Il capitale straniero, nella fattispecie inglese e belga, fu il protagonista indiscusso della
stagione del boom tramviario fra gli anni Ottanta e la fine del XIX secolo

La prima precisazione che occorre fare, tutt’altro che facile, è chiarire di che cosa si stia parlando quando si accenna a una “ferrovia secondaria” o a una “tramvia”, e in realtà si tratta di un problema che non solo non ha facilitato il compito di chi, come gli storici, ha dovuto fare chiarezza a posteriori, ma che ha creato grande confusione e polemiche anche fra i protagonisti coevi agli eventi tanto in campo tecnico quanto in campo normativo. Del resto, a parte i casi di tramvie extraurbane a trazione animale <32, si trattava tecnologicamente di due sistemi pressoché identici, ossia di binari su cui viaggiava una locomotiva a vapore (che poi in alcuni casi evolverà in elettrica) che aveva al seguito un certo numero di vagoni passeggeri o merci. Non era un caso che nel dicembre del 1881 l’allora ministro dei lavori pubblici, Alfredo Baccarini, così si esprimesse nel merito della questione:
“Ormai l’amministrazione non sa più come difendersi contro l’improvvisazione di strade che non si sa se siano tramvie o vere ferrovie. Noi vediamo costruire, per iniziativa dei Comuni o delle Province, delle tramvie parallele a brevissima distanza dalle strade ferrate esistenti e l’autorità centrale non ha diritto d’impedire al municipio e alla provincia che stenda righe di ferro come stende ghiaia sopra il suolo. Da ciò è facile indurre quanto sarebbe opportuno che legislativamente fosse ormai stabilito quali sono le distanze a cui possono costruirsi queste ferrovie mascherate” <33.
D’altra parte due anni prima l’onorevole Federico Gabelli, come riporta Claudia Negrello, aveva confessato che in venticinque anni “di attività professionale nelle ferrovie non era ancora riuscito a comprendere per quali ragioni una tramvia non fosse una ferrovia e viceversa, il che lo portava a concludere che il tramway altro non era che ‘una ferrovia ordinaria sottratta alla legge sui lavori pubblici’” <34.
In effetti l’unica legge che per lungo tempo aveva regolato la costruzione delle strade ferrate in Italia, ossia la legge sulle opere pubbliche del 1865 <35, non faceva cenno alcuno all’esistenza delle tramvie – né peraltro a quella delle ferrovie secondarie –, ma prevedeva unicamente una distinzione tra ferrovie pubbliche e ferrovie private. Fu soltanto con la “legge Baccarini”, del luglio del 1879 <36, che venne introdotto il concetto di ferrovie complementari, divise in quattro categorie di cui l’ultima era rappresentata, appunto, dalle ferrovie secondarie. Di queste tuttavia non si specificavano le caratteristiche tecniche, ma si diceva che “potevano essere costruite purché le Province e i Comuni interessati ne provassero l’utilità e si impegnassero nelle spese”37. In tale caos normativo, all’interno del quale era naturalmente facile ricavare gli spazi per esercitare quell’attitudine all’uso clientelare o speculativo delle
opere infrastrutturali a cui si è fatto più volte cenno nel paragrafo precedente <38, si sviluppò quella parte della rete di strade ferrate che non rientrava nel novero dei grandi collegamenti nazionali, ma che avrebbe dovuto colmare le lacune infrastrutturali delle zone non ancora toccate dal progresso ferroviario. Specialmente le tramvie, dunque, il cui nome non compariva in alcuna legge del parlamento, vennero autorizzate di volta in volta mediante singoli decreti regi, mentre dal canto suo il Ministero dei lavori pubblici, “oltre alla predisposizione di una serie di disegni di legge che mai raggiunsero la discussione parlamentare, si preoccupò soprattutto di emanare una lunga serie di circolari che prescrivevano particolari provvedimenti per la sicurezza delle cose e delle persone trasportate” <39, provvedimenti che, fra l’altro, contribuirono ad arginare il potenziale delle tramvie imponendo diverse limitazioni che rendevano nel complesso più oneroso l’esercizio <40.
