Imponeva alla gloriosa troupe i princìpi dell’ensemble attoriale

Breve avvertenza contro possibili ipersemplificazioni del contesto
Nella percezione diffusa del teatro drammatico russo del Novecento vige da tempo immemorabile una sorta di distorsione del continuum, per cui i Magnifici Anni Venti (gli unici, autentici roaring twenties dell’esperienza scenica mondiale) sarebbero durati due, al massimo tre anni, culminando grosso modo con la stagione biomeccanico-costruttivista di Mejerchol’d per poi sfumare rapidamente in una qualche aureissima mediocritas avvalorata o quanto meno contestualizzabile, per un verso, dalla e nella parziale “normalizzazione” ascrivibile alla parziale reintroduzione di criteri mercantil-spettacolari (NEP); quasi sfarinata, per converso, nell’incipiente caligine sociopolitica che, calata dall’alto su ogni sorta di attività artistico-culturale in virtù di una indefinita (nei latori di tale visione) “lotta per la successione” a Lenin, ove la figura di Stalin si sarebbe andata grevemente affermando con celere e univoca gradualità.
In realtà, da tempo forse un po’ meno immemorabile, ma certo misurabile in termini di decenni (almeno a partire dalla perestrojka, che d’altronde concluse sotto questo riguardo un processo avviatosi con il XX congresso del PCUS), la storiografia sovietica e occidentale ha messo a disposizione di chiunque voglia prenderne visione una mole impressionante di lavori, documenti, materiali e analisi che mostrano come il decennio successivo alla morte di Lenin procedesse, nella dirigenza del partito, secondo le stesse dinamiche che avevano contrassegnato il periodo rivoluzionario e prerivoluzionario della sua leadership: quelle di una dialettica politico-ideologica, feroce non meno che contorta e sottile, tale da richiedere – nel peculiare statuto sociologico e sinanche spirituale della intelligencija russa – riposizionamenti pressoché quotidiani da parte di chiunque si trovasse, in un processo a cascata, ad agire in dipendenza da (o collaborazione con) i numerosissimi protagonisti di quella lotta, e in misura grosso modo proporzionale alla propria contiguità con costoro.
La persistenza e la natura ondivaga della linea disegnata da quei sinuosissimi meandri possono essere peraltro evocate limitandoci a ricordare <1 che se nel maggio 1924 venne letto ai delegati del XIII Congresso il celeberrimo “testamento di Lenin”, in cui si proponeva di rimuovere Stalin dalla segreteria del partito, quasi un decennio dopo, il 26 gennaio 1934 – ovvero a un’altezza storica dove la suddetta semplicistica lettura dei fatti, con ragioni che assorbono più di qualcosa dal “senno di poi”, percepisce come ormai lungamente invalsa la supremazia indiscussa della linea staliniana – si sarebbero aperti i lavori del XVII Congresso (passato poi alla storia come “Congresso dei vincitori” o “Congresso dei fucilati”, a seconda dei punti di vista), allorché 270 dei 1227 delegati scelsero di cancellare il nome di Stalin dalla scheda su cui esso figurava come quello dell’unico candidato a Segretario.
Queste considerazioni preliminari, probabilmente di per sé pedisseque, potranno forse fungere da labile promemoria nel momento in cui ci accingiamo a svolgere un discorso ove i richiami alle circostanze storico-politiche, necessariamente iperlaconici, rischierebbero altrimenti di sprofondare sotto il peso della propria deprecabile superficialità.
Le nuove scene e il dramma eroico-rivoluzionario
Beninteso, la cesura ci fu, ma per logica storiografica conviene retrodatarla ulteriormente agli albori stessi del decennio, allorché la fine della guerra civile privò dei propri contesti le vorticose quanto cogenti sperimentazioni che avevano generato autentici nuovi generi scenico-drammatici.
