I primi esperimenti d’impiego lavorativo dei prigionieri, perlomeno all’esterno delle regole stringenti imposte dalla Convenzione di Ginevra, che vietava l’impiego dei prigionieri in attività lavorative direttamente connesse allo sforzo bellico della potenza detentrice, risalivano, in realtà, al luglio 1942, con la presenza di un centinaio di prigionieri antifascisti <123 al lavoro in un’officina di riparazione di veicoli militari a Delhi, denominato Camp 401, Delhi Cantonment, diventati 170 ad agosto. A essi, a questa data, si affiancavano una trentina di uomini tra sottufficiali, graduati di truppa e i soldati impiegati nei servizi quali cuochi e barbieri <124. Anche nell’officina si erano tuttavia verificati degli scontri: il 26 marzo 1943, 61 prigionieri, giunti il 24, avevano protestato dichiarando di voler ritornare al loro campo. In realtà, secondo i britannici, i più erano stati aizzati da pochi fascisti, che avevano fatto temer loro rappresaglie per le loro famiglie in Italia <125. Dovrebbe essere questa l’officina a cui molteplici documenti fanno riferimento come battaglione di lavoro dell’Italia Redenta, composto di 250 uomini, all’opera in un’officina di Delhi nel maggio 1943 <126.
Nello stesso maggio furono celebrate le cerimonie che assicuravano legittimità legale all’Italia Redenta, riconosciuta in via ufficiale dalle autorità inglesi. Lo stendardo del movimento, con il tricolore e le iniziali di corpo, ricevette la sua consacrazione il 24, data che si prestava a commemorare due occasioni: l’entrata in guerra dell’Italia e il giorno consueto di celebrazione dell’“Empire day”, alla presenza di 24 ufficiali e 332 uomini di truppa italiani <127.
Il Lieutenant Colonel C. F. Newman, comandante di campo, arrivò alle 8.30 e prese posto di fronte alla porta principale, mentre gli uomini in parata erano in posizione di attenti. “L’Aiutante si avanzò [sic] portando la Bandiera che consegnò al Comandante, il quale a sua volta la consegnò all’ufficiale Italiano più elevato in grado, dopo di che la bandiera fu benedetta dal Cappellano Italiano” <128.
[…] Mentre sembrava nascere la predisposizione per il successo tanto atteso della propaganda britannica, il 20 maggio vi era la richiesta da parte australiana <134, accolta a Londra da parte del War Office (responsabile per il trasferimento dei prigionieri dalle diverse aree dell’Impero Britannico), di importare 10.000 prigionieri antifascisti dall’India per impiegarli nel settore agricolo nelle fattorie australiane. Se il progetto si fosse realizzato sarebbe sfumata la creazione dei Labour Battalions di Italia Redenta. Il dibattito tra le varie sfere amministrative britanniche rende conto della confusione e dei diversi interessi dei vari apparati <135. Gli australiani, in seguito alle risposte stupite di Johnston e alle reazioni del PWE, ribadirono che erano interessati a prigionieri che non erano fascisti e non avrebbero creato problemi a lavorare nei campi, e non erano per nulla interessati a portare nel Paese oceanico i prigionieri già inseriti nell’unità antifascista. A causa della richiesta australiana e della conseguente approvazione del War Office, senza che vi fosse stata alcuna consultazione con altre strutture, Brooks decise di richiamare la missione di Johnston il 29 giugno <136. La missione aveva arruolato a quella data sessanta ufficiali, inclusi due colonnelli, due tenenti colonnelli e alcuni maggiori e capitani <137, mentre il numero complessivo dei volontari, quando cessarono gli arruolamenti, probabilmente a fine novembre, fu di circa 900 <138.
3.1.6. Clima nei campi e riduzione di ruoli e funzioni della Missione
Il clima che si respirava in India dall’inizio del 1943 era un clima di sostanziale depressione per le sorti belliche italiane. Nel febbraio <139 veniva segnalato come i comunicati di guerra italiani e tedeschi che comparivano ne «Il Corriere del Campo» e nei quotidiani in lingua inglese, con l’ammissione delle sconfitte in corso, stessero battendo l’opposizione dei fascisti oltranzisti, i quali creavano pseudo bollettini adducendo successi dell’Asse e sconfitte Alleate. Ciò portava a un discredito dei fascisti e, di converso, un aumento di simpatia per la stessa causa Alleata. L’ascolto dei programmi radio del PWE stava diventando un’abitudine quotidiana per sempre più prigionieri mentre il settimanale manteneva ancora l’attitudine imparziale dei primi numeri. Ciò contribuiva ad accrescere la credibilità britannica.