Fu solo con la legge 27 dicembre 1896, n. 561, quando la rete tramviaria a vapore in Italia era già da un decennio la più estesa d’Europa <41, che le linee tramviarie trovarono una loro prima sistemazione normativa. In quell’occasione le tramvie vennero quindi finalmente e formalmente distinte dalle ferrovie, sulla base del principio per cui dovevano “avere la loro sede su strade ordinarie, salvo i casi in cui sia riconosciuta opportuna, in brevi tratti del percorso, qualche parziale deviazione” <42, mentre le ferrovie (quelle che in questo caso venivano definite “economiche”) dovevano svolgere al contrario la maggior parte del proprio percorso su sede propria <43. Nel 1906 venne invece finalmente promulgata una legge che faceva una distinzione leggermente più chiara, dopo un trentennio di dibattiti tecnici e parlamentari, tra ferrovie principali e ferrovie secondarie, a cui quelle “economiche” vennero accorpate. Principali erano quelle linee che risultavano di particolare importanza in base ai seguenti criteri: “L’estensione attraverso il Regno; l’entità di traffico; il congiungimento di centri notevoli di popolazione fra loro, ovvero con importanti porti marittimi, lacuali o fluviali; l’allacciamento a ferrovie estere; le considerazioni d’indole militare”. Secondarie, recitava sempre la legge, erano “tutte le altre”, che potevano anche essere impiantate su strade ordinarie, ma, diversamente dalle tramvie, occorreva che la sede fosse comunque debitamente separata da quella dedicata al normale carreggio tramite siepi, muretti, “stecconati” e così via” <44.
Se a livello legislativo quindi la distinzione fra tramvie e ferrovie riguardava principalmente la sede su cui si svolgeva il servizio, pure esistevano altre differenze non tanto di natura tecnica (una ferrovia ad “esercizio economico” <45 – sistema a dire il vero non molto diffuso in Italia – era allora gestita sostanzialmente con lo stesso materiale rotabile di una tramvia, con la differenza che la prima aveva talvolta lo scartamento ridotto, mentre la seconda lo aveva normalmente ordinario), quanto di qualità del servizio offerto:
“Le tramvie hanno in massima parte obiettivi puramente locali, senza norme fisse ed estese come per le ferrovie, ma rimpiazzano col loro servizio le vetture ordinarie. Il tramways si arresta ad ogni richiesta del viaggiatore, non vi sono biglietti di trasporto per i quali si acquisti il diritto di transito, ma semplici contromarche per constatare il pagamento fatto al conduttore, del posto occupato, quando questo sia disponibile. Anche il servizio merci è molto semplificato rispetto a quello delle ferrovie, liberando così il mittente da ispezioni e pratiche noiose. Mancando quasi in Italia le ferrovie economiche di interesse locale, dobbiamo convenire che le tramvie sono qui ritenute come la vera espressione del trasporto e delle ferrovie a buon mercato” <46.
Un altro contemporaneo così si esprimeva in merito alla qualità del servizio tramviario:
“La vicinanza ai paesi che per la maggior parte ne sono attraversati, la facilità di costruire diramazioni al servizio di opifici, il maggior numero delle fermate e delle corse, la stessa confidenza che gli abitanti prendono ai convogli incontrandoli sulle strade e vedendoli passare davanti alle loro case, l’assenza di formalità ed il conseguente risparmio di tempo nella consegna e nel ritiro delle merci, come nell’acquisto dei biglietti, tutto contribuisce a che il movimento locale si riversi totalmente sulle tramvie” <47.
Le linee tramviarie extraurbane, nell’opinione di molti esperti dell’epoca sembravano dunque sostituire, grazie alla loro economia e “snellezza” di esercizio, il servizio economico che in altre aree d’Europa veniva attuato sulle stesse linee ferroviarie, principali o secondarie che fossero, assecondando così i traffici di natura locale e svolgendo una funzione potenzialmente attiva nella stimolazione alla mobilità di persone e di merci delle aree attraversate, funzione a cui le grandi reti ferroviarie avevano sostanzialmente abdicato a causa sia delle tariffe eccessivamente elevate sia di un servizio strutturato unicamente per unire fra loro i grandi centri urbani del paese, attraversando, senza modificarle se non nel paesaggio, le aree rurali e i loro abitati. Così come per la questione ferroviaria, tuttavia, anche per le tramvie si può dire che “di fronte all’impianto di linee collocate in coincidenza con aree in via di prima urbanizzazione e, quindi, di sicura redditività, si moltiplicarono linee del tutto prive di un reale bacino di utenza, sperdute su desolate strade di campagna e come tali destinate ad essere in breve tempo smantellate” <48.
