I fascisti erano quindi a conoscenza dello sciopero generale e dell’avvenuta saldatura fra lotte sociali e lotta armata

Il primo inverno di guerra si chiuse con lo sciopero del marzo 1944 che coinvolse centinaia di migliaia di lavoratori delle zone occupate. Fu una prova di forza iniziata nel novembre precedente e che trasse origine dalle durissime condizioni di vita degli operai e dei contadini, ma che nel corso del tempo superò l’ambito rivendicativo per assumere un carattere dichiaratamente politico. Lo sciopero diventava una forma di lotta contro il nazifascismo. Si partiva dalle “rivendicazioni economiche, facendo leva sulle condizioni materiali via via insostenibili, per portare la maggioranza dei lavoratori a sfidare l’ordine e gli organismi repressivi del regime fascista e dei tedeschi occupanti, direttamente interessati al miglior sfruttamento dell’apparato industriale italiano e quindi particolarmente sensibili a quanto accade nelle fabbriche” <187. L’efficacia di una vasta azione di massa delle classi lavoratrici sarebbe ulteriormente aumentata se si fosse saldata alla lotta dei partigiani. Fu quella la novità delle agitazioni che si protrassero dal 1° all’8 marzo del 1944 e che il Partito comunista aveva portato avanti con grande decisione.
L’organizzazione dello sciopero generale risaliva al gennaio del 1944, quando la direzione per l’alta Italia del Pci aveva deciso di avviare immediatamente la preparazione di uno sciopero di vaste proporzioni, costituendo a tal fine un comitato di agitazione per il Piemonte, la Lombardia e la Liguria. L’iniziativa comunista fu discussa con gli altri partiti del Clnai, ed in particolare con il Partito socialista ed il Partito d’Azione. La creazione di un moto così ampio richiese molto tempo. Seguirono settimane d’intensa attività politica ed organizzativa per mobilitare al massimo grado le forze operaie e per coordinare l’intervento delle formazioni partigiane e dei Gap, non solo nelle regioni del triangolo industriale ma anche nel Veneto, in Toscana e in Emilia. La data d’inizio dello sciopero venne fissata per il 1° marzo <188.
La preparazione dello sciopero però non passò inosservata. Al fascismo non mancavano le “fonti fiduciarie” disposte a fornire notizie alla polizia fascista. Un notiziario della Gnr del 1° marzo recitava: “fonti fiduciarie hanno riferito che nella giornata di oggi – 1° marzo – in Torino dovrebbe essere proclamato lo sciopero generale da parte dei metallurgici e degli addetti dei servizi pubblici. Lo sciopero, che verrebbe giustificato da motivi economici, in realtà avrebbe invece carattere politico e verrebbe effettuato di concerto con il movimento dei ribelli. Sono state adottate le necessarie misure di sicurezza d’intesa con la Prefettura. Autorità germaniche locali informate” <189.
I fascisti erano quindi a conoscenza dello sciopero generale e dell’avvenuta saldatura fra lotte sociali e lotta armata. Inoltre lo sciopero prospettava il fallimento sul nascere della socializzazione della gestione delle imprese che proprio in quel periodo il governo di Salò stava preparando (il decreto legislativo sulla socializzazione fu approvato il 12 febbraio).
L’intento della socializzazione era di fornire agli operai la prova della vocazione anticapitalista del nuovo governo fascista, e della sua volontà di riscossa nei confronti di quella borghesia che proprio il fascismo aveva legittimato alla guida del paese in quanto espressione di chi produceva e creava ricchezza per far grande la nazione <190. Le masse operaie accolsero con assoluta indifferenza il progetto di socializzazione fascista e il 1° marzo aderirono in massa allo sciopero che si concluse l’8 marzo. Ma se gli operai erano occupati da ben altri problemi, le critiche alla carta della socializzazione giungevano anche da parte industriale: “negli ambienti industriali e collegati, mancando una esatta definizione fra grande, media e piccola azienda, viene riscontrata nel provvedimento una forma di espoliazione a carattere comunista e si va insinuando da parte di pochi malintenzionati che nel caso in esame è più leale il comunismo che avoca alla stato tutti i beni a benefici dei lavoratori, mentre la nuova legge potrebbe favorire solo alcuni privilegiati” <191. In ultima analisi la legge sulla socializzazione finì per facilitare il compito di catalizzatore della protesta e dell’opposizione politica che le grandi imprese erano venute maturando nei confronti della Rsi.
