Il punto nevralgico delle rivendicazioni indigene era l’anelito all’uguaglianza con i missionari bianchi

Addis Abeba (Addis-Ababa) nel 1936

La presente ricerca intende analizzare in un primo quadro d’insieme, la vicenda dei missionari cattolici italiani nell’impero d’Etiopia, nel pur effimero periodo dell’occupazione coloniale italiana del 1936-1941, senza tuttavia pretendere di chiarire tutte le problematiche e i punti eventualmente ancora oscuri di questo specifico ambito d’indagine storica. Sul versante dei rapporti tra Stato italiano e Chiesa cattolica in merito allo sviluppo della presenza missionaria italiana in Etiopia -inclusa della regione eritrea-, nell’arco cronologico della colonizzazione italiana sono state scritte alcune opere significative, anche se non ancora esaustive.
Tra queste certamente lo studio analitico di Cesare Marongiu Buonaiuti del 1982 <1 sulla politica religiosa italiana nelle colonie -diviso sostanzialmente in due campi d’indagine: quello della prassi governativa nei confronti delle diverse comunità religiose delle colonie e quello dei rapporti tra governo e gerarchie vaticane-, costruito principalmente sui carteggi governativi con la sola eccezione di alcune citazioni dagli archivi dell’istituto dei missionari della Consolata. Si tratta di una prima analisi sistematica delle politiche coloniali italiane in ambito religioso, sia verso le confessioni religiose autoctone che verso quelle di recente fondazione come la Chiesa cattolica ed alcune Chiese riformate.

Nativity Catholic Cathedral in Addis Ababa, Ethiopia – Fonte: Wikipedia

[…] Eppure, se si esula da ricerche ben circoscritte e specifiche della storia di singole istituzioni religiose missionarie, come quelle dei lazzaristi e dei francescani cappuccini, tanto il de’ Jacobis che il Massaja non vengono neppure menzionati di nome in molti testi di storia.
Una mancanza evidente non solo in ricerche approfondite e pertinenti ai temi della storia africana e coloniale <10, ma pure nella quasi totalità dei manuali di storia contemporanea italiana <11, dove la genesi del colonialismo italiano in Africa Orientale è spesso ricondotta alle sole cronache dei mercanti e/o dei militari. Fa eccezione quasi unica l’opera di uno storico non italiano-già questo può essere un indizio rivelatore di un approccio alla storia non scevro da influenze ideologiche-, come Denis Mack Smith che nel suo manuale di storia italiana è in grado di riconoscere la presenza e il ruolo dei missionari nell’impresa coloniale italiana, citando l’opera di mediazione diplomatica presso Menelik svolta dal cappuccino Massaia a nome di Cavour <12.
[…] Oppure in una lettura più impegnata, ci sarebbe la constatazione che sin dalla sua genesi l’evangelizzazione cattolica in quello che fu l’impero cristiano d’Etiopia è stata ben più ardua rispetto a quella sviluppatasi nella maggior parte dei contesti africani, per una sua pretesa inserzione in un contesto che aveva già una chiara ed orgogliosa consapevolezza di una sua propria identità cristiana, per quanto non assimilabile al cristianesimo occidentale, o se si preferisce, al mondo dei “bianchi”.
E quindi la missione cattolica, e più specificamente quella cattolica italiana, sarebbe rimasta confinata in un alveo tutto sommato marginale ed ininfluente, o appunto di sola pertinenza confessionale-cattolica, non potendo incidere più di tanto nell’azione colonizzatrice.
La presente ricerca intende invece dimostrare che occorre proseguire l’indagine storica, tentando di approfondire la conoscenza di eventi e circostanze poco noti quando non dimenticati, alcuni dei quali ad una lettura non veloce e marginale possono apparire più articolati e complessi, nell’alveo della più ampia problematica della colonizzazione italiana in Etiopia. In proposito vanno pure considerate una serie di biografie di missionari e di missionarie dei vari istituti religiosi coinvolti.
[…] In proposito si accennava alla scarsità delle ricerche in merito, una mancanza che a volte assume il tono della vistosità come nel caso di alcune opere prestigiose sulla storia dell’Etiopia, come la monumentale Encyclopaedia Aethiopica <17 edita in Germania. In essa infatti pur non mancando i protagonisti di primo piano della storia della missione cattolica in Etiopia, come il Massaia e i lazzaristi de’ Jacobis e Sapeto, si tace quasi del tutto, con la sola ed unica eccezione del vescovo Giacomo Leone Ossola vicario apostolico di Harar, sui protagonisti delle missioni cattoliche italiane che sostituirono pressoché totalmente i loro confratelli di altre nazionalità per deciso volere di Mussolini e di molti dei suoi collaboratori più stretti <18.