Nel marzo si riferiva che il morale dei prigionieri era ancora declinante: l’Asse non poteva vincere. Un prigioniero confidava amaramente che leggere i quotidiani inglesi era tutt’altro che piacevole temendo che il futuro potesse essere simile alla storia napoleonica: dalle vittorie sfolgoranti dei primi anni, alla catastrofe militare degli ultimi anni di potere. Un anno fa, lo stesso aveva scritto di avere immensa fiducia che Dio non potesse permettere agli atei, ai protestanti e agli ebrei di decidere il futuro delle nazioni <140.
A fine aprile emergeva come, insieme alla disillusione per le sorti belliche, aumentava l’insofferenza verso i fascisti, sempre più invisi alla massa per il loro atteggiamento di cieca fiducia nei destini bellici dell’Asse. Gli stessi fascisti, anche nelle loro lettere a casa, mantenevano una linea di fedeltà incrollabile, che era funzionale, secondo le riflessioni britanniche, sia per sfuggire alla censura italiana che per rafforzare il proprio credo personale, ormai morente. Un tenente scriveva che quello che sentiva da Radio Delhi e leggeva nei giornali locali non era altro che propaganda, mentre il suo morale era sempre più alto <141.
Nel corso di luglio, con l’eccezione del personale d’ufficio e di pochi membri che sarebbero stati trasferiti ai quartier generali di Nuova Delhi, tutti i membri del PWE furono trasferiti altrove, dal Medio Oriente alla Gran Bretagna. In base ad accordi raggiunti dal PWE con altri apparati, il reclutamento di antifascisti sarebbe stato mantenuto; il PWE avrebbe continuato a finanziare i periodici in lingua italiana e le trasmissioni radio di Delhi a condizione che si continuassero a seguire le direttive del PWE. L’inglese si sarebbe continuato a insegnare nei campi, ma su scala molto più ridotta <142.
Alla caduta, nel luglio, di Mussolini, nei campi le reazioni furono differenziate: a Bhopal, il campo (tra quelli molto grandi) a più alta concentrazione di fascisti presente in India, alla notizia della caduta del Duce non seguì un sentimento di depressione bensì vi fu l’intensificazione di tutto quanto fosse fascista con slogan e hurrà per il duce. In questi campi, dopo il primo shock quindi, continuava a esserci la stessa paura del terrore fascista di prima <143. A Yol, invece, il clima era ben diverso e l’armistizio sembrava diventato l’occasione per consumare delle vendette: si erano, infatti, verificati dei pestaggi di fascisti e la voglia di vendetta per le passate umiliazioni sembrava lungi dal cessare.
Dallo spoglio delle lettere uno degli elementi che le relazioni composte dai britannici ci permettono di appurare, è la trasformazione, apparentemente sorprendente, di quasi tutti gli ufficiali superiori in antifascisti provetti, manifestata sia nelle lettere alle famiglie in Italia che nei comportamenti nei campi. Le ragioni di tali comportamenti le vedremo meglio in seguito. Di converso, le reazioni degli ufficiali inferiori erano assai più variegate: alcuni si dichiaravano antifascisti, altri disinteressati alla politica, altri ancora sentivano ancora ammirazione nel Duce, visto come l’uomo che aveva salvato l’Italia dopo la prima guerra mondiale <144.
Alla notizia dell’Armistizio, nella truppa c’era un generale clima di depressione. Numerosi ufficiali chiedevano di rendersi utili collaborando con gli Alleati dividendo la loro disponibilità su tre opzioni: combattere contro i tedeschi dalla parte degli Alleati; combattere ovunque e contro chiunque dalla parte degli Alleati; offrire le loro professionalità civili dove richieste.
