Il PCI di fronte all’emergenza abitativa del secondo dopoguerra nel Triangolo industriale

Milano: un’immagine degli effetti dei bombardamenti subiti durante la seconda guerra mondiale – Fonte: Lombardia Beni Cuturali

Torino, Milano e Genova, dopo il 25 aprile 1945, sono città sventrate dalla guerra. Città da ricostruire, da progettare, da immaginare. Città in cui, soprattutto, vi è un’emergenza prioritaria: trovare un tetto per le centinaia di migliaia di famiglie rimaste senza casa, prima che si faccia inverno. La parola d’ordine che si diffonde presso le tre Federazioni del Partito Comunista Italiano è la stessa: ricostruzione.
Per tutto il biennio 1945-1946 la si può trovare nei documenti interni, nella stampa ufficiale, nei discorsi pubblici dei dirigenti. Torna con assiduità, si arricchisce di particolari sempre nuovi, è motivo di angosciante preoccupazione, ma al tempo stesso si lega anche a sentimenti di speranza ed è vissuta come occasione di cambiamento.
Sull’onda dell’entusiasmo per la fine della guerra, per la caduta del fascismo, per le aspettative alimentatesi nel corso della Resistenza, ridisegnare l’impianto urbanistico e architettonico delle capitali del Triangolo industriale diventa – nelle intenzioni dei comunisti – una strategia politica per migliorare le condizioni di vita dei lavoratori, per ridurre le differenze sociali, per eliminare le barriere di classe.
Anche se le difficoltà da superare sono tante e anche se le spinte più entusiastiche sono destinate a subire un brusco arresto nel volgere di qualche mese.
Milano, dove nel 1945 il Pci conta più di 100.000 iscritti e partecipa alla giunta unitaria di Antonio Greppi, diventa un vero e proprio laboratorio di studio per quanto riguarda la ricostruzione postbellica, come dimostra anche l’ampia letteratura sul tema <3.
La recente ricerca degli architetti Gianfranco Pertot e Roberta Ramella <4 descrive la titanica operazione di censimento, condotta casa per casa in soli tre mesi. In mezzo a mille difficoltà, una squadra formata da una quarantina di tecnici non compromessi con il regime e molti dei quali organici al Pci, procede con la compilazione di oltre 3.000 schede, una per ogni isolato, e con la definizione di una ricchissima mappa a colori relativa allo stato di fatto, in cui si individuano le destinazioni d’uso e lo stato di conservazione degli edifici: distrutti, demoliti, sinistrati o passibili di demolizione. La ricostruzione, grazie a uno sforzo collettivo senza precedenti, si trasforma, attraverso gli strumenti urbanistici, in un’opportunità di riordino della città, con l’allontanamento delle aziende dai fumi molesti, la ricerca di sicurezza e la costruzione di un nuovo ordine urbano improntato a quell’“architettura civile” introdotta da Francesco Milizia nel dibattito architettonico italiano.
Norme di igiene, distanze, allineamenti sembrano momentaneamente prevalere sulla cultura della stratificazione del palinsesto urbano. A oggi, quella di Milano è ricordata come un’esperienza unica per alcuni protagonisti dell’architettura, un’occasione irripetibile per dare un volto radicalmente nuovo alla città, con i “modernisti” in prima linea nella stanza dei bottoni.
Il congresso provinciale della Federazione comunista di Milano, che si svolge nel mese di settembre del 1945, è quasi interamente dedicato alla ricostruzione ed è l’occasione per una prima analisi dell’emergenza-casa: il pesante bilancio è di circa 14.000 immobili distrutti, 11.000 gravemente danneggiati, tra cui Palazzo Marino, il Castello Sforzesco, la Galleria Vittorio Emanuele, e ben 250.000 edifici da ricostruire. Di fatto, l’imperativo assoluto di questo tumultuoso periodo è lo sgombero delle macerie, il ripristino dei servizi essenziali e l’edificazione di nuove abitazioni che rispondano alle richieste della massa degli sfollati: a questo proposito, la situazione descritta dal Pci è, a dir poco, drammatica. La mancanza di abitazioni colpisce per il 70% famiglie operaie, le cui precarie condizioni sono aggravate sia dal sovraffollamento causato dal rientro dei reduci dalla Germania, tra i quali vi sono peraltro numerosi casi accertati di tubercolosi, sia dalle difficoltà nel reperimento di generi alimentari di prima necessità.