Se questo era vero per il caso lombardo, studiato da Albano Marcarini, alla medesima conclusione è giunta anche Claudia Negrello nel suo saggio sulla provincia di Vicenza. Nella sua interpretazione, infatti, il programma di sviluppo tramviario di quell’area presentava un non trascurabile difetto di fondo: “L’inesistenza di una qualsiasi programmazione di sviluppo di questo trasporto che tenesse conto di quelli che oggi chiameremmo un reale bacino di utenza ed una effettiva domanda di trasporto” <49.
Anche per il caso tramviario, quindi, si potrebbe dire quanto Fenoaltea ha detto per la ferrovia, ossia che esisteva uno smaccato interesse più per la costruzione che per l’uso di queste infrastrutture, e l’interesse era naturalmente legato all’occasione speculativa della fase d’impianto.
Il capitale straniero, nella fattispecie inglese e belga, fu il protagonista indiscusso della stagione del boom tramviario fra gli anni Ottanta e la fine del XIX secolo <50 e le società costituite ad hoc non esitarono a sfruttare ogni possibile occasione di profitto, finendo a volte per trascurare la funzione stessa del servizio o addirittura recedendo dal contratto di concessione prima di incappare in inevitabili perdite di esercizio. Così commentava un contemporaneo la situazione delle linee tramviarie del Lodigiano nel 1908:
“C’è voluto un pezzo che le autorità locali alle quali è segnato il preciso compito di tutelare gli interessi superiori si accorgessero che le tramvie a vapore delle Interprovinciali erano esercitate con metodi e con risultati semplicemente scandalosi e vergognosi e con l’unico intento di esercitare uno sfruttamento ignobile degli interessi del paese a pro di sordidi capitalisti, pressoché tutti stranieri, rappresentati da consigli d’amministrazione ancora più gretti e sordi ad ogni idea di progresso o di miglioramento civile. Materiale scadente e logoro, linee con armamenti deficienti e pericolosi, personale pagato con stipendi da fame, trascuranza di ogni più elementare previdenza di impianti: ecco le caratteristiche di questi esercizi tramviari” <51.
D’altronde occorre precisare che quest’attitudine speculativa sulla fase d’impianto dei trasporti su rotaia non era appannaggio esclusivo dell’Italia. Lo studioso americano John Mc Kay, per esempio, ha rilevato nella sua opera sulla storia tramviaria come anche in Francia e in altre nazioni d’Europa gli imprenditori tendessero a gonfiare le previsioni di spesa sugli impianti in modo da ottenere più ampi margini di profitto grazie ai sussidi pubblici: “Perhaps more important in the initial considerations of the typical entrepreneur, who was often a general contractor, was the prospect of the normal inflated profits which he might derive from laying track and providing equipment” <52.
Pur quindi considerando debitamente tutti gli aspetti del problema relativo alla costruzione della rete ferroviaria secondaria e di quella tramviaria, non si può non notare che, indipendentemente da quale fosse stata la spinta ad agire da parte dei governi da un lato e del capitale privato dall’altro, queste reti di trasporto furono fondamentali per mirare all’obiettivo di estendere gli effetti della rivoluzione dei trasporti alle zone rurali del paese e ai circondari delle grandi città: negli anni Ottanta e Novanta dell’Ottocento non esistevano alternative valide alla strada ferrata per ottenere trasporti più veloci ed economici del tradizionale e millenario trasporto someggiato o a trazione animale, e le ferrovie secondarie, ma soprattutto le tramvie, permettevano di farlo a costi in ogni caso più contenuti rispetto a quelli di una linea ferroviaria vera e propria <53.
Nel 1887 le linee ferroviarie minori esercitate da compagnie private contavano 1.326 km di rete, mentre nel 1905 l’estensione complessiva era salita a 3.419 km (dei quali 2.061 erano a scartamento ordinario e 1.358 a scartamento ridotto) e, fra le varie funzioni, assolvevano anche alla stimolazione dei primi flussi turistici diretti verso le aree montane e collinari del paese <54.