Dopo l’armistizio italiano, molte migliaia di prigionieri presenti in India furono dirottati altrove a causa della crisi alimentare presente nel subcontinente. Per Moore e Fedorowich la missione si concludeva con alcuni chiaroscuri: alcune tecniche impiegate per la propaganda sui prigionieri italiani in India sarebbero state affinate negli anni successivi per la propaganda ai pows tedeschi; tuttavia la missione aveva raccolto un numero relativamente basso di prigionieri antifascisti disposti a combattere e lavorare. Per quanto riguardava la segregazione dei fascisti, essa era andata avanti in via frammentaria e non si era realizzata del tutto. Gli scopi della Missione non erano stati realizzati pienamente, poiché la missione del PWE non aveva poteri esecutivi, ma solo di consulenza <145. Nel capitolo successivo risponderemo più accuratamente che cosa avrebbe provocato presso gli ufficiali italiani di Yol la propaganda britannica e il tentativo di sottrarre il potere ai capetti fascisti.
122 NA FO 939/400, Propaganda Notes for London No. 24 dated 27th. April 1943.
123 NA FO 898/112, Cudbert John Massie Thornhill, Report for July, cit.
124 NA, FO 939/370, comunicazione No. 28201/1/1, Lieut. Colonel A. Hathaway, EMPLOYMENT OF ITALIAN PRISONERS OP WAR IN ORDNANCE WORKSHOPS, 1 agosto 1942.
125 NA, FO 898/110, Major F.R. Boyall – Captain J. Gauld, Report to visit to Camp 401, Delhi Cantt., on 26 Mar 43, 27 marzo 1943.
126 NA, FO 939/370, [s.n.], SECRETARY OF STATE, 28 maggio 1943.
127 La cerimonia è narrata dettagliatamente in NA, FO 898/323 nel libretto Italia Redenta. Cerimonie, cit. Il libretto era composto in italiano e inglese, per ovvi scopi propagandisti.
128 Ibidem.
134 NA, FO 939/370, il riferimento è la comunicazione MC 2370 del 20 maggio da Landforces a Detarmindia
135 Ivi, comunicazione a Eden del 3 giugno 1943.
136 Cfr. ivi, R.A.D. Brooks, Ref. P(G) 1549, 29 giugno 1943.
137 Ivi, comunicazione 13/e/PWE/GSI del colonnello A.C. Johnston a R.A.D. Brooks del 22 giugno 1943.
138 Cfr. la testimonianza del maggiore degli Alpini Carlo Calcia in Italia Redenta, cit. L’intero articolo è pubblicato per intero anche in De Gasperi, cit.
139 NA, FO 898/400, Propaganda Notes for London, No.21. dated 25th. February 1943, For Brigadier BROOKS from Colonel THORNHILL.
140 Ivi, Propaganda Notes for London. No.22. dated 16th. March 1943.
141 Ivi, Propaganda Notes for London. No. 24 dated 27th. April 1943.
142 Cfr. NA, FO 939/398, POLITICAL WARFARE EXECUTIVE. MINUTES OF A MEETING HELD IN THE CONFERENCE ROOM. P.W.E. OFFICES, BUSH HOUSE, ALDWYCH, W.C.2., 22 luglio 1943. L’incontro era presieduto da R.A.D. Brooks, Deputy Director-General del PWE.
143 NA, FO 898/400, Ian M. Dron, Propaganda Notes for London. No.28 dated 27th.August ’43.
144 Ivi, Propaganda Notes for London. No. 29 dated 30th September, 1943.
145 Bob Moore – Kent Fedorowich, British Empire, cit., pp. 129-30.
Salvatore Lombardo, Politiche di propaganda britanniche e storie di prigionia italiana tra Egitto e India, Tesi di dottorato, Università di Pisa, Anno accademico 2011-2012
Il campo di Yol
India, tuttavia, non vuol dire solo lotta per l’indipendenza: per molti soldati italiani significava dura prigionia sotto gli inglesi. Il tentativo di evasione più clamoroso, da diventare addirittura leggendario, si registrò nel campo di Yol, nell’alto Punjab indiano, a 1200 metri di altitudine. Ne furono protagonisti il tenente di vascello Camillo Milesi Ferretti, comandante del sommergibile Berillo, il capitano delle armi navali Elios Toschi e il tenente di vascello Luigi Faggioni. Lo stesso Toschi racconterà la sua avventura nel libro autobiografico In fuga oltre l’Himalaya.