[…] Inoltre i cardinali procedettero all’immediata sostituzione dei nuovi superiori del seminario di Cheren nominati da poco da Cattaneo -che già avevano provocato nuove tensioni- stabilendo pure che i successori dovevano provenire dalle province cappuccine di Trento, del Tirolo e della Svizzera ticinese <187. Come visitatore apostolico venne scelto il vescovo francese Alessio Enrico Maria Lépicier <188 che avrebbe visitato l’Eritrea e l’Etiopia dal 15 Aprile al 20 Giugno 1927.
La visita apostolica di Lépicier in Eritrea
Nel 1927 la colonia eritrea contava 350.000 abitanti, dei quali circa 170.000 musulmani, 150.000 copti ortodossi e 27.000 cattolici nativi, inclusi un migliaio di meticci che per la legge erano indigeni pur essendo figli di italiani non riconosciuti né da questi né da parte degli eritrei <189. Gli italiani di religione cattolica erano circa 4.000 e rappresentavano la gran parte degli europei residenti <190. Malgrado tutti i problemi la condizione della Chiesa cattolica in Eritrea complessivamente era migliore rispetto a quella della Chiesa cattolica nell’impero d’Etiopia, dove i cattolici venivano sottoposti ad un regime di controllo e limitazione delle proprie attività di fede da parte dello stato etiopico.
All’arcivescovo francese Lépicier, già religioso dell’ordine dei servi di Maria fu affidata una missione assai delicata. Se da un lato c’erano le denunce degli indigeni da verificare e discernere sul campo, dall’altro c’era pure da ascoltare i cappuccini italiani, anch’essi in una condizione tutta da decifrare. Il visitatore doveva pertanto intervenire in situazioni infruttuose quando non perniciose e al contempo incoraggiare quei missionari impegnati in attività apostoliche autentiche.
Giunto in Eritrea sin dai primi giorni il visitatore apostolico dovette però rilevare un aperto risentimento che accomunava -almeno in questo- i sacerdoti indigeni e molti degli stessi cappuccini -seppure per altre ragioni- contro il vescovo Cattaneo che peraltro in quel periodo era in Italia. Non accettavano il suo stile di governo fondamentalmente autoritario, che induceva gli uni e gli altri -pur con motivazioni diverse- a desiderare le sue dimissioni e la sua partenza dall’Eritrea.
Cattaneo però non aveva alcuna intenzione di dimettersi e rientrato in sede continuò nella sua linea di contrapposizione, nonostante le sue dichiarazioni apparentemente concilianti, specialmente verso i preti indigeni e le loro istanze di maggior equità, come scrisse ripetutamente nelle sue relazioni periodiche alla Congregazione Orientale <191. Restò molto determinato a non accogliere nessuna delle loro richieste col pretesto di evitare “pericolosi” precedenti <192, e ciò per stroncare radicalmente quella che considerava solo una fronda di insubordinati, convinto com’era che occorreva “..aumentare il rigore e restringere anche di più gli emolumenti che ora si danno al clero ” <193.
Ma nelle parrocchie indigene e nelle missioni il visitatore Lépicier constatò che molti problemi non erano riconducibili solo ai modi autoritari del vicario apostolico. Ad esempio occorreva intervenire sul regime di monopolio detenuto dai cappuccini sulle finanze del vicariato, di fatto controllando non solo le loro missioni ma pure le zone pastorali affidate ai preti eritrei, perché non autosufficienti finanziariamente. Infatti al di là delle offerte in beni naturali, i preti eritrei dovevano ricorrere ai missionari per avere denaro sufficiente all’acquisto di materiali necessari al loro ministero, o nel caso di traslochi e viaggi.
Questa accentuata dipendenza economica del clero locale dai missionari a Lépicier parve come un riflesso speculare di quel sentimento di insofferenza di molti cappuccini verso le rivendicazioni di equità dei preti indigeni. Nell’intento di risolvere la pericolosa contrapposizione il rappresentante papale si mosse su due fronti. Anzitutto cercò di conoscere meglio il sistema di gestione finanziaria del vicariato visionando i bilanci di molte missioni, anche se ciò non sempre gli fu possibile a causa di resistenze e a volte dinieghi, anche da parte dello stesso Cattaneo.