In particolare, se la vittoria dell’Armata Rossa e la sostanziale scomparsa di un fronte mobile rendeva ipso facto inattuale l’esperienza delle agitki, il coinvolgimento ideologico delle metropoli, non più finalizzato alla costruzione di un consenso militante bensì dirottato sulle esigenze della costruzione di un inedito sistema socioeconomico, declassava le massovki, già inusitato strumento di autorappresentazione collettiva di un soggetto storico collettivo in fieri, al rango cronologicamente “storicizzato”, e dunque distanziato, di sporadiche occasioni celebrative, implicando il ritorno delle classi medie e popolari dal ruolo di attori di massa alle usate funzioni spettatoriali. Viceversa, e per ciò stesso, all’esperienza autogestita dei collettivi scenico-drammatici samostojatel’nye <2 si dischiudeva la prospettiva di una rapida istituzionalizzazione che avrebbe generato in tutto il Paese la fondazione di centinaia di nuovi teatri, variamente legati a una gamma di movimenti, sindacati e organizzazioni locali fatalmente sottoposti alla duplice, spesso divergente quando non contrapposta pressione centripeta del partito e del Proletkul’t, nonché ben presto interagenti con le restaurate, quand’anche radicalmente mutate, strutture di produzione pubblica, di fede “accademica” o “sinistrista”, e con l’incipiente “concorrenza” NEPpiana <3 di imprese private volte al mero intrattenimento (o al recupero di stilemi, per così dire, ancien régime), e incentivate dal congelamento dei primi decreti rivoluzionari sulla gratuità dei prodotti artistico-culturali, ivi compresi gli spettacoli.
La suddetta logica storiografica suggerirebbe dunque di considerare le coeve acquisizioni apicali di Vachtangov, Tairov e Mejerchol’d (per intenderci, fra Dibbuk e la biomeccanica, ovvero fra la fine del 1920 e buona parte del 1922) come punte di uno sterminato iceberg non più esposto alla deriva dell’aperto oceano rivoluzionario, bensì in via d’ancoraggio alla nascente piattaforma continentale di un sistema sociostatuale tutto da inventare. Di fatto, la vicenda immediatamente successiva del teatro drammatico russo e sovietico <4 (almeno per quanto se ne può desumere dall’attività dei principali collettivi scenici moscoviti e leningradesi) si svolse in sostanziale continuità con questo scenario. <5
Beninteso, le contrastanti attenzioni delle fazioni in lotta si concentravano con massima e talora parossistica intensità sulle imprese di Mejerchol’d, in virtù della posizione egemonica tenacemente perseguita e conquistata dal Maestro di Tula, nonché della scomparsa prematura di Vachtangov. Ma sullo sfondo, e a livelli variamente interconnessi, l’offerta scenico-drammatica venne rimodulandosi attorno a coordinate in rapida evoluzione. Tra queste, si possono forse individuare tre plessi fattuali destinati ad assumere una crescente importanza nella seconda metà del decennio, e che negli anni Trenta avrebbero innervato la struttura portante del teatro drammatico russo: nell’autunno 1924, il ritorno in patria del MCHAT <6 dalla lunga tournée “tattica” in Occidente intrapresa già nel 1922, e il nuovo, tormentato rapporto con i suoi Studi; l’istituzionalizzazione di centinaia di collettivi più o meno samostojatel’nye o informali; la comparsa pressoché simultanea, attorno al 1925, della prima generazione di drammaturghi post-ottobresca che – situandosi entro un’amplissima gamma stilistica, estetica e ideologica – dette modo alla critica di superare lo spaesamento provocato dalle sperimentazioni più o meno decifrabili susseguitesi nel cosiddetto “Ottobre teatrale” e recuperare gli usati criteri tradizionali, dando luogo a un’attitudine generalizzata di “ri-letterarizzazione” dell’arte scenica.
Terreno privilegiato dell’interazione tra questi fenomeni fu quello ove si gettarono le fondamenta di un nuovo genere scenico-drammatico, ove drammaturghi e registi erano chiamati, talora in stretta collaborazione, a presentare in una veste epico-eroica vicende più o meno emblematiche della recente guerra civile.
Destinato nel corso del tempo a sclerotizzarsi in conformistica routine agiografica, ai suoi albori tale indirizzo fu tuttavia percepito come articolazione centrale di un’autentica new wave drammaturgica (ove tra gli altri esordirono nella scrittura per il teatro scrittori del calibro di Bulgakov, Erdman, Zamjatin e Oleša) vòlta alle tematiche contemporanee e caratterizzata da una notevole varietà stilistica nonché da cospicue innovazioni strutturali. Inoltre, fu in questo tipo di spettacoli che si sarebbe forgiata tutta una generazione di artisti della scena.
Massima influenza avrebbero esercitato tre premières assolute: Virineja (V.), Štorm (Tempesta) e Ljubov’ Jarovaja (L. Ja.). Lidija Sejfullina aveva trasposto Virineja dal proprio racconto omonimo per la scena del Terzo Studio del MCHAT (13 ottobre 1925).
