Il trattato di pace avrebbe potuto essere molto peggiore se non vi fosse stata la guerra partigiana

Il leader comunista Togliatti <97 giudicò inevitabile che il Trattato [di pace] contenesse delle clausole punitive nei confronti dell’Italia in quanto, disse, «la coscienza dei popoli che teme nuove aggressioni […] vuole condannato chi, aggredendo, ha scatenato la guerra».
«Il trattato è quello che è», ma, proseguì, «avrebbe potuto essere molto peggiore se non vi fosse stata la guerra partigiana, se non vi fosse stata la nostra insurrezione nazionale liberatrice, la quale ci ha ridato un posto in mezzo alle nazioni democratiche».
Togliatti affrontò poi lo spinoso problema della collocazione internazionale del paese. Egli espresse tutta la sua preoccupazione per il comportamento degli Stati Uniti affermando la necessità di evitare da un lato ogni intervento economico straniero e dall’altro la divisione dell’Europa in due blocchi: «dobbiamo», disse, «fare una politica estera la quale sia ostile, apertamente ostile, ad ogni tentativo di isolamento dell’Europa e nel mondo dell’Unione Sovietica e degli altri popoli, liberi, democratici e civili dell’Oriente europeo».
«Per tutti questi motivi», continuò, «è necessario respingere il Piano Marshall e orientare la nostra politica estera sulla strada della collaborazione internazionale, della difesa della libertà e della indipendenza del nostro paese, resistendo ad ogni tentativo di isolare dal mondo le forze più avanzate del progresso sociale, a ogni tentativo di spezzare l’unità dell’Europa e del mondo perché da questo tentativo non può uscire che un primo passo verso nuovi conflitti e forse verso una nuova guerra».
Nell’intervento di Nenni <98 comparve in maniera ancor più evidente che in quello di Togliatti il problema della collocazione internazionale del paese. Il segretario socialista accusò apertamente De Gasperi di aver attuato un voltafaccia mirato ad asservire l’Italia agli interessi americani: «il presidente del Consiglio che un anno prima voleva dimettersi dal governo per non arrendersi alla decisione dei Ventuno a Parigi oggi, al ritorno dalla sua visita negli Stati Uniti, ci domanda la ratifica di un Trattato che […] non ha vita e addirittura non esiste come strumento esecutivo».
«Se sotto il trattato mancasse la ratifica americana», si interrogò malignamente, «chiederebbe De Gasperi all’Assemblea Costituente italiana di ratificare?».
Nenni ammonì infine il governo a non trascinare il paese «nell’ingranaggio dei blocchi contrapposti» e a difendere strenuamente «la neutralità impostaci dalla storia e dalla geografia».
Un black out di memoria
Terminato il dibattito, il voto all’Assemblea fu tutt’altro che concorde. I comunisti si astennero, i socialisti uscirono dall’aula al momento del voto in segno di protesta: dei 330 votanti, 261 si espressero a favore, 69 contro, 80 furono le astensioni. Il risultato dello scrutinio dimostrava che i partiti erano molto divisi sui loro orientamenti di politica estera; rispetto ai mesi precedenti il dibattito politico era ormai fortemente polarizzato secondo linee ideologiche. La frattura causata dall’esclusione di socialisti e comunisti dal governo si faceva sentire. La polemica sul piano Marshall stava a dimostrare come la contrapposizioni proprie della guerra fredda si fossero inesorabilmente inserite nelle discussioni, che ormai erano dominate da questioni più generali come quelle relative alla collocazione internazionale e alle scelte di medio e lungo periodo.
È tuttavia importante notare come, dopo la ratifica, il trattato di pace sia caduto nell’oblio e come esso sia stato completamente estromesso dal discorso pubblico italiano. Le ragioni di tale «black out di memoria» <99, cui contribuì tutto il cosiddetto «arco costituzionale», vanno ricercate nella necessità di contenere il potenziale di conflittualità proprio di una società già straziata da una guerra civile appena conclusa.