A causa di questo ostracismo valutò opportuno rivolgersi al governo, a quello metropolitano come a quello della colonia. Si era persuaso che occorreva modificare a vantaggio della Chiesa cattolica il sistema di agevolazioni e contributi messo a punto dal governo per le diverse confessioni religiose della colonia, di cui al momento ne traevano un buon vantaggio gli ortodossi etiopi, gli islamici e gli evangelici. Infatti sin dagli inizi della vita della colonia le diverse amministrazioni italiane avevano perseguito una promozione generalizzata delle diverse confessioni religiose non cattoliche, che rappresentavano la gran parte della popolazione della colonia <194.

In altri termini si era cercato di attutire il risentimento mai sopito delle popolazioni indigene per l’avvenuta invasione e le conseguenti azioni di esproprio delle terre, e soprattutto le migliori. Da qui l’erogazione di fondi statali per una serie di opere religiose non cattoliche: ad esempio a Massaua erano state costruite due moschee, diverse chiese ortodosse ad Asmara e in altre località, tutte finanziate dal governo <195.
Al contempo non va sottovalutato il fatto che questo regime di agevolazioni permetteva all’amministrazione coloniale di esercitare un controllo diretto sull’attività di proselitismo svolta dalle diverse confessioni. Un monitoraggio effettuato con cura particolare anche sulle iniziative di evangelizzazione degli organismi cattolici, in primis gli istituti missionari, che invece davano quasi per scontato il poter usufruire in colonia di quel regime di libertà ed agevolazioni di cui godevano in Italia, seppure ancora in un’epoca pre-concordataria.
Pur con sfumature diverse i vari governi italiani fino all’avvento del fascismo avevano progressivamente posto sotto controllo la spinta missionaria-proselitista della Chiesa cattolica, soprattutto quando essa tentava di espandersi in zone a maggioranza ortodossa od islamica, col rischio di provocare conseguenze dirompenti per il già assai precario equilibrio della giovane colonia.
Nella sua relazione per il cardinale Sincero Lépicier evidenziò questa prassi governativa non dichiarata di contrasto anticattolico, motivata da precisi calcoli opportunistici oltre che da ragioni di ordine pubblico. Come nel caso in cui il governo confiscò tre scuole alle missioni, non esitando però ad impiegare alcune suore e un missionario come insegnanti <196.
Va ricordato che la disponibilità di religiosi da utilizzare come personale insegnante per il governo italiano rappresentò spesso una comoda soluzione al non facile problema della reperibilità di maestri adatti e capaci, in grado di reggere all’ambiente eritreo così diverso da quello italiano.
Infatti non solo mercanti e avventurieri, ma molti altri italiani che giungevano in colonia per essere impiegati nelle diverse funzioni dell’amministrazione non di rado si resero responsabili di episodi di indisciplina e arroganza, per non parlare della violenza esercitata nei confronti degli indigeni, specie se donne.
Raramente poi questi italiani immigrati accettavano di risiedere nei centri dell’interno o in quelli minori sulla costa, spesso piccoli villaggi senza le comodità dei “bianchi”. Preferivano piuttosto restare all’Asmara dove si trovavano tutte le agevolazioni delle città italiane più attrezzate. E dunque la disponibilità all’insegnamento che i religiosi e ancora di più le religiose offrivano, risolveva un problema gravoso per il governo. Ciò spiega come mai sin dal tempo dei primi insediamenti dei cappuccini italiani l’amministrazione coloniale avesse cercato con insistenza di coinvolgerli nella conduzione delle scuole.
I cappuccini però avevano quasi sempre declinato l’invito, replicando che il loro ordine religioso non era specificamente indirizzato all’istruzione scolastica. Anche per questa indisponibilità la loro presenza nei maggiori centri della colonia iniziò ad essere mal percepita da molti funzionari, tanto da farsi strada l’idea di richiedere in colonia un’istituzione cattolica disponibile a svolgere un lavoro soprattutto in ambito educativo. Furono contattati i fratelli della dottrina cristiana, che però essendo in maggioranza francesi declinarono l’invito per spirito di solidarietà verso i connazionali lazzaristi espulsi a vantaggio dei cappuccini italiani <197.