A Torino, nonostante il 28 febbraio il capo fascista della provincia Zerbino, con una mossa preventiva, avesse comunicato la messa in ferie dei lavoratori delle fabbriche torinesi, ordinando quindi la chiusura degli stabilimenti, giustificando tale provvedimento con la mancanza di acqua e quindi di energia elettrica, dal provvedimento di chiusura fu escluso il complesso Fiat decisivo per le esigenze belliche, lo sciopero non venne sospeso. Seguendo l’appello del Comitato d’agitazione, diffuso nella fabbriche con un volantino clandestino (vedi Allegato A), il 1° marzo scioperarono in 60.000 <192. La sera di quella stessa giornata Zerbino ordinò la ripresa del lavoro per l’indomani, minacciando l’eventuale chiusura degli stabilimenti con perdita delle retribuzioni, arresti, deportazioni in campo di concentramento, licenziamento in tronco e perdita dell’esonero per i lavoratori che avevano l’obbligo del servizio militare. Nonostante quelle minacce il 2 marzo l’esempio degli operai Fiat in sciopero veniva seguito dalla stragrande maggioranza delle fabbriche in attività e scioperarono in 70.000 <193. Una cifra quest’ultima ridimensionata a 24.000 operai secondo il bollettino delle Gnr <194. Ma, al di là delle cifre, il dato incontestabile, sul quale convergono le indicazioni delle fonti fasciste e antifasciste, era che tutte le industrie più importanti torinesi scioperarono. Lo sciopero quindi da un punto di vista politico fu un successo. Il proletario con alla testa il Partito comunista e accanto la Resistenza armata (le azioni in appoggio condotte dai partigiani, anche se limitate, costituivano un salto qualitativo di notevoli proporzioni per il partito rispetto agli scioperi di novembre e di dicembre del 1943), dimostrava che le lotte sociali dei grandi centri industriali e delle campagne offrivano un contributo determinate all’espansione del movimento di liberazione; e che in quel ruolo il Partito comunista acquistava una posizione egemone, sia nel controllo e nella organizzazione delle brigate Garibaldi, sia grazie alla sua capacità di mobilitazione della classe operaia <195. Quel successo ebbe un risvolto immediato all’interno del Cln dove solo il Partito d’Azione aveva appoggiato e fiancheggiato le posizioni dei comunisti. Da allora, sul piano degli equilibri interni, il Pci poteva ribaltare sul Cln il peso delle lotte operaie e, utilizzando la forza che gli derivava dal fatto di essere stato dentro lo sciopero e alla testa della lotta antifascista, ampliare considerevolmente l’influenza sulle decisioni prese dal Comitato.
Intorno a Torino intervennero a sostegno degli scioperanti le formazioni partigiane.
[NOTE]
187 Peli, La Resistenza in Italia, cit., p. 63
188 Secchia e Frassati, Storia della Resistenza, cit., p. 472
189 Verdina e Bonomini (a cura di), Riservato a Mussolini, cit., p. 242
190 Paride Rugafiori, Imprenditori e manager nella storia d’Italia, Editori Laterza, Bari 1999, p. 50
191 Telegramma in copia del questore Rendina al capo della polizia, 17 gennaio 1944 in Claudio Dellavalle, Torino, in AA.VV., Operai e contadini nella crisi italiana del 1943-1944, Feltrinelli, Milano 1974, cit., p. 241
192 Battaglia, Storia della Resistenza italiana, p. 215; Cfr. Comitato torinese per le celebrazioni del 50.le della liberazione, Gli scioperi del marzo 1944, Stige, San Mauro 1994; Pietro Secchia, Lo sciopero generale del marzo 1944, in “La nostra lotta”, marzo 1944, n. 5-6, ripubblicato in Secchia, I comunisti e l’insurrezione, pp. 110-124
Marco Pollano, La 17a Brigata Garibaldi “Felice Cima”. Storia di una formazione partigiana, Tesi di laurea, Università degli Studi di Torino, Anno Accademico 2006-2007

Il 15 novembre 1943 si ha il primo sciopero generale sotto l’occupazione tedesca in tutte le officine metallurgiche di Torino. Ne seguiranno altri a Genova, a Milano ed in tante altre località durante l’inverno e sino alla fine della guerra di liberazione, sino all’insurrezione di aprile.