Nell’immediato, l’azione politica del Pci punta non solo sulla ricostruzione edilizia, ma anche su una serie di iniziative mirate all’individuazione e alla segnalazione dei bisogni primari della popolazione residente, attraverso forme di organizzazione partecipativa “dal basso”. Tra queste, meritano di essere ricordati i comitati di inquilini, distribuiti in tutta la città e in particolare modo nei caseggiati popolari, che avevano una funzione di controllo soprattutto in materia di manutenzione e sicurezza, svolta attraverso una regolare trasmissione delle emergenze alla Camera del Lavoro. In totale, a Milano ne funzionavano regolarmente almeno 186.
In secondo luogo, il Pci favorisce la nascita e lo sviluppo di una fittissima rete organizzata che sostiene le famiglie di lavoratori per tutto il biennio 1945-1946: il partito registra in città 95 cooperative di consumo con oltre 95.000 soci e 87 cooperative edilizie. Nel complesso, il mondo cooperativo di Milano e provincia coinvolge oltre 400.000 associati e si può affermare che esso contribuisca in maniera notevole, dal punto di vista economico e anche della promozione di reti di solidarietà, al sostentamento della vita quotidiana delle famiglie milanesi.
In occasione del II congresso provinciale svoltosi all’inizio del mese di novembre del 1945 <5, la Federazione torinese del Pci dedica un’attenzione prioritaria alla questione della ricostruzione degli alloggi a uso civile, partendo da un bilancio dei danni riportati. Si calcola che nel corso della guerra siano stati distrutti 52.600 vani e che altri 225.000 siano stati danneggiati più o meno gravemente.
Nonostante l’intervento del genio civile e del comitato per le riparazioni edilizie, si stima che ancora 130.000 famiglie siano prive di ricovero, in condizioni precarie anche dal punto di vista igienico-sanitario: con l’inverno ormai alle porte, il rischio della diffusione di epidemie è molto alto.
La ricostruzione materiale della città è insomma praticamente bloccata, sia a causa dell’interruzione delle vie di comunicazione e della mancanza di mezzi di trasporto adeguati, sia dal freno posto all’iniziativa edile privata da parte degli istituti di credito, restii a concedere prestiti o agevolazioni finanziarie ai proprietari. Nel caos generale, anche il prezzo degli affitti sale vertiginosamente nel volgere di poco tempo, mettendo a rischio sfratto migliaia di famiglie. Luigi Grassi, allora segretario federale del Pci, nella sua lunga introduzione al Congresso, pone l’accento proprio sulla necessità prioritaria di un piano di interventi straordinari: “Non dobbiamo dimenticare che proprio nel campo che oggi i rigori dell’imminente inverno rendono più sensibile, quello edilizio, non si è fatto e non si fa nulla, non si costruiscono case nuove, non si riparano le sinistrate, non si requisiscono i troppi palazzi e ville disabitati. La ricostruzione non può essere fatta per iniziative discontinue. Essa esige di un piano e provvedimenti finanziari, un’organica distribuzione di materiali, la costituzione di cooperative, un controllo sulla produzione e un effettivo indirizzo generale verso il benessere di tutto il popolo” <6.
Il Pci, nella sua compagine politica e in quella amministrativa – sono comunisti i sindaci Giovanni Roveda e Celeste Negarville –, propone una serie di misure immediate per consentire la ripresa della ricostruzione, sostenute finanziariamente attraverso il risanamento del bilancio comunale e il coinvolgimento dell’iniziativa privata per assicurare «la casa a ogni torinese». L’intervento dei comunisti riguarda il censimento delle situazioni emergenziali; la ricerca di sistemazioni temporanee per tutti i cittadini rimasti senza alloggio; il censimento del valore catastale delle proprietà danneggiate per scongiurare il rischio di un’ondata speculativa; la redazione di un piano di interventi mirato a seconda del grado di urgenza; la mobilitazione delle industrie edilizie nella campagna per la ricostruzione; l’organizzazione del reperimento e della distribuzione delle materie prime e dei materiali necessari; infine, il coinvolgimento di tecnici qualificati per un’azione di mediazione e consulenza personalizzata <7.
Gli aspetti più interessanti della ricostruzione edilizia del capoluogo piemontese <8 sono tuttavia quelli riconducibili al tentativo di una pianificazione urbanistica di matrice socialista, di cui si possono cogliere i primi timidi segnali all’interno del dibattito congressuale e nella stampa ufficiale di partito.