Nella sua relazione alla Congregazione Orientale Lépicier cercò comunque di stemperare le accuse addebitate ai cappuccini, da quelle più gravi provenienti dal clero indigeno, a quelle meno compromettenti dei funzionari e dei coloni, tentando di illustrare una situazione in cui si alternavano una serie di punti di forza e di debolezza, attribuendo la causa scatenante dei problemi anzitutto alle tensioni derivate dall’avvicendamento tra lazzaristi francesi e cappuccini italiani.
[…]
Le richieste del clero cattolico eritreo
Nel 1927 in Eritrea c’erano 59 sacerdoti eritrei quasi tutti appartenenti alle prime famiglie cattoliche della regione dell’Acchele-Guzai, tra di essi anche dei convertiti dalla Chiesa ortodossa. A parte le poche eccezioni prima ricordate dei cappuccini impegnati tra gli autoctoni, i preti indigeni erano i soli ad occuparsi delle popolazioni locali. Vivevano nei villaggi, condividendo le condizioni di vita degli indigeni suscitando la stima delle popolazioni. Essendo praticamente tutti sacerdoti di rito Etiopico-Ghe’ez, molto del loro tempo lo impiegavano nelle lunghe ed articolate liturgie di quel rito, la cui durata era ben maggiore di quelle del rito Latino. Va pure ricordato che durante l’anno dovevano celebrare circa duecento festività del calendario etiopico, con liturgie della durata media di quattro ore. A fronte della loro vicinanza al popolo, la maggior parte di essi soffriva però di una formazione culturale alquanto scarsa.
Inoltre secondo la rigida tradizione abissina, ognuno di essi doveva provvedere alle necessità materiali dei familiari nonché delle tre-quattro persone al proprio seguito: una domestica, che spesso era una suora indigena o anche una ennadiè, donna non sposata dedita al servizio della Chiesa; di solito c’era anche una ragazza che aveva il compito di provvedere all’acqua, alla legna e alla preparazione del pane di durra; un contadino addetto al lavoro nei campi e all’acquisto dei cereali; infine un ragazzo-chierichetto per gli spostamenti più lontani con il compito di badare pure al mulo del sacerdote <210.
Dai dialoghi con questi sacerdoti Lépicier rilevò come fossero accomunati da un forte senso di solidarietà contro i missionari cappuccini, soccorrendo materialmente chi tra loro era stato sospeso per motivi disciplinari di vario genere e si trovava senza mezzi di sussistenza <211.

The Church of St Michael (1925) is in a southern suburb of Keren (Cheren), Eritrea – Fonte: Wikipedia

[…] Pur esprimendo pesanti riserve sull’operato dei cappuccini italiani, Lépicier giudicò ingenerose le aspre critiche dei preti indigeni verso i missionari, manifestando così quel pensiero marcatamente paternalistico e per certi versi sprezzante verso le istanze indigene, tipico di molti europei dell’epoca, che fossero esponenti ai più vari livelli della compagine coloniale o di quella ecclesiastico-missionaria.
[…] Infatti i missionari come de’ Jacobis -di per sé abbastanza rari e di solito emarginati o guardati con diffidenza- restarono dei casi isolati; o come dei soggetti pur degni di ammirazione ma che tuttavia, al di là delle retoriche di circostanza, non costituivano affatto un esempio da seguire. La vicenda umana e spirituale del de’ Jacobis in realtà era considerata non praticabile dalla gran parte dei missionari -per lo stile ed il livello di vita tutto centrato su una forte tensione ascetica e radicale rinuncia dei beni materiali-, nonostante le popolazioni abissine ne conservassero un vivo ricordo.
Si comprende allora come nella sua relazione Lépicier giungesse a controbilanciare le denunce dei sacerdoti autoctoni con quella serie di luoghi comuni sugli indigeni di molti ambienti coloniali del tempo, in cui anche i preti locali apparivano tutti molto “indolenti” e “ingrati” <215, se avevano l’ardire di criticare un modo di vivere la missione per certi aspetti abbastanza affine a quello dei coloni: dalla disponibilità di beni materiali al personale di servizio da gestire e comandare “senza troppe storie”…; se inoltre si attendevano maggiori aiuti finanziari per diminuire quella distanza che li separava dai loro confratelli bianchi.