Quanto alle tramvie extraurbane, nel 1904 erano attivi 3.087 km di binari <55, concentrati soprattutto attorno ai grandi centri urbani centrosettentrionali come Milano, Torino, Bologna: “All’inizio del Novecento – scrive Patrizia Battilani – il sistema tramviario svolgeva un ruolo di primo piano nella mobilità collettiva nelle aree del paese più densamente popolate” <56. Anche secondo Stefano Maggi, effettivamente, le linee tramviarie svolsero la loro principale funzione nelle aree più ricche ed economicamente avanzate della penisola, aree caratterizzate “da un intenso interscambio tra centri vicini, nonché tra i paesi agricoli e le città sulle quali questi gravitavano” <57, favorendo inoltre i flussi pendolari fra le città industriali e il loro circondario o addirittura stimolando, grazie alla vantaggiosa offerta tariffaria, l’escursionismo “fuori porta” di una popolazione di ceto medio che non poteva avere accesso al privilegio del trasporto privato <58, allora ovviamente appannaggio esclusivo di una ristretta élite. Allo stesso tempo “le ferrovie secondarie, finanziate in misura preponderante dallo Stato, si estesero dalle zone più ricche a quelle marginali, fino a creare delle vere e proprie reti a scartamento ridotto in regioni povere come la Basilicata, la Calabria, la Sicilia e la Sardegna” <59.
Per tutte le ragioni fin qui discusse e sotto la spinta di innumerevoli “comitati promotori” locali <60, queste reti di trasporto “economiche” crebbero a un ritmo galoppante durante l’ultimo ventennio del XIX secolo, quando in Italia cominciava a maturare quel cambiamento che sul lungo periodo avrebbe condotto il paese a far parte del ristretto circolo delle nazioni industrializzate.
E a questo circolo, occorre specificarlo, non si poteva aspirare di appartenere se non dotandosi di un’efficiente e capillare rete di trasporto pubblico, sebbene caratterizzata dalle numerose contraddizioni che abbiamo rilevato e realizzata per certi versi in anticipo sull’effettiva dinamica della domanda di trasporto. L’imprevedibilità che spesso caratterizza i processi di innovazione tecnologica, fra l’altro, celava ancora agli occhi dei governi, a quelli degli esperti e della popolazione stessa che da lì a poco sarebbe stato maturo e pronto all’immissione sul mercato un modo di trasporto a dire il vero non del tutto nuovo, ma reso finalmente efficiente da una serie di innovazioni e che avrebbe consentito in breve tempo di ottenere ulteriori economie nei costi di impianto, adattandosi quindi anche meglio di tramvie e ferrovie secondarie all’esigenza di fornire mobilità alle aree meno densamente popolate del paese. Scriveva l’imprenditore viterbese Guido Ancillotti nel 1912:
“Non vi è quindi niente di più adatto che l’automobile per dare incremento al piccolo commercio, facilitare le comunicazioni con le ferrovie, portare il progresso, il benessere in tante nostre vallate secondarie, in tanti remoti paeselli di montagna, mettere in comunicazione una vallata coll’altra, una linea ferroviaria con altra parallela, ravvicinare la montagna alla pianura, i centri minori ai maggiori, la terra al mare, far conoscere al forestiero tante nostre naturali bellezze, tanti tesori d’arte, tante reliquie della nostra gloriosa antichità” <61.
[NOTE]
32 “Il primo tram a cavalli urbano venne inaugurato nel 1872 a Torino e per i tronchi extraurbani nel 1876 tra Milano e Monza, mentre la diffusione delle tramvie a vapore fu avviata nel 1878 dalla Milano-Vaprio d’Adda e dalla Cuneo-Borgo San Dalmazzo. Alla fine del 1879 erano in esercizio nella penisola 29 linee lunghe complessivamente 515 km: su 17 linee, dette ‘pirotramvie’, usava la locomotiva, mentre le altre erano a cavalli” (S. Maggi, Infrastrutture e territorio…, cit., p. 385). Si consideri in ogni caso che per il trasporto extraurbano su rotaie la trazione animale venne rapidamente abbandonata, mentre sopravvisse in ambito urbano fino alla sua sostituzione con la trazione elettrica nei primi anni del Novecento.