La prima fonte ci restituisce l’attenzione riservata dal Pci locale al problema delle periferie e dei quartieri operai, particolarmente colpiti dai bombardamenti a causa della vicinanza con gli obiettivi bellici: il partito sostiene la necessità di una ricostruzione ispirata a criteri di vivibilità e di qualità. I nuovi alloggi per le famiglie di lavoratori dovranno essere, contrariamente al passato, «sani, ariosi, igienici». Comincia a farsi avanti, seppure in maniera non ancora sistematica, una nuova idea di periferia, non più luogo isolato, ma «interconnesso» con il resto della città, in cui sia consentita una vita dignitosa anche ai ceti meno abbienti.
Tuttavia, è bene sottolineare come si tratti ancora di riflessioni disorganiche, che, nell’immediato, non trovano posto in una strategia complessiva di politica urbanistica.
Il fatto che il Pci tardi a vedere una città al di fuori della fabbrica lo dice con una battuta anche Diego Novelli, quando racconta che negli anni del dopoguerra chi, come lui, cercava di portare l’attenzione del partito sulle problematiche connesse allo sviluppo caotico e incontrollato della città veniva scherzosamente liquidato come sostenitore de «la via urbanistica al socialismo» <9.
Anche Daniela Adorni, nella sua indagine sulla cultura amministrativa del Pci torinese <10, sostiene che, prima della svolta cui si assiste tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta, il Pci di Torino non sia in grado di proporre un progetto innovativo di città alternativo ai modelli vigenti, soprattutto in campo economico-imprenditoriale.
Dall’analisi della documentazione interna del partito, questa considerazione ne esce pienamente confermata, almeno per quanto riguarda il primo biennio dopo la conclusione del conflitto, quando tutte le forze e tutte le energie del partito comunista – sul piano politico e amministrativo – sono febbrilmente impiegate per gestire le emergenze legate alla ricostruzione di Torino.
Anche a Genova – guidata dal sindaco socialista Vannuccio Faralli – il problema della casa assume i contorni di una vera e propria emergenza.
I senza tetto, censiti dal Pci nel giugno 1945, sono 250.000 <11 e, di essi, non meno di 120.000 necessitano in tempi stretti di un alloggio.
Gli ostacoli da superare sono gli stessi riscontrati a Torino e Milano: materie prime scarseggianti, debolezza dell’iniziativa privata, derive speculative, ritardo di provvedimenti da parte pubblica.
Oltre alla serie di misure immediate, anche qui finalizzate all’individuazione degli interventi prioritari e al coinvolgimento delle imprese edili nel progetto di ricostruzione, il Pci di Genova vive questa fase come una grande e irrinunciabile occasione per ripensare la città mediante gli strumenti della pianificazione urbanistica, a partire dal nuovo Piano Regolatore Generale. Un intento particolarmente meritorio e riconducibile al fatto che il capoluogo ligure porta con sé una pesante eredità <12. Nel corso del tempo, infatti, la città è cresciuta e si è sviluppata in modo caotico, nella compenetrazione disordinata tra zone residenziali e zone industriali, nella mancanza di collegamenti rapidi ed efficienti, nel congestionamento e nel grave degrado di molte zone del centro storico che ospita addirittura edifici del tutto fatiscenti <13. La possibilità di poter riprogettare gli spazi urbani e la mobilità, dal centro alle periferie, diventa oggetto di un intenso e vissuto dibattito pubblico di cui si fa promotrice la federazione del Pci. I comunisti tratteggiano, progressivamente, il volto di una città nuova, in cui si offrono soluzioni per ridurre o eliminare le disparità economiche e sociali esistenti tra le fasce della popolazione <14.
Con questo obiettivo, si prevede lo sviluppo delle zone industriali nell’entroterra, la bonifica e la riqualificazione del centro urbano e la costruzione di interi quartieri operai alle periferie della città. Le nuove zone edificate ai margini del concentrico urbano sono pensate come vivibili, ariose, verdi, dotate di spazi di aggregazione e di riunione per favorire la formazione politica di tutti gli individui e la loro socializzazione <15. Inoltre, si immagina di risolvere le storiche difficoltà legate al congestionamento del traffico tramite un sistema sotterraneo di collegamenti in grado di connettere in maniera diretta le abitazioni degli operai con le zone industriali, per permettere il raggiungimento in tempi rapidissimi del luogo di lavoro.
Al fine di realizzare tutti gli ambiziosi progetti di una nuova politica urbanistica socialista, il partito sottolinea la necessità del trasferimento delle aree edificabili al Comune e il rigido controllo pubblico su ogni forma di iniziativa privata in campo edilizio <16. Si introduce così, in nuce, uno dei principali temi che saranno al centro del dibatto nazionale di riforma urbanistica che, a partire dall’inizio degli negli anni Sessanta, farà discutere il paese per più di un ventennio, fino alla nota sentenza della Corte di Cassazione che ha di fatto posto la parola fine alla vexata questio.