Vi è dunque stata una «complicità bipartisan» nel rimuovere la memoria di un evento così doloroso che avrebbe potuto dar nuova linfa alle pericolose sirene di un mai del tutto sopito nazionalismo. Nell’immediato dopoguerra, la priorità era quella di rieducare alla ricostruzione e all’ottimismo, alle virtù dell’italiano frugale e laborioso.
La nuova Italia democratica voleva scrollarsi di dosso le responsabilità della guerra combattuta al fianco di Hitler, e apparire vincitrice della guerra di liberazione dal nazifascismo, in modo da porre a fondamento della Costituzione della Repubblica un riscatto morale dell’identità nazionale. Nella costruzione della memoria, la firma della pace fu dunque superata e sostituita da altri e più graditi ricordi come il 25 aprile 1945 e il 2 giugno 1946 <100. Al di sopra di quell’universo di memorie frammentate, di singoli, di gruppi di cui si faceva cenno all’inizio del capitolo, è dunque esistita una memoria pubblica della guerra, celebrata dall’antifascismo vincitore, basata su una narrazione di fondo condivisa dalle singole componenti del fronte antifascista e impostasi come narrazione dominante.
Già dal dibattito preso in analisi è infatti evidente che, nonostante le contrapposizioni circa il merito e la tempistica di attuazione del trattato, le singole componenti del fronte antifascista proposero una narrazione del passato comune che poi andrà sempre più affermandosi nell’Italia repubblicana <101 assumendo i tratti di una vera e propria memoria collettiva. Tale raffigurazione della memoria pubblica trovava la sua origine già all’indomani dell’armistizio dell’8 settembre 1943. Tale avvenimento <102 fece scaturire un triplice ordine di fondamentali esigenze politiche, condivise tanto dalla monarchia e dal governo Badoglio quanto dai risorti partiti antifascisti riunitisi nel Cln. L’esigenza di controbattere la propaganda della Repubblica sociale italiana <103 che stigmatizzava l’armistizio come tradimento della nazione dell’alleato tedesco e invitava gli italiani a continuare la lotta a fianco del terzo Reich; l’esigenza di mobilitare il paese contro la Germania; l’esigenza di ottenere dagli Alleati, al termine della guerra, la miglior pace possibile dal momento che pur riconosciuta come Stato «cobelligerante», l’Italia restava infatti un nemico sconfitto, cui era stata imposta un’umiliante resa incondizionata.
Ribaltando le accuse di tradimento lanciate dalla propaganda saloina, il fronte antifascista replicò affermando che a tradire gli italiani e a portarli sull’orlo del baratro era stato Mussolini che, dopo aver imposto un’alleanza «contro natura» con i nazisti, aveva gettato il paese in una guerra folle. Già dal 1943, dunque, il fronte antifascista gettò le basi di una memoria largamente autoassolutoria. Tale narrazione fu ribadita nei primi due anni del dopoguerra, nel periodo cioè di discussione del trattato di pace e di creazione dello Stato repubblicano, sia dal discorso pubblico sia da un’imponente azione giornalistica e pubblicistica <104 che produssero un vero e proprio «racconto egemonico». In sintesi, la narrazione antifascista scaricava su Mussolini e sui tedeschi ogni responsabilità per la guerra fascista combattuta dal 10 giugno 1940 all’8 settembre 1943 e valorizzava quanto compiuto nella «seconda guerra», combattuta dall’8 settembre 1943 alla fine di aprile del 1945, considerata la «vera guerra», nella quale il popolo italiano aveva potuto dimostrare la sua autentica e sana volontà antifascista. Fu dunque la guerra dell’Italia cobelligerante e della Resistenza partigiana, che venne celebrata da un ceto politico e intellettuale che di quella lotta era stato protagonista e che di lì traeva la propria fonte di legittimazione come classe dirigente del paese. Non c’è tuttavia dubbio che simile narrazione, pur dettata dai sentimenti più vivi del momento e generata da istanze politiche legittime, producesse però un racconto parziale e reticente della storia nazionale. Venivano infatti omessi aspetti fondamentali come l’esistenza di un consenso popolare al fascismo <105; il consenso con cui molti italiani avevano accolto la guerra al fianco della Germania in previsione di una rapida vittoria <106; il carattere anche di guerra civile avuto dalla Resistenza <107, non riducibile esclusivamente a una lotta contro lo straniero e i suoi «servi» fascisti.