La Resistenza italiana, a differenza di quella di altri paesi, fu caratterizzata dall’intrecciarsi delle lotte delle masse operaie lavoratrici con le azioni militari dei partigiani. Le une sostenevano ed erano presupposto per lo sviluppo delle altre.
La lotta di classe fu elemento-forza, propulsore, che diede slancio allo sviluppo della lotta di liberazione nazionale. In ogni epoca la lotta nazionale ha sempre avuto un carattere di classe, ed in ogni periodo storico sono stati determinati uomini, determinate classi sociali che hanno rappresentato gli interessi della nazione.
Vi furono uomini e gruppi politici, anche in seno ai CLN, che avevano dei dubbi sulla possibilità di condurre con successo la lotta di liberazione nazionale se al tempo stesso i partiti dei lavoratori favorivano e davano impulso allo svilupparsi della lotta di classe, all’organizzazione degli scioperi e delle agitazioni nelle fabbriche e nei cantieri.
Al contrario noi comunisti pensavamo che era possibile dare una giusta impostazione ed imprimere slancio possente alla lotta di liberazione nazionale solo se al tempo stesso si portava avanti con forza la difesa degli interessi immediati, economici, sociali e quelli più generali delle classi lavoratrici. Non abbiamo mai accantonato (il che d’altronde sarebbe stato impossibile) né sottovalutato la lotta di classe: essa si esprimeva non soltanto nell’azione contro l’occupante tedesco, ma contro i grandi industriali “collaborazionisti” del nazifascismo. Questa fu la linea politica, l’indirizzo costante della direzione del PCI per l’Alta Italia, profondamente persuasi com’eravamo che gli interessi della classe operaia non erano in contrasto con quelli della nazione.
Tutti gli scioperi politici organizzati durante la Resistenza partivano ed avevano come base rivendicazioni economiche. Essi erano indirizzati contro i nazifascisti ed i grandi industriali “collaborazionisti”. La lotta per il pane, per il salario, contro lo sfruttamento, in difesa della dignità diventa al tempo stesso lotta nazionale per la cacciata dell’invasore tedesco e la sconfitta del fascismo. Gli operai ed i lavoratori erano stimolati all’azione dalle condizioni stesse della loro esistenza, ma a sua volta la spinta della lotta di classe muoveva e trascinava ogni giorno un numero sempre maggiore di uomini a partecipare alla lotta di liberazione.
Le rivendicazioni economiche erano messe avanti sia per “coprire”, per quanto possibile, gli scioperanti dalla reazione tedesco-fascista, sia perché esse toccavano tutti gli strati di lavoratori, da quelli che stavano all’avanguardia sino alla parte più arretrata, meno progredita, che non s’interessava di politica, ma voleva difendere il proprio diritto alla vita.
Sarebbe però un errore ritenere che, poiché alla base dell’agitazione e della propaganda per gli scioperi stavano le rivendicazioni economiche, gli operai fossero portati ad agire soltanto perché mossi da interessi economici.
Gran parte degli operai e dei lavoratori sapeva molto bene a quali rischi andava incontro scioperando e sabotando la produzione. Il terrorismo tedesco e fascista faceva sentire il suo peso ed esercitò la sua influenza, seppure in misura diversa, durante tutto il periodo della guerra di liberazione. Salario, cottimi, ore di lavoro, una maggior quantità di viveri e di combustibili erano cose importanti, ma non al punto di spingere la parte più avanzata dei lavoratori a mettere a repentaglio la vita, ad arrischiare la deportazione per ottenere un aumento di salario di poche lire od una razione in più di pessimo olio. Se ciò facevano è perché essi erano mossi non soltanto da necessità economiche ma da motivi ideali, sociali e nazionali, da profondi sentimenti di odio contro il fascismo, di amore per la libertà e l’indipendenza da conquistare; in molti casi era l’aspirazione al socialismo. Motivi economici, politici e ideali s’intrecciavano e fondevano in un’unica spinta, come tanti rivoli sfocianti in un grande fiume.