In particolare, la riflessione sul «regime dei suoli» <17, anticipata dalla federazione comunista genovese, si connoterà fortemente proprio dal punto di vista politico-ideologico.
Il prematuro sogno della federazione comunista di Genova è destinato a infrangersi nel volgere di breve tempo, a fronte di una realtà che non sembra affatto favorevole all’accorciarsi delle distanze economiche e sociali tra i cittadini.
Le scelte di strategia politica compiute dal Pci nel contesto del Triangolo industriale al fine di fare fronte all’emergenza abitativa del secondo dopoguerra sono sostanzialmente sovrapponibili nei tre capoluoghi e presentano, a mio avviso, alcuni interessanti spunti di riflessione.
Il primo è costituito dalla capacità di mobilitazione dal basso del partito, derivante sia dal suo capillare radicamento sui territori, sia dal credito di cui gode tra la popolazione grazie al ruolo svolto nel corso dei venti mesi resistenziali: la formazione di una solida e fitta rete cooperativistica, la nascita di organismi di quartiere o di caseggiato, il coinvolgimento di tecnici politicamente affini, testimoniano dello strettissimo rapporto che si crea tra il partito e la città. Il ruolo di intermediazione tra le esigenze dei cittadini, alle prese con le drammatiche emergenze quotidiane del dopoguerra, e i governi locali consente infatti al Pci di conquistare una straordinaria legittimazione politica “dal basso”, in particolare proprio tra quella fascia di popolazione che costituiva il principale segmento sociale di riferimento.
L’emergenza abitativa diventa così, nell’immediato dopoguerra, uno dei cardini della strategia politica delle Federazioni comuniste nel Nord-Ovest italiano, sia in termini di costruzione del consenso politico, sia per quanto riguarda la capacità di insediamento capillare sui territori, che è uno dei tratti distintivi del «partito nuovo» togliattiano.
La seconda considerazione riguarda invece il dibattito urbanistico affrontato, seppure in maniera parziale e discontinua, dalle tre federazioni, che anticipano sensibilmente il grande tema del “regime dei suoli” di cui si discuterà a livello nazionale solo a partire dagli anni Sessanta, peraltro con forti influenze politiche e ideologiche. Il Pci, forse neanche del tutto consapevolmente, sottrae la disciplina della pianificazione urbanistica al predominio quasi esclusivo esercitato dai tecnici, mettendo in luce le potenzialità e le conseguenze dense di significati di un’azione pianificatrice urbanistica partecipata. Da questo punto di vista, a mio avviso, il Triangolo industriale rappresenta un caso interessante e precoce di sociologia urbana, il cui dibattito tocca una serie di temi decisamente innovativi: l’integrazione dei quartieri operai e popolari nel tessuto urbanistico e sociale delle città, per “ricucire” il gap esistente tra centro e periferia e per favorire la rinascita urbana e sociale; l’introduzione di servizi sociali per il cittadino diffusi sul territorio; la nuova vocazione delle aree libere, riservate al verde pubblico; infine, la tutela e la valorizzazione dei centri storici e dei luoghi di valore naturale. Il tutto con lo scopo primario di ridurre le differenze sociali esistenti tra la popolazione e migliorare la qualità della vita dei lavoratori.
Alla ricostruzione edilizia, economica e materiale del Triangolo industriale corrisponde la réconstruction del Rhône-Alpes. Questa volta la ricostruzione è di natura principalmente economica e giunge a somigliare a una sorta di vera e propria rénaissance, dal momento che si accompagna a una forte tensione fatta di ispirazioni ideali, politiche e culturali.