Milesi e Toschi erano due camerati che avevano già provato due volte a fuggire: prima da Geneifa e poi dalla stessa Yol, da dove erano riusciti a raggiungere Bombay sperando di trovare rifugio presso l’ambasciata giapponese. Ma l’alleato nipponico non si era fidato e aveva chiamato la polizia che li aveva arrestati davanti alla porta chiusa. Un altro loro folle tentativo era fallito sempre a Yol (avevano allestito una rudimentale mongolfiera che però non si sollevava da terra). Finalmente i due, a cui si era unito il Faggioni, scapparono il 18 Aprile 1942 grazie a tre complici che, all’appello, si fecero contare due volte. Il loro progetto era superare la catena himalayana, raggiungere l’Afghanistan e da lì la Turchia.
Travestiti da indiani e impratichiti del dialetto urdu, i tre fuggiaschi vissero un paio di mesi insieme ai pastori del luogo, dormendo in luride capanne e mangiando ranocchie. Ma il capo pastore non tardò a scoprire che si trattava di militari ricercati dagli inglesi e, per tacere, impose loro un singolare ricatto: avrebbero dovuto compilare per lui una <<lettera di presentazione>> da poter esibire ai giapponesi quando questi avrebbero liberato l’India dalla dominazione britannica. Fu accontentato.
Nell’attesa che il disgelo aprisse il valico montano, i tre discussero e forse litigarono per divergenze d’opinioni. Milesi, infatti, decise di lasciare i compagni per dirigersi da solo verso Goa, la colonia portoghese neutrale. Gli altri due proseguirono il viaggio verso la Turchia, accompagnati da una guida indiana. Alla fine di giugno, sopraggiunto il disgelo, superarono stremati un valico a 5100 metri d’altezza. Ora, davanti a loro, i colossi dell’Himalaya, stretti attorno al leggendario Tibet, si stendevano a perdita d’occhio, ma di certo non era il caso di ammirare il panorama. Ripreso il cammino, giunsero in un villaggio abitato da indù e musulmani e qui scoppiò un disastro imprevisto. L’indù che li ospitava scoprì che le scatolette con cui si cibavano i due italiani e di cui lui stesso si era cibato contenevano carne di vacca, e per lui era un sacrilegio. Gli sforzi del Faggioni per convincerlo del fatto che si trattava di una <<mucca occidentale>> -che non aveva corna e che non dava latte- si rivelarono inutili e i due furono cacciati di casa. Nel villaggio, come detto, vivevano anche i musulmani, i quali vennero in aiuto dei due forestieri credendo si trattasse di <<fratelli dell’Islam>>. Tuttavia la faccenda si fece più complicata quando pure questi scoprirono che non si trattava di correligionari ma di cristiani.
Infine, non solo la guida indù, per non compromettersi, se l’era data a gambe, ma anche i musulmani erano nel frattempo venuti a sapere che si trattava di fuggiaschi ricercati e che sopra di loro pendeva una taglia di cinquanta rupie: qualcuno chiamò la polizia e Toschi e Faggioni dovettero vedersela con un ispettore che li arrestò e li rispedì a Yol.
Dopo la lunga assenza, i due rientrarono tristi ed avviliti al campo, ma i compagni avevano in serbo per loro una sorpresa. In Italia, lo spezzino Luigi Faggioni era stato decorato di medaglia d’oro alla memoria per un’impresa da lui compiuta il 26 marzo 1941 a Suda, nell’isola di Creta, dove aveva affondato un incrociatore britannico avventandosi contro di esso con un barchino esplosivo <74.
74 ARRIGO PETACCO, Quelli che dissero no. 8 Settembre 1943: la scelta degli italiani nei campi di prigionia inglesi e americani, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 2011, pp. 118-119
Maria Sofia Rebessi, Il ruolo dell’India nell’Asse. Simboli, uomini e donne nel secondo conflitto mondiale, Tesi di Laurea, Università di Pisa, Anno accademico 2015-2016
Durante la Seconda guerra mondiale, 70.000 prigionieri di guerra italiani, dopo esseri passati nei campi di concentramento dell’Egitto, della Palestina, dall’Africa Orientale e perfino della Grecia, furono inviati nell’India Britannica. Tra il 1941 ed il 1944, moltissimi furono i tentativi di fuga dei nostri militari, ma solo sette ebbero successo. I nomi dei protagonisti di quelle evasioni, a distanza di oltre settant’anni, dicono poco ad un pubblico profano: Giovanni Bellassai, Alfonso Bucciarelli, Edmondo Anderlini, Luigi Gia, Camillo Milesi Ferretti, Elios Toschi e il Sottotenente Anastasio, le cui fughe si conclusero tutte nei possedimenti portoghesi di Goa, Damao e Diu. Rimpatriarono solo alla fine della guerra, qualcuno addirittura nel 1947.