Il fatto che la classe operaia arrivasse ad esercitare la sua funzione dirigente nella lotta di liberazione nazionale partendo dalla difesa dei suoi interessi e delle sue aspirazioni dimostra come la lotta nazionale fosse cosa profondamente reale, inseparabile dalle condizioni stesse di esistenza dei lavoratori. Difendendo le proprie posizioni ed affermando se stessa, la classe operaia, alla testa dei lavoratori, affermava gli interessi del popolo e di tutta la nazione. Essa diede alla Resistenza italiana non solo uno slancio possente, un’impronta progressiva che la caratterizzano e la distinguono in modo più marcato da quella di altri paesi.
In Italia la Resistenza è stata antifascista, e più che altrove è stata lotta contro quei gruppi del grande capitale che avevano dato vita al fascismo, sostenuto la sua politica, portato il paese alle guerre di aggressione ed alla catastrofe. Pertanto più che altrove la Resistenza ha avuto un carattere di classe (è stata lotta nazionale e al tempo stesso lotta sociale), e per il suo contenuto e perché la classe operaia ne fu la principale forza dirigente.
E’ dalla classe operaia, dai partiti e dagli uomini che la rappresentavano che vennero le parole d’ordine più avanzate, le proposte, le indicazioni e le soluzioni più giuste, quelle che meglio corrispondevano agli interessi di tutto il popolo e della nazione. Anche durante la Resistenza le classi lavoratrici lottarono contro i gruppi del capitale finanziario, contro il grande capitale, lottarono per conquistare la libertà per tutti i cittadini, per gli operai, per i contadini, per le classi oppresse in primo luogo, lottarono per dare vita ad un regime politico e sociale nuovo che realizzasse profonde riforme di struttura ed una vera, effettiva, nuova democrazia.
Lottarono per estirpare le radici del fascismo, liquidare i più iniqui privilegi del capitale e della grande proprietà. Furono i rappresentanti della classe operaia e dei lavoratori che in seno ai CLN proposero e sostennero quelle rivendicazioni programmatiche che esprimevano le profonde aspirazioni popolari. Aspirazioni ed obiettivi che non corrispondevano certo alla volontà ed ai disegni di tutti i movimenti che più o meno direttamente parteciparono alla Resistenza. Le aspirazioni al profondo, radicale rinnovamento economico e sociale per le quali si battevano gli operai, la parte più avanzata dei contadini, dei lavoratori, degli intellettuali progressivi non costituivano certo tutta la realtà italiana. Altre classi, altri partiti agivano in quella situazione in seno e al di fuori della Resistenza, con obiettivi diversi e contrastanti, mirando ad una liberazione solo per opera degli anglo-americani, mirando alla restaurazione del capitalismo, al ritorno ad un regime di democrazia conservatrice. Di qui la discordia nell’unità, di qui la lotta continua in seno ai CLN per fare trionfare determinate soluzioni e portare tutto il movimento il più avanti possibile.
Inizialmente i CLN rimasero indifferenti di fronte agli scioperi, non assunsero una posizione di attiva solidarietà e di appoggio; tale atteggiamento corrispondeva ad una diversa concezione dell’azione da condurre per rafforzare la Resistenza e la guerra di liberazione.
II CLNAI votò bensì un ordine del giorno di solidarietà con il forte movimento degli operai torinesi del novembre-dicembre 1943, ma nulla fece per dare un aiuto concreto al movimento stesso ed al suo sviluppo.
I rappresentanti di taluni partiti in seno ai CLN sostenevano che gli scioperi, toccando e ferendo determinati interessi, avrebbero indebolito l’unità nazionale e allontanato dai CLN determinate forze capitalistiche che in quel momento erano disposte ad aiutare la guerra di liberazione nazionale.
Respingemmo decisamente quegli argomenti e sostenemmo che anziché frenare avevamo il dovere di dare slancio all’organizzazione degli scioperi sino ad arrivare allo sciopero generale politico in tutta l’Italia occupata dai tedeschi, sino ad arrivare allo sciopero insurrezionale.
Criticammo apertamente la posizione assunta da certi CLN, l’unità per noi non era un’arca sacra, un altare davanti al quale si dovessero sacrificare gli interessi della classe operaia e dei lavoratori.