Dopo un lungo periodo di stasi e tensioni, <7 Aleksej Popov, già protagonista degli Studi del MCHT, <8 aveva assunto le redini del Terzo Studio, inaugurandovi una luminosa carriera che sarebbe culminata nella direzione del mejerchol’diano Teatr Revoljucii (TR; Teatro della Rivoluzione), guidato dal 1930 al 1935, e successivamente (1935-1960) del Central’nyj teatr Krasnoj Armii (CTKA; Teatro Centrale dell’Armata Rossa), <9 nonché in qualità di pedagogo post-stanislavskijano. < 10 A lui e a Marija Knebel’ <11 si deve l’elaborazione di quel metodo dell’analisi attiva <12 su cui si sarebbero formati presso il GITIS <13 intiere generazioni di futuri registi (fra i quali Anatolij Efros, Leonid Chejfec e Anatolij Vasil’ev), e che costituisce uno degli aspetti evolutivi più articolati ed efficaci con cui le sparse membra del “sistema” sono pervenute al nuovo millennio. In Virineja, Popov fornì un primo saggio della sua maestria nella concezione e realizzazione delle scene di massa (che avrebbe poi dispiegato sull’enorme palcoscenico del CTKA, appositamente costruito per esaltare questo suo ormai acclarato talento) raccordate alle prestazioni di Ščukin e Iosif Tolčanov, al quale lo spettacolo conferì il rango di astro del firmamento attoriale neosovietico.
Nemmeno un mese dopo l’attore e regista Evsej Ljubimov-Lanskoj inaugurò la propria direzione presso il giovane Teatr imeni MGSPS <14 presentando Štorm, una pièce in cui il pubblicista e funzionario di partito Vladimir Bill’-Belocerkovskij seppe forgiare un modello convincente di questo nuovo genere drammaturgico, basato sulla frammentazione e distribuzione degli attributi diegetici e “di carattere” tra parecchie decine di personaggi, variamente intrecciati in situazioni esposte da brevi, talora fulminei, quadri-episodio ove luoghi e tempi dell’azione si disperdevano sino ad assumere una qualità di astrattezza epica.
Stanti siffatte caratteristiche, Ljubimov-Lanskoj dovette peraltro fronteggiare le obiezioni degli attori, che curiosamente riecheggiavano gli argomenti con cui il mondo teatrale russo, ventinove anni prima, aveva accolto Il gabbiano di Čechov nella première dell’Aleksandrinskij: «molti attori dubitavano della scenicità di Štorm. Dicevano che “questo non è teatro“, che nella pièce tutto era “grigio e buio“: solo “pidocchi, tifo, pellicciotti, stivali unti di grasso“ e «nessun intreccio, nessuna azione. Che noia!.. Il pubblico non ne vorrà sapere“». <15
Per ovviare a tali rimostranze, il regista – in sintonia con le coeve ricerche di Popov al Terzo Studio – puntò su un’organizzazione minuziosa delle scene di massa, allestite «in uno spazio caotico, angoscioso, messo sottosopra» <16, e trascelse nella schiera dell’eroe-massa due personaggi-corifeo. In particolare, il marinaio zoppo Bratyška (a un dipresso, “Fratellino”) fu condotto dal “brillante” Vasilij Vanin allo status di prima maschera popolare del teatro neosovietico.
L’affermazione definitiva di questa tipologia scenico-drammatica si ebbe circa un anno dopo, allorché al Malyj teatr (Piccolo teatro), decano dei teatri moscoviti e istituzione “accademica” per anonomasia, il vecchio Ivan Platon, affiancato dal “sinistrista” Lev Prozorovskij (già nei ranghi del TR), diresse il dramma di Konstantin Trenëv Ljubov’ Jarovaja, andato in scena il 22 dicembre 1926. Già noto come esponente della pleiade gor’kijana sin dallo scorcio conclusivo del XIX secolo, Trenëv si era affermato come drammaturgo solo l’anno prima, quando Nemirovič-Dančenko aveva scelto di allestire il suo Pugačëvščina <17 per la prima nuova produzione del MCHAT al rientro in patria, traendone peraltro èsiti scenici a quanto pare piuttosto controversi. <18
Stavolta Trenëv mise a frutto l’esperienza di corrispondente dai fronti della Crimea durante la guerra civile, usandola come sfondo per un plot melodrammatico abbastanza tradizionale ove la maestra Ljubov’ Jarovaja, il cui carattere risulta scolpito nel nome (che, tutt’affatto plausibile, significa però all’incirca “Amore Furente”), vive gli eventi della Rivoluzione lacerata tra gli affetti e il dovere. Anche la pièce di Trenëv, nondimeno, era scandita da quadri-episodio dalla diegesi assai disinvolta, e popolata da una dovizie di personaggi più o meno fuggevoli.
