Il mito dalmata nel primo Novecento

Nell’ottobre 1914, il conte veneziano Piero Foscari <27, accanito sostenitore della tesi secondo cui la difesa dell’Italia stava nella difesa dell’Adriatico, pubblicò un articolo sul nel quale, dopo aver rimarcato che la Dalmazia apparteneva all’Italia per motivazioni geologiche, storiche ed etniche, sottolineava i propri timori in merito a una possibile iniziativa franco-britannica sul territorio qualora Sarajevo fosse caduta nelle mani dell’Intesa, scrivendo:
“La Dalmazia in mano altrui è una continua grave minaccia al nostro cuore e a troppo breve distanza da questo, mentre in mano nostra è una nostra necessaria difesa senza minaccia ad alcuno”. <28
Qualche mese più tardi Foscari ribadiva questa utilità strategica dell’Adriatico estremizzando la questione: l’Italia non avrebbe potuto in alcun modo fare a meno del controllo di entrambe le sponde, “anche se la Dalmazia non vantasse la sua millenaria storia romana e veneta, anche se non esistesse Zara italianissima e non sopravvivessero dovunque nuclei meravigliosi d’italianità.” <29 Era dovere elementare di una nazione quello di provvedere in ogni modo al fine di garantirsi dei confini sicuri, anche oltre i limiti nazionali, pur di evitare di lasciare questi in mani altrui. La costa orientale, data la sua conformazione geologica, si rendeva di estrema utilità nell’applicazione di novità tecnologiche quali il sommergibile e le mine navali nonché utile ai fini della difesa del trasporto marittimo, eguagliando e unificando in un’unica regione funzioni di località come La Spezia, Portoferraio, Gaeta, lo stretto della Maddalena e di Messina. Data la sua particolare orografia la Dalmazia infatti poteva far venir meno necessità come quelle delle scorte navali. <30
Anche per le alte sfere, già influenzate dalla conquista libica, il controllo di parte della Dalmazia era divenuto nel frattempo essenziale e irrinunciabile ai fini del programma espansionistico italiano. Dopo l’impresa libica, che già aveva galvanizzato i nazionalisti, lo scoppio della guerra rappresentava una buona opportunità: per ottenere territori imperiali abitati da italiani e/o ritenuti necessari per la sicurezza strategica dello Stato, il governo si prodigò con l’Austria al fine di ottenerli come compenso per le nuove conquiste asburgiche, nonché per dare garanzia alla Duplice di una posizione di neutralità nel conflitto. <31 Una richiesta questa che non poteva essere presa in considerazione da parte imperiale e che, come noto, nel contesto di alcune sconfitte subite dagli Imperi centrali nell’agosto 1914 sul fronte russo, fece propendere sia il governo che la monarchia italiana a considerare altre opzioni: il Patto di Londra, siglato segretamente tra l’Italia e le potenze dell’Intesa il 26 aprile 1915, nel prevedere l’estensione della frontiera italiana dalle Alpi sino al Monte Nevoso, con annessa sovranità in Dalmazia su Zara e Sebenico e rispettivi distretti da Tenìn a Capo Planca, sul Quarnaro e sulle isole Curzolane, escludendo Fiume e Spalato a favore dell’ipotetica realtà statale che sarebbe seguita dopo il conflitto, rappresentava una possibilità migliore (figura 3). La svolta sul fronte delle ambizioni verso la Dalmazia si ebbe di pari passo con il divampare del dibattito-scontro tra interventisti e neutralisti: complice l’afflusso di diverse migliaia di volontari ed esuli italiani da quella terra, intenzionati ad arruolarsi tra le file del Regio esercito. <32 Sebbene le frange nazionaliste e interventiste rappresentassero una ristretta minoranza, esse