33 Cit. in S. Maggi, Infrastrutture e territorio…, cit., p. 387. Corsivo nostro.
34 C. Negrello, Lo sviluppo della rete tramviaria…, cit., p. 161.
35 Legge 20 marzo 1865, n. 2248.
36 Legge 29 luglio 1879, n. 5002.
37 S. Maggi, Infrastrutture e territorio…, cit., p. 382.
38 Le pressioni durante la discussione sulla legge 29 luglio 1979 furono tali, riporta Maggi, che “Agostino Depretis, temendo che l’intero progetto andasse perduto se non si accontentavano tutte le richieste locali, escogitò uno stratagemma, quello appunto di prevedere un certo numero di chilometri di ferrovie non precisati a priori […], in modo da dare la speranza ai vari deputati di includere in questa quantità le loro linee” (Ibidem).
39 A. Marcarini, Nascita e sviluppo delle linee tramviarie…, cit., p. 15.
40 “Il tram a vapore Milano-Magenta, per esempio, aveva il macchinista, il fuochista, il capotreno e due conduttori, cioè più o meno lo stesso personale di un treno a lungo percorso; inoltre era presente un casellante a ogni intersezione stradale. […] La velocità massima consentita era di 20 km/h, aumentabili a 30 km/h se il tram era dotato di freno continuo” (S. Maggi, Infrastrutture e territorio…, cit., p. 389).
41 Nel 1886 l’Italia aveva una rete tramviaria a vapore che misurava 2.170 km di binari contro i 1.419 della Gran Bretagna e gli 843 della Germania. P. Hertner, Municipalizzazione e capitale straniero nell’età giolittiana, in A. Berselli, F. Della Peruta, A. Varni (a cura di), La municipalizzazione in area padana. Storia ed esperienze a confronto, Milano, FrancoAngeli, 1988, p. 59.
42 Legge 27 dicembre 1896, n. 561, art. 2.
43 A. Lupidi, Le imprese tranviarie, Torino, Utet, 1927, p. 5.
44 Legge 30 giugno 1906, n. 272.
45 Per esercizio economico si intendeva un servizio effettuato con materiale rotabile più leggero su linee a scarso traffico e che grazie alla riduzione dei costi, derivata anche da ristrutturazioni di carattere organizzativo, potesse essere immesso sul mercato a tariffe più basse: “L’ideale di un ben inteso servizio economico su una qualsiasi linea a scarso traffico – scriveva l’ingegnere Ugo Baldini nel 1906 – è di poter effettuare molti treni leggeri per i viaggiatori, e pochi pesanti per le merci” (U. Baldini, Automobili stradali e ferroviarie…, cit., p. 219).
46 A. Galimberti, Tramvie e ferrovie speciali, Torino, Utet, 1907, cit. in A. Marcarini, Nascita e sviluppo delle linee tramviarie…, cit. p. 5.
47 A. Vappiani, La costruzione e l’esercizio delle tramvie, Torino, Camilla e Bertolero, 1893, p. 163.
48 A. Marcarini, Nascita e sviluppo delle linee tramviarie…, cit., p. 19.
49 C. Negrello, Lo sviluppo della rete tramviaria…, cit., p. 173.
50 Secondo Peter Hertner il capitale straniero nel 1886 controllava il 71% delle linee tranviarie (la percentuale è calcolata sulla lunghezza della rete) costruite in Italia nel decennio precedente: “Il 92% di questi investimenti provenivano dal Belgio, il rimanente, in parti quasi uguali, dalla Gran Bretagna e dalla Germania”. Sebbene dopo questa data la percentuale del capitale straniero diminuisse progressivamente, pure mantenne una parte di primo piano nel settore: “Nel 1897 solo il 62% della rete tramviaria italiana era controllata dal capitale straniero; la quota belga […] pur diminuendo restava dell’88%” (P. Hertner, Municipalizzazione e capitale straniero…, cit., pp. 59-60).