Solo due fuggiaschi sono ancora ricordati: Toschi, per l’invenzione dei Siluri a Lenta Corsa (i famosi “maiali”), fatta assieme a Teseo Tesi, ed il libro “Ninth Time Lucky”, tradotto poi in italiano con il titolo “In fuga oltre l’Himalaya”, e Milesi Ferretti, per “20.000 Rupie di taglia”.
Uno dei sette è sempre rimasto senza cognome, solo e semplicemente “Sottotenente Anastasio”, il partner di Toschi nell’ultima, lunga e riuscita fuga verso Diu.
Prendendo spunto dalla ricostruzione delle ricerche svolte assieme agli amici Franco Diella e Italo Riera, anch’essi parenti di un Prisoner of War di Bairagarh (Bhopal) per dare finalmente un nome al S. Ten. Anastasio, vogliamo ricordare la lunga prigionia dei figli d’Italia nei campi del British Raj, dove, tra il 1940 e il 1946, furono internati o transitarono ben 68.320 militari e 1.292 civili. Dall’India, 588 di loro non sono più tornati.
Il Capitano del Genio Navale Elios Toschi, nel suo libro, cita il compagno di fuga per nome di battesimo e scrive solo “Anastasio” o “Sottotenente Anastasio”, dimostrando in questo una buona dose di egocentrismo. Aggiunge però qualche informazione utile allo scopo che ci siamo prefissi e che abbiamo utilizzato per iniziare la nostra ricerca.
Dopo la fuga fallita del 18 aprile 1942, fatta con il T.V. Luigi Faggioni, violatore della Baia di Suda (M.O.V.M.), l’indomito Capitano del G.N. si mise alla ricerca di un nuovo compagno d’avventura.
Scrive Toschi: “Mi ricordo di un giovane ufficiale, un sottotenente, Anastasio, intraprendete ed avventuroso, che era nel mio stesso campo a Ramgarh e che, oltre a possedere qualità fisiche non comuni, conosce molto bene la lingua indiana ed ha certo una buona esperienza in fatto di fughe, essendo già fuggito altre cinque volte in differenti circostanze. Quando eravamo a Ramgarh l’ho conosciuto abbastanza bene e sono certo che potrà essere un buon compagno di fuga”.
Quindi Anastasio parlava bene l’urdu ed aveva delle ottime doti atletiche.
Aggiunge poi l’Ufficiale di Marina che il Sottotenente era nel pieno vigore dei suoi 23 anni, era diplomato alla Farnesina e aveva già fatto una precedente fuga da Yol (la sesta).
Di recente Anastasio è stato ricordato da Valeria Isacchini in “Fughe. Dall’India all’Africa le rocambolesche evasioni dei prigionieri italiani”. L’Autrice, basandosi sulla “Relazione del T.V. Camillo Milesi Ferretti”, depositata all’Archivio di Stato di Ancona tra il materiale documentario definito “Archivio Milesi Ferretti de Foras”, dice che Anastasio era un ufficiale dei granatieri, ma lo lascia sempre senza cognome. Questo fatto ci ha lasciato abbastanza perplessi perché nelle prime operazioni in Marmarica non vi erano unità dei Granatieri di Sardegna e i Granatieri di Savoia erano in Africa Orientale. I prigionieri dell’Eritrea e dell’Etiopia iniziarono però ad arrivare in India dal maggio 1941 e non furono inviati a Ramgarh.
Arrigo Petacco, nel suo recente “Quelli che dissero no”, lo identifica addirittura con il S.T.V. Mario Anastasi, senza aggiungere dettagli sulla ricerca né prove documentali.
In effetti alcuni Autori, come Fra’ Ginepro da Pompeiana (al secolo Antonio Conio), nei loro memoriali chiamano il compagno di Toschi: Anastasi, senza nome di battesimo, e gli danno il record di sette fughe, a pari merito con il soldato Benedetto Runcio (POW n. 15544), che nel suo ultimo tentativo a Bangalore venne catturato addirittura vestito da prete.