Il CLN, se vuole veramente essere il centro dirigente della guerra di liberazione nazionale, deve essere in grado non solo di solidarizzare, ma di organizzare, aiutare, sostenere, potenziare al massimo le lotte della classe operaia; dev’essere in grado di estendere queste lotte e di farvi partecipare gli altri strati della popolazione. […] E’ necessario e urgente che i CLN diventino veri organi di combattimento, organi dirigenti della guerra di liberazione nazionale.
Senza negare che vi sono stati qua e là degli scioperi relativamente “spontanei”, la maggior parte degli scioperi e delle agitazioni fu organizzata.
Inizialmente i tedeschi avevano lasciato in vita le commissioni interne, così come esse erano sorte dopo il 25 luglio; in tal modo tentavano di avere nelle mani degli strumenti per controllare e tenere a freno le masse operaie. Demmo la direttiva ai comunisti ed a tutti gli operai di sciogliere le commissioni interne, di rifiutarsi di farne parte, di non partecipare alla loro elezione. Era evidente che i tedeschi ed i fascisti, riconoscendo le commissioni interne, avrebbero reso responsabili gli operai che ne facevano parte di quanto accadeva all’interno della fabbrica, del ritmo di produzione, delle proteste delle maestranze, dei sabotaggi: le commissioni interne avrebbero dovuto essere dei veri e propri organismi di “collaborazione” col padrone e con i nazifascisti.
Proponemmo agli operai di nominare invece in ogni fabbrica un comitato segreto di agitazione a carattere unitario. Compito di ogni comitato di agitazione era di occuparsi dei bisogni e delle rivendicazioni degli operai, di organizzare le agitazioni, dirigere gli scioperi, rafforzare la lotta contro gli industriali “collaborazionisti” e contro i tedeschi ed i fascisti.
Di fronte a questa giusta posizione non mancarono qua e là atteggiamenti opportunisti che, sotto la mascheratura di posizioni intransigenti ed estremiste, pretendevano che le commissioni interne continuassero ad esistere perché “esse rappresentavano una conquista della classe operaia”.
Respingemmo decisamente tale posizione: vi sono conquiste che ad un dato momento hanno carattere progressivo e rivoluzionario, suscettibili di trasformarsi in una situazione diversa in strumenti di collaborazione col nemico di classe.
Nella loro grande maggioranza i lavoratori compresero la direttiva del PCI. Nel volgere di pochi giorni le commissioni interne, malgrado le lusinghe e le minacce dei tedeschi e dei fascisti, diedero le dimissioni; nelle principali fabbriche sorsero i comitati segreti di agitazione, organismi unitari che da quel momento si porranno come compito principale l’organizzazione degli scioperi e delle agitazioni contro gli invasori tedeschi ed i traditori fascisti.
Spetta ai comunisti -dicevano le nostre direttive – promuovere la formazione di questi comitati di agitazione clandestini, esserne gli animatori, farli sorreggere da tutta la maestranza, affinché siano in grado di assolvere ai loro compiti che vanno dalle rivendicazioni immediate, quotidiane, al compito politico supremo: la preparazione dell’azione armata per la cacciata dei tedeschi, per la radicale eliminazione del fascismo.
Gli scioperi andarono via via aumentando di giorno in giorno, sino ad arrivare allo sciopero generale in tutta l’Alta Italia dell’1-8 marzo 1944, ed in, seguito sino alle giornate dell’insurrezione nazionale del 18-25 aprile 1945.
Non è il caso di seguire mese per mese ognuno di questi scioperi, con la loro forza, i loro risultati positivi ed anche con i difetti, i limiti, gli errori che di volta in volta vennero sottolineati ed apertamente criticati sia dai dirigenti delle organizzazioni locali, sia dalla direzione del partito su La Nostra Lotta. Benché ci trovassimo nel fuoco di una guerra dura e senza risparmi di colpi, di fronte ad un nemico che usava tutte le armi, deciso a sfruttare ogni nostra debolezza, adoperammo largamente il bisturi della critica e dell’autocritica. Abitudine che dopo la liberazione andòprogressivamente scomparendo con la giustificazione che non bisogna offrire argomenti all’avversario.