Ma nonostante tutto ciò, il visitatore apostolico non poté non sottoporre alla Congregazione Orientale la serie di richieste puntuali e definite espresse dai sacerdoti indigeni: “all’unanimità e con insistenza (chiedono) .. un trattamento di fratellanza, e rispettivamente di figliolanza, conforme all’insegnamento dell’Enciclica del S. Padre Pio XI Rerum Ecclesiae che ben conoscono, e che vogliono osservata specialmente” <216.
Ai superiori dell’Orientale sarebbe così risultato in modo inequivocabile il punto nevralgico delle rivendicazioni indigene, e cioè quell’anelito all’uguaglianza con i missionari bianchi.
[…] Inoltre chiedevano di essere aiutati presso il governo coloniale affinché venissero loro accordati gli stessi diritti legali e le esenzioni dai tributi di cui godevano i missionari, nonché la facoltà di giudicare sulle questioni religiose-matrimoniali, di poter disporre di certi terreni -in termini di semi feudalità- come l’amministrazione coloniale permetteva secondo le consuetudini locali, sia ai preti ortodossi che ai cadì musulmani <221.
Le richieste includevano pure il miglioramento delle loro abitazioni -spesso assai precarie-, come degli edifici di culto riservati ai cattolici indigeni: che fossero resi più decorosi e in muratura. I preti indigeni prendevano pure le difese delle suore indigene, che con l’arrivo del vicario apostolico Cattaneo erano state rimandate ai loro villaggi di origine senza alcuna tutela e che quindi andavano “riunite ed organizzate in un convento” <222.
Per il seminario di Cheren prima ancora delle ristrutturazioni edilizie chiedevano un miglior trattamento dei seminaristi e che questi fossero seguiti anche da un vice direttore indigeno -“al quale i chierici possano ricorrere con più fiducia” <223-, alle dipendenze esclusive della Santa Sede e non del locale vicario apostolico; inoltre che ci fosse del personale docente e formatore più preparato <224.
Il seminario era una delle realtà nevralgiche del lavoro missionario in Eritrea e da poco si era apparentemente risolto l’ennesimo grave dissidio che aveva visto quasi tutti i seminaristi -eccetto due- contestare duramente i formatori cappuccini a causa “…dell’eccessivo rigore e di mancanza di vitto” <225. Avevano abbandonato in massa il seminario e solo dopo sei mesi di assenza, una volta sostituiti i vecchi superiori -tra cui il tanto contestato padre Eugenio da Milano- avevano chiesto ed ottennero di rientrare <226.
A tal proposito Lépicier volle evidenziare però lo spirito di “…insubordinazione che mi fa temere che un giorno non abbiano essi pure a dare dei dispiaceri ai Missionari” <227, come ad esempio abbandonare la via ecclesiastica, una volta acquisita una certa formazione culturale, per cercare un impiego nell’amministrazione coloniale. Tale possibilità era infatti assai ambita dai ben pochi ragazzi eritrei che potevano assurgere ad una formazione culturale minimamente superiore, che poi erano solo quelli ammessi in seminario dal momento che le direttive coloniali italiane -anche in questo non difformi da quelle di altre esperienze coloniali europee in Africa Nera-, prevedevano solo un’istruzione elementare, o al più professionale.
I preti eritrei chiedevano anche l’introduzione presso le loro popolazioni dei “diritti di stola a favore del parroco” come per i missionari, visto che ancora “in occasione di mortorii o di matrimoni” non avevano la possibilità di ricevere altre offerte che non la pelle delle vacche uccise in quelle circostanze <228.
Su questa moltitudine di richieste Lépicier volle evidenziare alla Congregazione Orientale che non tutti i preti indigeni si erano espressi allo stesso modo: quelli dei distretti di Cheren, dell’Hamasien e del Seraé chiedevano la più completa autonomia, con un proprio prefetto apostolico indigeno direttamente dipendente dalla Santa Sede e non dai locali vicari apostolici (che fin allora erano stati sempre dei frati cappuccini). C’erano poi i preti dell’ Acchele-Guzai e dello Scimezana che pur sostenendo la necessità di una certa autonomia ne mitigavano però la portata, chiedendo solo un pro vicario indigeno che fosse alle dipendenze del vicario apostolico di Asmara.