cominciarono ad attivarsi instancabilmente in favore dell’ingresso in guerra per l’annessione della costa orientale adriatica verso la fine del 1914 e i primi mesi del 1915. <33 Emblematico fu il Comitato centrale Pro Dalmazia, costituitosi nel marzo del 1915 a Roma su spinta ed opera della Dante in collaborazione con un’altra associazione irredentista, la Trento e Trieste, fondata già nel 1903, improntato a richiedere ed ottenere l’annessione della costa adriatica orientale all’Italia. Il Comitato espressione ultima del pensiero irredentista radicale, aveva una composizione del tutto singolare, raccogliendo diversi esponenti del mondo politico italiano, dai radicali ai giolittiani, dai liberali ai socialisti rivoluzionari, ai nazionalisti, tutti accomunati dalla ormai egemone passione adriatica. <34 Qualche mese dopo la fondazione infatti, uno dei suoi esponenti, Giuseppe Marini, riformista e collaboratore de «L’Azione Socialista», a dispetto della corrente ideologica da cui proveniva, aveva ribadito le posizioni comuni sull’annessione dell’arcipelago all’Italia, considerando che l’inclusione delle molteplici etnie presenti sul territorio sarebbe stata garantita dalle strutture liberaldemocratiche dello Stato italiano. <35

Figura 3: La Dalmazia prevista dal Patto di Londra del 1915 (fonte: M. Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale, p.160) – Qui ripresa da Alessio Conte, Op. cit. infra

[NOTE]
27 Pietro Foscari (1865-1923), appartenente a una delle nobili famiglie storiche di Venezia, già promotore del progetto del polo industriale di Porto Marghera nel 1908, fu presidente della sezione veneziana della «Il Giornale d’Italia» Trento e Trieste nel 1903. Tra i principali esponenti del movimento nazionalista, al punto da diventare uno dei dirigenti più attivi, nei primi decenni del secolo si rese elemento fondamentale nel collegare i diversi ambienti culturali ed economici veneziani sotto le insegne del nazionalismo. Partecipe al congresso costitutivo dell’Associazione nazionalista italiana del dicembre 1912, comandante della difesa antiaerea di Venezia nel 1915, nel giugno 1916 venne nominato sottosegretario alle Colonie nel nuovo governo Boselli, confermato nella carica dal successivo governo Orlando. Partecipò all’Impresa di Fiume assieme a D’Annunzio, conosciuto durante il soggiorno di quest’ultimo a Venezia durante la Grande Guerra e fu tra i promotori della fusione dell’Associazione nazionalista con il Partito nazionale fascista. C. Chinello, Foscari Pietro, in Dizionario Biografico degli Italiani, XLIX, Istituto della Enciclopedia italiana, Roma 1997.
28 P. Foscari, Salviamo la Dalmazia!, «Il Giornale d’Italia», 24 settembre 1914.
29 P. Foscari, La Dalmazia e il problema strategico dell’Adriatico, in La Dalmazia. Sua italianità, suo valore per la libertà d’Italia nell’Adriatico, p. 168.
30 Ibid., pp.176-8
31 Cfr. L. Monzali, Italiani di Dalmazia. Dal Risorgimento alla Grande Guerra, p.279.
32 Cfr. O. Talpo, Da Rapallo in poi, p.93.
33 C. Maranelli, G. Salvemini, La questione dell’Adriatico, p 101.
34 Nel Comitato figuravano nomi come Giovanni Amendola, allora collaboratore del Corriere della Sera, Alessandro Dudan, giornalista spalatino filo-giolittiano, i nazionalisti Enrico Corradini e Ruggero Fauro Timeus; l’ex deputato radicale Romolo Murri, il socialista rivoluzionario nonché deputato alla Camera Francesco Arcà e pure il drammaturgo Luigi Pirandello. Cfr. A. Ventrone, La seduzione totalitaria: guerra, modernità, violenza politica (1914-1918), Donzelli, Roma 2003, p. 58.