Gli scioperi – lo ripetiamo – non furono, salvo eccezioni, “spontanei “: al contrario ci volle un grande impegno di energie per organizzarli. Non corrisponde affatto alla realtà il quadro fantasioso che oggi taluni, che non hanno conosciuto quel periodo, né partecipato a quelle lotte, si fanno di una classe operaia e di masse lavoratrici che premevano dal basso per fare gli scioperi, per la “lotta continua” di fronte ad una direzione comunista che interveniva per frenare, limitare, deviare la lotta.
È vero precisamente il contrario, il che è anche ovvio e naturale. Per noi era piuttosto facile elaborare direttive politiche ed organizzative per la preparazione degli scioperi, degli attentati gappisti, per lo sviluppo di grandi lotte di massa e più ampie battaglie partigiane. Ben più arduo e difficile era il compito di chi quelle direttive doveva applicare, tradurre in azione. Gli operai, ed in primo luogo i nostri compagni, che nelle città e nelle fabbriche dovevano applicare quelle nostre direttive, ben sapevano che ogni sciopero, anche quando terminava vittoriosamente, era seguito da arresti, deportazioni e fucilazioni; sapevano di dover pagare, duramente pagare.
In queste lotte di massa, così come nel condurre la guerriglia partigiana, commettemmo certamente degli errori, vi furono debolezze, alle volte esitazioni anche da parte dei partiti più avanzati dello schieramento democratico che sempre dovettero fare i conti con forze contrastanti, anche in seno ai CLN, e con una complessa, dura e difficile realtà. Ma non ci trovammo mai al seguito delle masse, non commettemmo mai l’errore di essere un freno: soltanto tenevamo conto delle difficoltà che le masse operaie incontravano ad applicare talune nostre direttive per un’azione più ardita, più ampia e più avanzata. Non chiudevamo certo gli occhi di fronte alle obiezioni, alle osservazioni che ci venivano dalla base, non eravamo indifferenti di fronte al costo, alle perdite: il che ci portava ad elaborare direttive d’azione corrispondenti alle possibilità di realizzazione, non campate in aria. Non dovevano dare l’impressione di essere elaborate da degli incompetenti o da dei visionari. Le direttive furono sempre d’incitamento a fare di più, ad andare più avanti.
Pietro Secchia, Il Partito comunista italiano e la guerra di Liberazione, Feltrinelli, Milano, 1975

Mentre era in corso l’offensiva tedesco-fascista contro le formazioni partigiane, il Comitato di agitazione del Piemonte, Lombardia e Liguria aveva proclamato lo sciopero generale in tutta l’Italia occupata.
Ciò infliggeva al nemico uno dei più duri colpi, lo obbligava a spostare le sue forze verso i grandi centri industriali, alleggeriva la pressione sulle unità partigiane e soprattutto avrebbe ridato possente slancio ai lavoratori delle città e delle campagne e alle formazioni provate dai combattimenti.
Lo sciopero generale preparato durante alcuni mesi di lavoro, riuscì in modo grandioso e superiore ad ogni aspettativa, fu certamente il più vasto movimento di massa che abbia avuto luogo in Europa durante la guerra, nei territori occupati dai tedeschi (1).
I grandi centri industriali di Milano e Torino furono per otto giorni completamente paralizzati. A Milano durante tre giorni scioperarono compatti anche i tranvieri, i postelegrafonici e gli operai del «Corriere della Sera».
Lo sciopero si estese dal Piemonte e dalla Lombardia al Veneto, alla Liguria, all’Emilia ed alla Toscana. Due milioni di operai parteciparono al movimento appoggiato da forti manifestazioni di contadini e di donne della campagna, specialmente nell’Emilia.
Tutte le misure preventive e repressive della polizia fascista e delle SS non riuscirono ad impedire, né a limitare lo sciopero, malgrado che il nemico ne conoscesse la data e gli obiettivi. Con lo sciopero generale i lavoratori chiedevano l’indispensabile per vivere, chiedevano di non lavorare per la guerra, di poter essere liberi nelle loro case, di non essere fermati, arrestati, deportati, torturati dai nazifascisti, chiedevano che i loro figli non fossero arruolati dallo straniero.
Ancora una volta i grandi industriali si dimostrarono in generale solidali con gli occupanti tedeschi; salvo casi singoli si rifiutarono di trattare e di ricevere le delegazioni operaie, arrivarono persino a passare ai tedeschi le liste degli operai scioperanti compiendo a fondo l’opera di aperto tradimento della nazione in guerra.