[NOTE]
97 AC, D, pp. 6407-6422.
98 AC, D, pp. 6482-6492.
99 L’espressione è di S. Lorenzini che nel suo L’Italia e il trattato di pace del 1947, cit., analizza in profondità la questione. Si vedano in particolare le pp. 7-17.
100 Sulle feste repubblicane il bel volume di D. Gabusi, L. Rocchi, Le feste della Repubblica 25 aprile e
2 giugno, Brescia, Morcelliana, 2006.
101 Su questi aspetti si rinvia a F. Focardi, La guerra della memoria. La Resistenza nel dibattito politico italiano dal 1945 a oggi, Roma-Bari, Laterza, 2005.
102 Sulle trattative fra governo italiano e autorità alleata per l’armistizio, sui rapporti intercorsi tra le due parti nel periodo immediatamente successivo e sulla lancinante frattura prodotta nel paese da questo avvenimento si rinvia al fondamentale studio di E. Aga Rossi, Una nazione allo sbando. L’armistizio italiano del settembre 1943 e le sue conseguenze, il Mulino, Bologna, 2003. 103 Sulla propaganda di Salò si rinvia a Fondazione Luigi Micheletti (a cura di), 1943-45. L’immagine della RSI nella propaganda, Mazzotta, Milano, 1985 e M. Isnenghi, Autorappresentazioni dell’ultimo fascismo nella riflessione e nella propaganda, in P.P. Poggio (a cura di), La Repubblica sociale italiana 1943-45. Atti del convegno, Brescia 4-5 ottobre 1985, Fondazione Luigi Micheletti, Brescia, 1986, pp. 99-111.
104 A tal proposito S. Cavazza, La transizione difficile: l’immagine della guerra e della resistenza nell’opinione pubblica dell’immediato dopoguerra, in G. Miccoli, G. Neppi Modona, P. Pombeni (a cura di), La grande cesura. La memoria della guerra e della resistenza nella vita europea del dopoguerra, Bologna, il Mulino, 2001, pp. 427-464.
105 Sul tema, ampiamente e accesamente dibattuto dalla storiografia, si rimanda, oltre ai ben noti studi di De Felice, alla voce curata da G. Santomassimo, in V. De Grazia, S. Luzzatto (a cura di), Dizionario del fascismo, vol. I, Torino, Einaudi, 2002, pp. 347-352.
106 Contraria alla partecipazione alla guerra dell’Italia al momento dell’aggressione nazista alla Polonia nel settembre 1939, l’opinione pubblica italiana dette segno di capovolgere il proprio orientamento l’anno successivo a seguito delle travolgenti vittorie tedesche sul fronte occidentale. A tal proposito P. Cavallo, Italiani in guerra. Sentimenti e immagini dal 1940 al 1943, Bologna, il Mulino, 1997, pp. 50 ss. e S. Colarizi, L’opinione degli italiani sotto il regime, 1929-1943, Roma-Bari, Laterza, pp. 334-339. Giovanni de Luna ha sottolineato il carattere ondivago e superficiale di questo consenso alla guerra, legato all’evolversi degli eventi bellici, e ha posto in evidenza la persistenza di un radicato desiderio di pace degli italiani e di una diffidenza nei confronti della guerra. A tal proposito si veda G. De Luna, L’identità coatta. Gli italiani in guerra (1940-1945), in W. Barberis (a cura di), Storia d’Italia, Guerra e pace, Torino, Einaudi, 2002.
107 Sulla Resistenza come espressione, a un tempo, di guerra patriottica di guerra civile e di guerra di classe si rimanda al celeberrimo, studio di Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 1991. Per una rassegna storiografica sul tema della Resistenza si rinvia a G. Guazzaloca, Il problema storico-politico della Resistenza nella storiografia italiana degli ultimi dieci anni, in «Ricerche di storia politica», 1, 2002.
Gabriele Galli, Politica della memoria e gestione del consenso nei due dopoguerra in Italia e Francia: due dibattiti parlamentari a confronto, Tesi di dottorato, Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, 2009