35 Ivi.
Alessio Conte, Ca’ Foscari e l’imperialismo adriatico. La Dalmazia nell’università veneziana tra studi e ideologia, Tesi di laurea, Università Ca’ Foscari Venezia, Anno accademico 2016-2017

Il popolo italiano si agita a Torino: correnti spirituali nuove lo percorrono e lo fanno vibrare di santo entusiasmo; innalzato dalla vittoria fino alle purissime cime dell’ideale umano, nella pienezza della sua vita nazionale, il popolo italiano percorre a Torino le vie larghe, si stende nelle grandi piazze, guidato da saggissimi cittadini nei quali ripalpitano le anime-stelle polari di Mazzini, Garibaldi e prof. Lollobrigida. Il popolo italiano sono gli scolaretti medi (noi siamo piccoli, ma cresceremo!), le anime polari sono i proff. Lollobrigida, Cian e Mannaggialarocca Monti; nel sacro Carroccio sventolano al bel sol d’Italia gli stendardi delle città romane della Dalmazia. Audaci drappelli, votati agli scapaccioni, rudi anzichenò, degli operai, prendono d’assalto (o Arditi, milizia che esprimi l’energia immanente della stirpe!) i manifesti annunzianti l’uscita dell’«Avanti!» piemontese e vi affondano voluttuosamente i pugnalettitemperamatite e i pennini: l’idra proletaria boccheggia per le ferite, e la colla trabocca dagli squarci micidiali. Comizi d’una grandiosa imponenza si radunano dinanzi ai templi della cultura e della educazione nazionale:
«Italiani! – rimbomba una voce in cui tutto l’avvenire della stirpe infonde armonia e calore mistico – Soldati! la Gesta non è ancora al suo compimento, morire ancora bisogna: strappiamo i manifesti dell'”Avanti!” e in coro gridiamo: Viva la Dalmazia italiana!» La coscienza sotterranea della stirpe si esprime dalle adorabili rosee boccucce, volano coriandoli e scorze di castagne verso l’alto, dove la nebbia nasconde il sole. Gli spiriti magni di Vittorio Cian e di Arnaldo Monti stillano intanto dagli occhi commosse rugiade di lacrime nazionali; l’opera diuturna di quattro anni non fu spesa invano; la coscienza della Patria è plasmata; i giornali scriveranno: la volontà del popolo italiano arriverà fino ai responsabili e segnerà l’indirizzo per l’opera ricostruttiva.
Cosí a Torino la Storia partorisce la Nazione rinnovata: cosí l’Alta Cultura universitaria e liceale educa le generazioni nuove. E non si può negare che le tradizioni immanenti nella storia d’Italia non prendano forma. Gli scolaretti disertano le lezioni per ascoltare le concioni: i bimbi d’Italia son tutti Balilla, scrivono poemi immortali con una sassata, escono dal conio materno con infusa la sapienza e la saggezza degli avi. La tradizione istintiva di prima della guerra diventa autocoscienza dopo la vittoria: i maestri, gli educatori si pongono alla testa del movimento di riscossa contro la scuola pedantesca, la scuola in cui i professori fanno lezione e gli scolari assistono e studiano. Tutta Italia è una scuola: nelle piazze e nelle vie è la scuola, i testi classici sono i sassi, la saggezza è negli ululati e nei fuggi-fuggi. L’anima eroica delle giovani generazioni si rifiuta di costringersi nei vecchi schemi della disciplina e dell’ordine, cosí come il classico lazzarone si rifiuta di sacrificare la sua bella libertà, pidocchiosa ma assoluta, per costringersi nella disciplina del lavoro permanente e sistematico. Perché la tradizione immanente nella stirpe, la tradizione che trova nei maestri e negli educatori come Vittorio Cian e Arnaldo Monti la sua autocoscienza, è il classico lazzaronismo italiano.
Antonio Gramsci, Lazzaronismo (18 dicembre 1918) in Antonio Gramsci, Sotto la Mole (1916-1920). Vol. III, Freeditorial, 2014