[NOTE]
3. Un’interessante rassegna bibliografica su questo tema si trova in S. Pesenti, 1945, Milano, Italia: restauro, urbanistica, architettura. Prime considerazioni per una lettura del dibattito, «Storia urbana», 2007, n. 114-115. Tra gli studi più recenti richiamati dall’autrice si citano: G. Rumi, A. C. Buratti, A. Cova (a cura di), Milano ricostruisce 1945-1954, Cariplo, Milano 1995; M. A. Crippa, F. Zanzottera, D. Merici, R. Ronza (a cura di), Milano 1940-1955 bombardata e ricostruita, Comune di Milano, Milano 2002; R. Auletta Marrucci, M. Negri, A. Rastelli, L. Romaniello (a cura di), Bombe sulla città. Catalogo della mostra, Skira, Milano 2004. Accanto a questi si possono ricordare i saggi sull’evoluzione della città: L. Barbiano di Belgiojoso, Testimonianze di storia dell’urbanistica di Milano dal 1940 ad oggi, pp. 28-39; S. Tintori, Milano nelle sue strutture: mutamenti nella modernità, pp. 40-62; L. Donati, Distruzione e ricostruzione post-bellica: il Piano regolatore Generale del 1948-53, pp. 151-170; C. Morandi, La politica urbanistica fra i Piani regolatori generali del 1953 e del 1980: le Varianti al Piano regolatore, pp. 171-186; D. Rodella, Il nuovo ordinamento dell’urbanistica milanese, pp. 202-229; R. Cecchi, Distruzioni belliche e opera di ricostruzione (1945-1960), in AA. VV., Storia di Milano, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1996, vol. 1; G. Cislaghi, M. DeBenedetti, P.G. Marabelli (a cura di), De Finetti. Milano. Costruzione di una città, Hoepli, Milano 2002; F. Oliva, L’urbanistica a Milano. Quel che resta dei piani urbanistici nella crescita e nella trasformazione della città, Hoepli, Milano 2002; C. Morandi, Urbanista e civil servant della città di Milano, in E. Susani (a cura di), Milano dietro le quinte, Electa, Milano 2004, pp. 121-142; M. Boriani, L. Scazzosi, Fra tradizione e innovazione: il restauro a Milano nel periodo postbellico, in E. Susani (a cura di), Milano dietro le quinte cit., pp. 143-159; C. Morandi, Milano e la grande trasformazione urbana, Marsilio, Venezia 2005.
4. G. Petrot, R. Ramella, Milano 1946. Alle origini della ricostruzione, Silvana editoriale, Cinisello Balsamo 2017.
5. V Congresso nazionale del Pci, II congresso provinciale di Torino, 1-2-3 novembre 1945, opuscolo della Federazione del Pci di Torino, 1945, Fondo Pci Federazione di Torino, Organismi di direzione e controllo, Busta 1, Fondazione Istituto piemontese Gramsci Onlus.
6. Verbale del V Congresso della Federazione di Torino del Partito Comunista Italiano, Fondo Pci Federazione di Torino, Busta 001, Fascicolo 1, Archivio Fondazione Istituto piemontese Gramsci Onlus.
7. V Congresso nazionale del Pci, II congresso provinciale di Torino, 1-2-3 novembre 1945, opuscolo della Federazione del Pci di Torino cit., p. 71.
8. Cfr. A. De Magistris, L’urbanistica della grande trasformazione (1945-1980), in AA. VV., Storia di Torino, Einaudi, Torino 1999, vol. IX.
9. D. Novelli, testimonianza resa in data 30 settembre 2010.
10. Cfr. D. Adorni, Due passi avanti e uno indietro: la formazione di una cultura amministrativa nel Pci torinese (1945-1965), in B. Maida (a cura di), Alla ricerca della simmetria. Il PCI a Torino 1945/1991, Rosenberg & Sellier, Torino 2004.
11. Il problema urbanistico, «L’Unità» (edizione di Genova), 14 giugno 1945.
12. Per un approfondimento puntuale di questi aspetti si rimanda a F. Begliomini, G. Sergi, Progettare Genova: storia, architettura, piano e città, Costa & Nolan, Genova 1989; E. Poleggi, P. Cervini, Genova, in C. De Seta, Le città nella storia di Italia, Laterza, Roma-Bari 1989.
13. Il problema urbanistico, «L’Unità» (edizione di Genova), 14 giugno 1945.
14. N. Simonelli, Agostino Novella e il Pci a Genova (1945-1947), De Ferrari, Genova 2008, p. 229.
15. Il problema urbanistico, «L’Unità» (edizione di Genova), 14 giugno 1945.
16. Ibid.
17. Per un approfondimento del dibattito si rimanda a G. Campos Venuti, Amministrare l’urbanistica, Einaudi, Torino 1967; B. Secchi, Il racconto urbanistico: la politica della casa e del territorio in Italia, Einaudi, Torino 1984; V. De Lucia, Se questa è una città, Editori Riuniti Roma 1989.
Cecilia Bergaglio, Identità e strategie politiche del Pci e del Pcf: una comparazione tra il triangolo industriale e la regione del Rhône-Alpes, Accademia University Press, Torino, 2019