Per la prima volta nella sua storia secolare, uno spettacolo del Malyj fu provvisto di soluzioni scenotecniche affatto innovative, peraltro mutuate dal convenzionalismo plastico-cromatico tairoviano:
“I décors rappresentavano una costruzione architettonica complessa, che esteriormente ricordava le strutture caratteristiche di una cittadina meridionale; tuttavia, in primo luogo questo dispositivo era di colore neutro e uniforme, e secondariamente si trovava installato su una piattaforma circolare girevole, costruita all’uopo sulla scena. Il biancore dei contorni della costruzione si stagliava nitidamente su di un fondale vividamente azzurro. La scena girevole permetteva di cambiare rapidamente i luoghi d’azione […], mentre i registi organizzarono le grandi scene di popolo disponendole su ripide scalette collaterali. Quella costruzione convenzionale si combinava al sembiante realisticamente fededegno dei personaggi”. <19
Insistendo sull’omogeneità della pièce di Trenëv alle tradizioni eroico-romantica e realistico-“quotidianista” dell’onusto teatro, i registi convinsero le riluttanti star delle generazioni giovane e mediana della compagnia (Prov Sadovskij, Vera Pašennaja, Stepan Kuznecov, Elena Gogoleva) a partecipare all’allestimento, mentre ai più anziani e gloriosi mostri sacri della generazione anziana, come Michail Klimov, Nikolaj Jakovlev, Varvara Ryžova, Evdokija Turčaninova, vennero addirittura affidate parti di contorno. In un sol colpo, dunque, l’ultra-accademico Malyj assimilava le concezioni scenotecniche e registiche dei “sinistristi” e imponeva alla gloriosa troupe i princìpi dell’ensemble attoriale. In ciò consistette la valenza principale di quel Ljubov’ Jarovaja, snodo cruciale per la conversione in mainstream teatrale degli assunti stilistico-strutturali che avevano caratterizzato le sperimentazioni sceniche russe nel 1918-1925. <20
1 È solo un esempio, che affiancando una circostanza notissima a una meno citata può risultare per ciò stesso esemplare, e consentirci al contempo di tralasciare relativi dettagli che qui risulterebbero immotivatamente pedanti o viceversa ingiuriosamente pleonastici
2 Sul fenomeno del samodejatel’nyj teatr (a volte tradotto come “teatro autoattivo”) si rimanda all’esaustivo lavoro di Maria Di Giulio, Teatro spontaneo e Rivoluzione. La vicenda e i testi del Samodéjatel’nyj teatr, Sansoni, Firenze 1985.
3 Adottata ufficialmente il 14 marzo 1921, la NEP sarebbe stata sostituita di fatto nell’ottobre 1928 dall’avvio del primo Piano quinquennale, ma – per quanto sin dalla metà del decennio, costituendo uno dei maggiori terreni di scontro della lotta interna al partito, venisse più volte rivista e temperata – rimase ufficialmente in vigore sino all’11 ottobre 1931.
4 L’Unione delle repubbliche socialiste sovietiche fu fondata il 30 dicembre 1922. Il 6 luglio 1923 il nuovo Stato adottò una sua Costituzione, che sostituì provvisoriamente la prima Carta fondamentale dello Stato russo (già votata il 19 luglio 1918 dal V Congresso panrusso dei Soviet) e fu promulgata il 31 gennaio 1924, restando in vigore fino al 5 dicembre 1936.
5 Solo verso la metà del decennio, scavalcando gli organi amministrativi del Narkompros (la stella di Lunačarskij era in declino, per quanto il prestigioso Commissario del popolo mantenesse la propria carica governativa sino al 12 settembre 1929), venne incentivata nei teatri la costituzione di cellule di partito analoghe a quelle istituite nei luoghi della produzione primaria, secondaria e presso i servizi. Da queste e da altre circostanze generali sarebbe rapidamente scaturita una ri-statalizzazione di fatto del sistema teatrale, che peraltro avrebbe ricevuto rigorose norme organiche solo nel 1946.
