distrutto psicologicamente. Nel campo di concentramento era stato costretto a bruciare i cadaveri dei suoi compagni”.
Il 20 febbraio alla casera di Montanès venne ucciso Vittorio Barattin (nome di battaglia Faè) un partigiano amico e coetaneo di Carlo. L’episodio è stato raccontato anche da Nino De Marchi. In quel momento il comandante partigiano si trovava proprio a Montanes dove era stato mandato per riorganizzare la sua vecchia brigata, la “Fratelli Bandiera”.
“Quel giorno a Montanès i tedeschi avevano rinchiuso nelle stalle una trentina di civili che sicuramente sarebbero stati uccisi per rappresaglia se ci fosse stato uno scontro a fuoco, se Nino avesse tentato di sganciarsi combattendo”. Invece il “comandante Rolando”, rischiando di essere catturato, riuscì a restare nascosto durante il rastrellamento e le perquisizioni. Alla fine i tedeschi se ne andarono senza distruggere il paese.
Lorenzo Barattin, anche lui del ’25, ricorda che “la sera prima avevo dormito nella casera di Montanès con mio fratello e con Vittorio , ma per ben tre volte avevo fatto un sogno angoscioso. Entrava nella casera un cacciatore e si metteva a dormire vicino a noi. Sempre lo stesso sogno per tre volte. Ne parlai con mio fratello e decidemmo di traslocare”. Invece Vittorio aveva incontrato in paese alcuni partigiani e rimase con loro nella casera. “Morì -racconta-per una pallottola che entrò dalla spalla e forò il polmone”.
Finita la guerra, nonostante avessero partecipato alla Resistenza (“pagando il prezzo del biglietto di ritorno alla democrazia”) Carlo, Lorenzo e altri partigiani dell’Alpago furono obbligati a fare anche il militare. Poi se ne andarono a lavorare in Svizzera, in Francia o in Belgio.
Quanto a Tilman, l’ultima immagine che Carlo conserva è quella del maggiore mentre sale su una jeep americana a “la Secca”, sulla strada che collega Vittorio Veneto a Ponte nelle Alpi. La sua vita avventurosa si concluse nel 1977 quando, navigando verso le isole Falkland, scomparve misteriosamente nell’Oceano Atlantico.
Gianni Sartori, Alpago resistente, Polvere da sparo, 20 maggio 2014

Nino Nannetti era un operaio bolognese caduto nella guerra di Spagna, combattendo contro Franco nelle Brigate Internazionali. Alla fine d’aprile del ’44, seicento partigiani garibaldini, costituiscono la brigata che porta il suo nome nella Foresta del Cansiglio, al confine con due regioni e tre province: Friuli e Veneto, Pordenone, Belluno e Treviso. Ben presto, forte di tanti altri partigiani, la Brigata “Nannetti” diventa una divisione con quattromila combattenti, composta da otto brigate, diretta dal bellunese Francesco Pesce “Milo”, eccezionale figura di organizzatore e comandante, dopo la Liberazione insignito di Medaglia d’Argento al Valor Militare.
L’occupazione della Foresta del Cansiglio da parte della Divisione “Nino Nannetti”, diventa fondamentale per l’andamento della lotta partigiana, nel Pordenonese come nelle province di Belluno e Treviso.
All’inizio di settembre del 1944 i combattenti del Cansiglio affrontano una delle prove più difficili. Oltre quindicimila nazifascisti cercano di annientare i “banditen” dell’altopiano. La perfetta conoscenza della foresta e della montagna da parte dei comandanti partigiani, consente a quasi tutti i patrioti, fra l’8 e il 9 settembre ’44, di rompere l’accerchiamento, passando fra le maglie di nazisti e repubblichini. Negli scontri i nazifascisti perdono oltre cento uomini. I partigiani della “Nannetti” contano nove caduti, e riescono a sganciarsi dal Cansiglio verso i centri pedemontani. A tedeschi e fascisti non resta che bruciare decine di stavoli e malghe. La Brigata “Nannetti”, pressoché intatta, alla fine di settembre prende di nuovo possesso della Foresta del Cansiglio che, caratterizzata dalle doline, a mille metri di quota si estende per 6.570 ettari.
Dalla fine del 1944, con i combattenti della “Nannetti” opera la missione alleata “Beriwind”, diretta dal maggiore inglese Harold William Tilman “Bill”, eccezionale figura di esploratore e alpinista. Il ruolo di Tilman diventa prezioso, in quei lunghi mesi di guerra, perché ottiene, da parte inglese e americana, lanci paracadutati di armi e viveri, sia in Cansiglio (28 lanci) alla base di “Col dei Scios”, presidiata dal comandante Raimondo Lacchin “Chirurgo-Glucor”, che nel vicino Piancavallo (2 lanci).
Durante tutti i mesi invernali la Divisione “Nannetti” mantiene il suo avamposto in Cansiglio, attacca ripetutamente nazisti e repubblichini, arrecando loro gravi perdite, interrompendo rifornimenti e comunicazioni del nemico. Tutto ciò in preparazione dell’offensiva finale che, nella primavera del 1945 impegna seimila partigiani.