51 A. Manfredini, “Monitore Tecnico”, 30 aprile 1908, cit. in A. Marcarini, Nascita e sviluppo delle linee tramviarie…, cit., p. 19.
52 J.P. McKay, Tramways and trolley: the rise of urban mass transport in Europe, New Jersey, Princeton University Press, 1976, pp. 20-21.
53 Come ha notato Gabriele Bezzi considerando il caso bolognese, “le tramvie, correndo di massima su strade già esistenti, vengono ad incidere in misura molto minore delle ferrovie a sede propria sull’organizzazione dello spazio rurale, cioè lo coinvolgono in misura molto ridotta con espropri di proprietà private e loro eventuali alterazioni: questo comporta minori spese d’impianto e non intacca gli interessi agrari” (G. Bezzi, La costruzione della rete tramviaria…, cit., p. 15).
54 S. Maggi, Infrastrutture e territorio…, cit., p. 379-380.
55 P. Battilani, Limiti e vantaggi della mano pubblica…, cit., p. 15.
56 Ibidem, p. 14.
57 S. Maggi, Infrastrutture e territorio…, cit., p. 390.
58 Scriveva per esempio Giovanni Verga nella novella Il canarino del n. 15, compresa nella raccolta di novelle d’ambientazione milanese Per le vie e pubblicata per la prima volta nel 1883: “Al san Giorgio, com’era tornato il bel tempo, la giornalista lì accanto ed altri vicini progettarono una gita in campagna. Il Carlini, che s’era fatto di casa, fu della partita anche lui. La sera scesero dal tramvai tutti brilli, e portando delle manciate di margheritine e di fiori di campo” (G. Verga, Per le vie, Milano, Treves, 1883, p. 61).
59 Ibidem. Sul caso calabrese si veda F. Trapasso, La rete ferroviaria a scartamento ridotto in Calabria dalla nascita ai primi anni di esercizio (1910-1936), in “Ricerche storiche”, a. XXXVII, n. 3, pp. 627-643, nonché C.G. Severino, Ferrovia e territorio in Calabria: la “calabro-lucana” in rapporto alla città di Crotone (1910-1930), in “Storia Urbana”, n. 43, 1988, pp. 165-187.
60 Nei saggi citati si riscontrano numerose iniziative locali, spesso volute da industriali e altri membri della classe dirigente, per la sensibilizzazione della popolazione da un lato e per le pressioni sulle amministrazioni locali e sul governo dall’altro al fine di ottenere la realizzazione di ferrovie secondarie e tramvie. Scrive Claudia Negrello: “In genere era il sindaco di uno dei comuni interessati alla costruzione tramviaria che indiceva una riunione, invitando i più illustri rappresentanti del luogo: ad esempio gli industriali, quali probabili finanziatori, e, immancabilmente, un uomo politico che veniva nominato in quell’occasione presidente dell’assemblea” (C. Negrello, Lo sviluppo della rete tramviaria…, cit., p. 174). Inutile dire che, per il vicentino, il principale sponsor e animatore dei comitati locali era Alessandro Rossi, il quale fu anche autore, insieme ai figli, di alcune pubblicazioni sul tema (A. Rossi, Studi di una ferrovia economica tra Vicenza-Thiene-Schio, Padova, Prosperini, 1872; F.lli Rossi, Progetto di una ferrovia economica fra Schio-Piovene-Arsiero, Schio, Marin, 1880). Particolarmente esemplare è la composizione del “Comitato Promotore delle Tramvie a Vapore” di Bologna che, come ci ricorda Bezzi, era “presieduto dal conte Francesco Isolani, deputato al Parlamento, e formato da numerosi notabili bolognesi fra cui membri dei consigli comunale e provinciale di Bologna, altri tre parlamentari […] ed elementi legati alle banche locali […], che si trovavano concordi su questo progetto anche al di là di diversi schieramenti parlamentari” (G. Bezzi, La costruzione della rete tramviaria…, cit., p. 10).
61 G. Ancillotti, I servizi pubblici automobilistici. Guida pratica, Viterbo, 1912, p. 12.
Fabio Berio, Omnibus. Origini e primi sviluppi delle autolinee extraurbane in Italia (1895-1929), Tesi di dottorato, Università degli Studi di Milano, Anno Accademico 2010/2011