Tutti comunque sottolineavano la necessità di avere un proprio superiore indigeno che avesse una vera giurisdizione e “non com’è attualmente un puro titolo”, in modo da non esser più soggetti all’arbitrio “del Missionario che sta a capo del distretto, e che li manda quà e colà a suo talento e troppo frequentemente” <229. C’era poi la richiesta non infrequente di essere ammessi negli ordini religiosi degli italiani, nonché l’introduzione della vita monastica cattolica nella missione, vista l’antica e feconda tradizione monastica ortodossa etiopica.
[…] Va ricordato infatti come sin dai primi anni Venti si era andato diffondendo nel clero ortodosso etiopico un forte movimento nazionalista e xenofobo, detto dei “Giovani Etiopi”, che aveva trovato nella Russia zarista un sostenitore di primo piano, in virtù della comune fede ortodossa <255. Un movimento alla cui testa si sarebbe posto lo stesso Ras Tafari futuro Negus d’Etiopia, e che si sarebbe radicato anche nella società etiopico-abissina soprattutto con l’approssimarsi dell’aggressione italiana del 1935-36 e che avrebbe avuto nel generale Rodolfo Graziani un acerrimo nemico.
Alla pur circoscritta crescita di interesse quando non di simpatia nei confronti della Chiesa cattolica avevano concorso sicuramente le scuole delle missioni, prima dei lazzaristi e poi dei cappuccini -oltre a quelle delle missioni protestanti <256-, tanto in Eritrea come nell’impero etiopico, perché offrivano una concreta possibilità di riscatto sociale a molti ragazzi del popolo.
Anche Hailé Sellassié sin dall’infanzia aveva avuto tra i suoi educatori un vescovo cappuccino, il francese Andrè Marie Jarosseau, del quale era rimasto molto influenzato, sviluppando un sincero interesse per le vicende della cristianità occidentale europea, specialmente quella cattolica <257.
Lo stesso ministro italiano ad Addis Abeba Renato Piacentini <258 nel 1923 aveva inviato a Mussolini una nota informativa in cui segnalava questo rinnovato interesse da parte del clero ortodosso indigeno verso la Chiesa cattolica <259. Un interesse certamente favorito dallo stato di profonda arretratezza culturale in cui si trovava la gran parte del clero ortodosso.
Giunto alla guida dell’impero etiopico il Negus Tafari iniziò a rompere l’atavico isolamento in cui si trovava l’Etiopia, aprendola ad un più diretto e coinvolgente contatto col mondo europeo, non solo per avviare un concreto processo di apertura e ammodernamento della società etiopica, ma anche con l’intento preciso di svecchiare la Chiesa ortodossa abissina, rimasta ancorata alle dispute dottrinali dei primi secoli del cristianesimo e ad una prassi liturgica spesso incomprensibile alla gran parte del popolo.

[NOTE]
1 Cesare Marongiu Buonaiuti, Politica e Religioni nel Colonialismo Italiano (1882-1941). Università di Roma, Facoltà di Scienze Politiche, Giuffrè Editore (Tip. Mori Varese) 1982.
10 A titolo di alcuni esempi si citano qui Joseph Ki-Zerbo, Histoire de l’Afrique Noire. D’Hier à Demain, Hatier, Paris 1972, pp. 902ss.; J. D. Fage, A History of Africa, Hutchinson of London 1978.
11 Cfr. AA. VV., Atlante storico. Cronologia della storia universale dalle culture preistoriche ai giorni nostri, Le Garzantine, Garzanti, Milano 2011. Dizionario. Cronologia universale, BUR, Milano 1987-2010. Atlante della storia contemporanea, De Agostini, Novara 2011. Storia del Mondo, Touring Club Italiano, Milano 2007. Alberto Mario Banti, L’età contemporanea. Dalle rivoluzioni settecentesche all’imperialismo, Laterza, Roma-Bari 2011. Francesco Barbagallo, Storia contemporanea. Dal 1815 a oggi, Carocci, Roma 2002, nuova edizione aggiornata 2011. Camillo Brezzi, Laici, cattolici, Chiesa e Stato dall’unità d’Italia, Il Mulino, Bologna 2011.Fulvio Cammarano, Storia dell’ Italia liberale, Laterza, Roma-Bari 2011. Alberto De Bernardi-Luigi Ganapini, Storia dell’Italia unita, collezione storica Garzanti, Milano 2010. Tommaso Detti, Giovanni Gozzini, Storia contemporanea. L’Ottocento, Bruno Mondadori-Pearson Italia, Milano-Torino 2011; Il Novecento, Pearson Paravia-Bruno Mondadori, Milano 2002. Christopher Duggan, La forza del destino. Storia d’Italia dal 1796 a oggi, Laterza, Roma-Bari, 2011. Mario Isnenghi, Storia d’ Italia. I fatti e le percezioni dal Risorgimento alla società dello spettacolo, Laterza, Roma-Bari 2011. Aurelio Lepre, Claudia Petraccone, Storia d’Italia dall’Unità ad oggi, Il Mulino, Bologna 2008. Giuseppe Mammarella, Paolo Cacace, La politica estera dell’Italia. Dallo Stato unitario ai giorni nostri, Laterza, Roma-Bari 2010. Indro Montanelli, Mario Cervi, L’Italia del Millennio, BUR, Milano 2006. Pierre Milza, Storia d’Italia. Dalla preistoria ai giorni nostri, Corbaccio, Milano 2006. Gilles Pécout, Il lungo Risorgimento.La nascita dell’Italia contemporanea (1770-1922), Bruno Mondadori, Milano 1999. Giovanni Sabbatucci, Vittorio Vidotto, Il mondo contemporaneo. Dal 1848 a oggi. Editori Laterza Roma-Bari, 2008; Storia contemporanea. L’Ottocento, Laterza, Roma-Bari 2002.