Conta 490 caduti la Divisione “Nino Nannetti” alla fine della guerra, quando viene ufficialmente elogiata dai generali Alexander (inglese), comandante dello scacchiere del Mediterraneo, e Clark (americano), comandante delle truppe alleate in Italia […]
Sigfrido Cescut, Ricordata la lotta partigiana della “Nanetti” in Cansiglio, Patria Indipendente, 28 novembre 2010

Tra i sentieri della Resistenza in Cansiglio proposti dall’Istituto per la Storia della Resistenza e della Società Contemporanea del Vittoriese e raccolti in una guida con 29 itinerari curata da Pier Paolo Brescacin e Fernando De Conti, desta un interesse particolare quello dedicato alla Brigata partigiana “Ciro Menotti” che viene ripreso e ripresentato nel diario del Comandante Raimondo Lacchin “Chirurgo-Glucor” pubblicato con il titolo Quando vestivamo alla Garibaldina. Diario 1944-1945.
In Cansiglio tra il 1943 e il 1945 confinavano tra loro la Repubblica Sociale Italiana, l’Adriatisches Küstenland e l’Alpen Vorland; oggi, invece, si intersecano le province di Belluno, Treviso e Pordenone, e due regioni, il Veneto e il Friuli Venezia Giulia.
L’esplorazione, accompagnata dalla lettura di stralci tratti dal diario di “Chirurgo”, permette di rivivere emozioni, paure, fatiche e tensioni, ma anche momenti di comunanza e di amicizia all’interno della brigata partigiana quando nell’inverno del 1944 sono: «sprofondati nella nebbia e nella neve, isolati da tutto il resto del mondo. […] sotto folate di vento e pioggia ghiacciata che spazzano incessantemente la piccola radura».
[…] L’escursione inizia dal Monumento della Resistenza installato in Pian del Cansiglio e dedicato ai Caduti della Divisione Nino Nannetti, opera dello scultore Augusto Murer: due gigantesche mani sintetizzate nell’immobilità della pietra da cui spiccano il volo delle colombe.
Una lapide ricorda:
“In questo bosco si strinsero la mano i volontari della libertà di tre Province, oggi gelose custodi di tre medaglie d’oro al valor partigiano. Qui ebbero sede il Comando della Divisione Nannetti ed il Comando della Zona Piave espressi da un popolo in lotta. Qui tremila italiani, esaurite le munizioni, infransero l’accerchiamento nazista e qui ritornarono ancora più forti. Da questo bosco i 406 caduti della Nannetti indicano le vie luminose del progresso, della libertà, della pace e riconsacrano Vittorio Veneto a simbolo dell’indipendenza della patria – Bosco del Cansiglio, settembre 1943-aprile 1945”.
Si tratta di un luogo della memoria fondamentale per la storia della Resistenza veneta, in cui dal 1989 ogni seconda domenica di settembre si commemora il grande rastrellamento nazifascista dell’8 settembre 1944 che aveva impegnato oltre 10mila tedeschi e fascisti; le Brigate partigiane sopravvissero grazie ad uno sganciamento che salvò i reparti permettendone la loro ricostituzione solo dopo pochi giorni.
L’escursione prosegue ad est raggiungendo l’Archeton, un’area ricreativa immersa nel verde, e continua tra faggete e abeti bianchi fino a raggiungere la zona chiamata Candaglia e la Stazione Forestale di Candaglia.
Il cammino porta poi a Casera Ceresera (Zharesera) attigua a un rifugio recentemente ristrutturato dal CAI di Sacile. In questa casera vennero ospitate le missioni alleate Beriwind e Scorpion e, dall’ottobre del 1944 alla primavera del 1945, si era stanziato il Comando della Brigata “Ciro Menotti” con il suo comandante “Chirurgo” (Raimondo Lacchin), il commissario politico “Giorgio” (Giorgio Vicchi) e il capo di stato maggiore “Milos” (Roberto Anelli Monti).
Il percorso procede fino alla località denominata Masonil Vecio in cui si erano insediati i battaglioni Nievo e Peruch della Brigata “Ciro Menotti”, dal dicembre del 1944, e dove si tenevano le ore di politica come quelle in cui «Giorgio, il commissario di brigata, ha parlato del futuro assetto che l’Italia dovrà avere a Liberazione avvenuta. A suo avviso grande spazio dovranno avere le classi più povere, i contadini e gli operai, che tanta parte hanno nell’attuale lotta contro i nazifascisti e che fin ora sono rimaste ai margini della vita politica. La nuova Italia – secondo Giorgio – dovrà garantire più libertà, ma soprattutto partecipazione, giustizia ed uguaglianza alle classi più povere» (Quando vestivamo alla Garibaldina, p. 7).
Il cammino riprende attraversando un sentiero pianeggiante che conduce all’ex cimitero dei partigiani. Purtroppo i segni delle sepolture sono nascosti dall’erba e poco riconoscibili. Proseguendo l’escursione si raggiunge nuovamente la Candaglia e il Monumento della Resistenza in Pian del Cansiglio, completando così il percorso ad anello.
Monica Emmanuelli, Sprofondati nella nebbia e nella neve, Patria Indipendente, 21 marzo 2016