Agli atti risultano Ufficiali della Regia Marina di cognome Anastasi, ma erano tutti di Stato Maggiore e Toschi avrebbe specificato nel dettaglio il grado, senza scrivere semplicemente “Sottotenente”. Non risultano poi Anastasi o Anastasio tra i piloti della R. Aeronautica, quindi, ed è questa la prima conclusione a cui siamo giunti, doveva essere un Ufficiale dell’Esercito.
Abbandoniamo a questo punto la ricostruzione della ricerca, per dare alcune notizie sui Campi per Prigionieri di Guerra (PdG) italiani dell’India, soprattutto per i tanti che non conoscono quella lontana vicenda, oramai dimenticata, e per ricordare, contrariamente a quello che fa la pubblicistica più recente, che non vi fu in India il solo Campo di Yol e che oltre ai 10.000 ufficiali prigionieri in Himalaya, altri 23.000 soldati italiani, sottufficiali e militari di truppa, passarono i cinque migliori anni della loro vita in India, anni senza vita e senza domani, relegati spesso in zone tropicali, lottando duramente per sconfiggere l’inedia e le malattie, per sopravvivere e tornare, inseguendo, entro file di reticolati e pali a forca, il fantasma della libertà.
[…] Alla fine di maggio [1941], in India, vi erano già 31.860 PdG italiani, distribuiti nei seguenti Gruppi Campi:
I – Bangalore (Jalahalli): Campi dal n. 1 al n. 8;
II – Bhopal (Bairagarh): Campi dal n. 9 al n. 16;
III – Ramgarh (Ramgarh Cantonment): Campi dal n. 17 al n. 20 (nel campo 17 furono internati anche civili tedeschi provenienti dalle Indie Olandesi, poi inviati a Dehra Dun).
[…] Nell’autunno del 1941 venne aperto il IV Gruppo Campi di Clement Town (Campi dal n. 21 al n. 24), con una capienza di 12.000 uomini, mentre veniva terminata a tempo di record (dall’aprile all’ottobre del 1941) la costruzione dei Campi del V Gruppo a Yol, nella Kangra Valley (campi 25, 26, 27 e 28), che dovevano ospitare metà dei 24.000 ufficiali italiani inizialmente destinati all’India.
A Dehradun aveva sede il VI Gruppo Campi, dove, dal marzo 1941, vennero rinchiusi i Generali dell’Esercito, dell’Aviazione e della Marina, catturati in Africa Settentrionale e Orientale, poi denominato Campo n. 29. Quasi tutti i Generali vennero trasferiti successivamente nel Military Wing del C.I.C. di Prem Nagar, assieme a 500 colonnelli. Il VI Gruppo Campi divenne allora quello di Bikaner, nel deserto del Thar, per i circa 1500 soldati giapponesi catturati nelle operazioni in Birmania e per oltre un centinaio di PdG italiani definiti “ribelli”, rinchiusi nel Campo 29/A.
Al 10 dicembre 1943, il Campo dei Generali ospitava in totale 551 ufficiali, compresi 52 Generali.
[…] Alla fine del 1944 i POW italiani in India rimasero solo 33.302, concentrati a Bairagarh e Yol.
Ma torniamo al “Sottotenente Anastasio” e alle nostre ricerche per identificarlo.
[…] Incrociando tutti i dati raccolti sembrerebbe che Pasqualino e Anastasio siano la stessa persona.
Parlavano l’urdu, erano degli atleti, avevano fatto sette fughe, erano arrivati a Ramgarh con i prigionieri di Sidi el Barrani, a Yol erano rinchiusi nel campo 25. Il brutto vezzo di molti memorialisti di utilizzare nomignoli o soprannomi al posto della esatta identità dei personaggi oppure di chiamarli solo per cognome, talora storpiandolo, ci ha indotto a pensare che Pasqualino si chiamasse in realtà Anastasi. Per molti era Anastasi, anche se senza nome.
[…] Non sappiamo altro e la storia finisce qui. Dello sconosciuto Sottotenente si sono perse le tracce, ma almeno ora ha nome e cognome: Pasqualino Anastasio.
Dario Spaccapeli, Franco Diella e Italo Riera, A zonzo per i campi di prigionia dell’India. Chi era il sottotenente Anastasio?, Rassegna della ANRP (Associazione Nazionale Reduci dalla Prigionia, dall’Internamento, dalla Guerra di Liberazione e loro familiari), N. 5-6, Maggio-Giugno 2012