6 Utilizziamo qui e oltre la sigla canonica con cui viene designato in patria il Teatro d’Arte di Mosca (Moskovskij chudoževstvennyj akademičeskij teatr; la qualifica di teatro accademico gli era stata conferita nel 1919; sino ad allora, ci si riferiva al teatro con la sigla MCHT, che useremo eventualmente in accordo alla cronologia dei contesti). In generale, citando un’istituzione teatrale, alla prima occorrenza ne daremo, nel testo o in nota, la denominazione originale per esteso, seguita tra parentesi dalla sigla convenzionale e da una traduzione italiana; le successive menzioni si limiteranno alla sigla.
7 Al ritorno dalla prima tournée internazionale del Terzo Studio (1923), Nemirovič-Dančenko aveva nominato Jurij Zavadskij direttore unico, suscitando la reazione negativa della troupe, che aveva eletto un proprio «Attivo artistico», presieduto da Boris Zachava. La mossa di Nemirovič-Dančenko – Stanislavskij si trovava ancora all’estero – era diretta a fondere Secondo e Terzo Studio del MCHAT, ma i vachtangoviani erano infine riusciti a salvaguardare la propria autonomia, che nel 1926 sarebbe sfociata nell’emancipazione dal MCHAT e nella fondazione del nuovo Teatr imeni E. B. Vachtangova (TIV; Teatro Vachtangov), che peraltro aveva subito ottenuto la qualifica di “accademico”.
8 Nel 1912 Popov era entrato al MCHT, dapprima come collaboratore poi come attore (1914). Tra 1918 e 1923 aveva diretto in provincia (Kostroma) un Teatr studijnych postonovok (Teatro degli Allestimenti di Studio), fedelmente improntato ai principi del Primo Studio e dello Studio Mansurov, alle cui attività aveva partecipato sin dagli inizi. Presso lo studio vachtangoviano Popov aveva intrapreso nel 1916 il suo primo cimento registico, dedicato al dramma lirico di Blok Neznakomka (La Sconosciuta), che peraltro non riuscì ad andare in scena. Dallo stesso collettivo, nel frattempo evolutosi in Terzo Studio, era stato assunto nel 1923.
9 Prima di Aleksej Popov, fra 1932 e 1935 il CTKA sarebbe stato diretto da Zavadskij, al quale dedicammo il primo degli Obrazy ospitati su questa rivista («Mimesis Journal», I (2012), 1, pp. 72-85).
10 Boris Ščukin, Marija Babanova, Michail Astangov, Ljubov’ Dobržanskaja e Viktor Pestovskij furono tra gli attori che seguirono i corsi di Popov già nella prime fasi della sua attività pedagogica, intrapresa sin dal 1919 al fianco di Vachtangov. A questi e altri perforrmer drammatici di prima grandezza abbiamo già dedicato brevi note biografiche nei sei Obrazy pubblicati su MJ, ai quali, stante la loro agevole reperibilità online e per non appesantire oltremodo il presente apparato di notazione, rimandiamo il lettore desideroso di approfondimenti.
11 Nel 1918 Knebel’ era stata accolta da Michail Čechov nel proprio Studio privato, e dopo la sua chiusura era passata alla scuola del Secondo Studio sotto la guida di Nikolaj Demidov, attore del MCHT sin dal 1911, che Stanislavskij aveva chiamato nel 1920 alla Opernaja studija (Studio Operistico) del Bol’šoj, da lui diretta, allo scopo esplicito di estendere il proprio «sistema» al bagaglio performativo degli interpreti lirici (nel 1934, peraltro, Stanislavskij avrebbe scelto proprio Demidov come redattore del libro Rabota aktëra nad soboj [Il lavoro dell’attore su se stesso]). Knebel’ era entrata nella troupe del MCHAT nel 1924, dove rimase sino al 1950 dedicandosi anche all’attività pedagogica e iniziando a metà degli anni Trenta la carriera registica presso altri teatri. La prima parte di rilievo recitata da Knebel’ al MCHAT era stata nel 1925 la Mrs Snitchey di The Battle of Life, lo spettacolo di Nikolaj Gorčakov che l’anno prima vi era stato trasposto dalla scuola del Terzo Studio, e che aveva visto anche l’esordio, tra gli altri, di Vasilij Orlov e Aleksej Gribov.
12 Per la distesa esposizione di alcune linee-guida di questo plesso pedagogico-attoriale il lettore italiano può utilmente rivolgersi a Marija Knebel’, L’analisi della pièce e del ruolo mediante l’azione, a cura di Alessio Bergamo, Ubulibri, Milano 2009.