12 Denis Mack Smith, Storia d’Italia, Laterza, Roma-Bari, 1997-2001, pp. 155-56.
17 Cfr. Encyclopaedia Aethipica, voll. 1,3-4, Harrassowitz Verlag, Wiesbaden 2003, 2007, 2010.
18 Cfr. AA. VV. Encyclopaedia Aethiopica, voll. 1-4.
187 ACO, serie Etiopi, Op. cit., f.16.
188 Alessio Enrico Maria Lépicier nacque a Vaucouleurs, in Francia, il 28 Febbraio 1863. Entrato nell’ordine dei Servi di Maria (Serviti), dopo la sua ordinazione sacerdotale fu assunto dalla Santa Sede a servizio della Sacra Congregazione dei Religiosi. Consacrato vescovo, fu inviato in missione speciale in Eritrea ed Etiopia come visitatore apostolico. Poco più di un anno dopo, il 17 Dicembre 1928 il Papa lo nominò Cardinale a capo della medesima congregazione vaticana. Morì a Roma il 20 Maggio 1936, due settimane dopo la conquista italiana di Addis Abeba. Fu sepolto nel cimitero del Verano.
189 ACO, Relazione Lépicier, f. 39.
190 Idem, f. 38.
191 Cfr. ACO, Etiopi, prot. 977/ 28, relazioni annuali alla Congregazione Orientale: 1928, 1929.
192 ACO, Etiopi, prot. 977/ 28, f. 49.
193 Idem
194 Cfr. Cesare Marongiu Buonaiuti, Op. cit.
195 ACO, Etiopi, prot. 977/ 28, f. 44.
196 Idem
197 Idem, f. 45.
210 ACO, Op. cit., f. 24.
211 Idem, f. 25.
215 Idem
216 Idem, f. 28.
221 Idem, f. 29.
222 Idem
223 Idem
224 Idem, f. 30.
225 Idem, f. 33.
226 Idem
227 Idem
228 Idem, f. 29.
229 Idem, f. 30.
255 Paolo Borruso, L’ultimo impero cristiano. Politica e religione nell’Etiopia contemporanea (1916-1974), Guerini e Associati, Milano 2002, p. 83. Cfr. Carlo Zaghi, I Russi in Etiopia (1884-1886). Napoli 1972, voll. I-II.
256 Cfr. Gionatan Breci, Etiopia: storia di una missione avventista. Dalla nascita dell’interesse missionario avventista fino all’invio di missionari italiani, (tesi di laurea magistrale in Teologia), Istituto Avventista di Cultura Biblica, Facoltà di Teologia, Firenze aa 2011-2012, pp. 33-90.
257 Cfr. Angelo del Boca, Il Negus. Vita e morte dell’ultimo re dei re, Laterza, Roma – Bari, 2007.
258 Renato Piacentini, Ministro d’Italia presso l’impero d’Etiopia giunse ad Addis Abeba il 2 Febbraio 1920, in sostituzione del Conte Giuseppe Colli Ricci di Felizzano.
Antonio Cataldi, I missionari cattolici italiani nell’Etiopia occupata (1936-1943), Tesi di dottorato, Università degli studi Roma Tre, 2013