13 Sigla per Gosudarstvennyj institut teatral’nogo iskusstva (Istituto statale d’arte teatrale). Fondato nel 1878, in epoca postsovietica ha cambiato più volte nome, per assumere l’attuale designazione ufficiale di Rossijskij institut teatral’nogo iskusstva – GITIS (Istituto russo d’arte teatrale – GITIS).
14 Sigla stante a designare il Soviet delle associazioni professionali del Governatorato di Mosca, dal 1930 al 1938 mutata in MOSPS. Dopo di allora la scena assunse l’attuale denominazione di Teatr imeni Mossoveta (TeMos; Teatro del Soviet di Mosca). Fondato nel 1923, il teatro fu diretto da Ljubimov-Lanskoj fra il 1925 e il 1940, allorché gli sarebbe subentrato Zavadskij.
15 Istorija russkogo sovetskogo dramatičeskogo teatra [Storia del teatro drammatico russo sovietico], 2 voll., Prosveščenie, Moskva 1984; vol. I (1917-1945), a cura di Ju. A. Dmitriev e K. L. Rudnickij, p. 80. (Più oltre citeremo questo lavoro con la sigla IRSDT, seguita dal numero del volume e della pagina).
16 Ivi, p. 81.
17 Termine con cui viene solitamente indicata la rivolta contadina del 1773-1775, guidata dal cosacco Emel’jan Pugačëv, e divenuta per estensione analogica sinonimo (perlopiù negativo) di ribellione irriducibilmente anarcoide.
18 Cfr. Istorija sovetskogo dramatičeskogo teatra v šesti tomach [Storia del teatro drammatico sovietico in sei volumi], Nauka, Moskva 1966‐1971, vol. II (1921-1925), a cura di K. L. Rudnickij, pp. 38-40. (Più oltre citeremo quest’opera con la sigla ISDT, seguita dal numero del volume e della pagina).
19 IRSDT, I, p. 85.
20 La fortuna scenica di queste e di altre pièces “eroico-rivoluzionarie” si sarebbe offuscata nel decennio successivo, per riacquisire forza negli anni Sessanta e Settanta, quando fornì lo spunto ad originali sperimentazioni sceniche, per esempio nello Štorm allestito da Zavadskij al TeMos (1967) o nella Ljubov’ Jarovaja firmata da Fomenko proprio al Malyj nel 1977.
Massimo Lenzi, Uova fatali. I. Il sistema scenico-drammatico neosovietico russo negli anni della formazione (1924-1928)*, MJ, Mimesis Journal, Scritture della performance, vol. 9, n. 2 dicembre 2020
* Il presente saggio è tratto dai risultati «provvisoriamente definitivi» di un lavoro di revisione, quantitativamente moltiplicata e doverosamente corretta (ce n’era ben donde!), di un mio vecchio libro, La natura della convenzione (Testo & Immagine, Torino 2004). Suggerita, caldeggiata e seguita con amichevole compassione e pazienza certosina da Antonio Attisani, quell’impresa naufragò nel gorgo formato dalle tre teste di un poderoso Cerbero: la mole vieppiù esorbitante dei materiali imbarcati durante la navigazione (alcuni relitti di quella stiva schiantata furono recuperati nei primi cinque volumi di MJ sotto forma di una serie di Obrazy); la vigente Cacania buro-algoritmica che regge saldamente le sorti della ricerca accademica (ecco dunque motivato il virgolettato dell’incipit); infine, più mostruosa di entrambe, l’attitudine, rispettivamente di pigrizia e sconcerto (un eufemismo vale l’altro), invincibilmente suscitata in chi scrive dalla vista delle prime due fauci. Nondimeno, ritengo che alcune parti di quel lavoro, come questa che propongo, possano servire a focalizzare l’attenzione degli studi sulle dinamiche di scorci e passaggi meno praticati di un territorio sconfinato come il teatro drammatico russo del Novecento, e magari riuscire a rendere un po’ meno apodittica (quando non direttamente mitomaniaca) di quanto spesso non avvenga la percezione delle gesta creative di quei Grandi Maestri della cultura teatrale di lingua russa verso cui, – avendole riservato da quarant’anni una varia miscela di pigra attenzione, studi intensi e frequentazione esistenziale, – tengo per fermo che la cosiddetta civiltà occidentale debba ritenersi pressoché esclusivamente debitrice se ha potuto recare seco nel nuovo millennio quella curiosa struttura escogitata venticinque secoli prima nell’Attica democratica e riconoscerle, ancora per qualche attimo, una certa qual intrinseca continuità di senso e valori.