Anche se nessuna delle rivendicazioni economiche che erano alla base dello sciopero rivendicativo-politico venne ottenuta, anche se gli operai dovettero riprendere il lavoro con le paghe di prima, lo sciopero segnò un grande successo per i lavoratori ed una dura sconfitta per i fascisti.
La macchina di guerra nazista ricevette un serio colpo, per una settimana la produzione bellica in tutta l’Italia del nord venne arrestata.
Gli scioperi del marzo del 1943 avevano segnato l’approssimarsi della fine del fascismo, lo sciopero generale del 1-8 marzo 1944 significò un grande balzo in avanti verso l’insurrezione generale, una battaglia vinta contro le forze fasciste-hitleriane (2).
Durante lo sciopero generale si ebbe una magnifica prova di unità e di solidarietà di tutte le forze patriottiche raggruppate attorno ai Comitati di liberazione nazionale ed in modo particolare da parte delle classi lavoratrici. Tale unità non fu certo realizzata senza contrasti, tant’è vero che lo sciopero generale già fissato per la metà di febbraio dovette esser rinviato. In seno al CLNAI sostennero la decisa volontà dei Comitati di Agitazione e dei comunisti specialmente il Partito d’azione e il PSI. Ma non furono poche le resistenze che si dovettero superare.
In ogni regione, i gappisti ed i partigiani appoggiarono il grandioso movimento operaio con audaci azioni contro i tedeschi ed i fascisti (3).
A Torino i partigiani ed i gappisti organizzarono numerosi atti di sabotaggio, fermarono vetture tranviarie, interruppero linee elettriche e telefoniche.
In provincia di Cuneo e nelle Valli di Lanzo, ove opera la brigata «Garibaldi-Cuneo», tutti i treni che dalle valli alpine scendono verso Torino sono fermati dai partigiani, che prelevano fascisti e tedeschi e li fanno prigionieri.
Il l° marzo distaccamenti garibaldini, bloccata la linea ferroviaria Ceva-Ormea, procedono dopo un violento conflitto con un distaccamento di repubblichini all’occupazione di Ceva.
Entrati in città, i partigiani danno l’assalto al municipio, dove è asserragliato un reparto tedesco, e lo costringono alla resa. Alle ore tredici i partigiani occupano la stazione ferroviaria, fanno prigionieri altri tedeschi e fascisti e si impossessano di numerose casse di bombe e armi trovate nei depositi. Alle tredici e trenta riprendono l’attacco assaltando la caserma dei carabinieri, che si arrendono senza opporre resistenza.
Alle quattordici e trenta l’azione è terminata ed i partigiani, centocinquanta in tutto, dopo aver requisito camion e macchine su cui caricano le armi e le munizioni conquistate, partono inneggiando all’Italia.
A Milano le squadre gappiste interrompono a più riprese durante la settimana di sciopero le linee tranviarie e ferroviarie, tagliano i fili della corrente elettrica, abbattono piloni, asportano tratti di binario, attaccano con le armi pattuglie di militi repubblichini e di tedeschi uccidendone una dozzina e ferendone un gran numero.
Tanto nel Veneto che nell’Emilia e nella Toscana le linee ferroviarie principali e secondarie sono interrotte in più punti, a Prato Toscana un treno carico di esplosivi è fatto saltare.
Poiché nel Biellese, nella Valsesia e nell’Ossola la presenza di forti formazioni partigiane avrebbe assicurato la completa riuscita dello sciopero generale, gli operai prima che lo sciopero fosse dichiarato vennero messi «in ferie».
In alcune località come a Grignasco, a Gattinara, a Varallo, a Borgosesia, ad Omegna, a Novara e a Vercelli dove gli operai non erano stati messi in vacanza lo sciopero riuscì completamente.
A Novara città, un tentativo di reazione fascista si ebbe alle officine meccaniche Sant’Andrea dove intervenne un gruppo della «Muti» ed il fascista Belloni tentò di arringare gli operai. L’energico comportamento dei lavoratori impedì al gerarca di parlare e costrinse i fascisti ad allontanarsi.
Nell’interno di molti stabilimenti e nelle strade ad essi adiacenti avevano luogo comizi volanti tenuti in molti casi da oratori improvvisati ed anche da partigiani.
La partecipazione dei garibaldini alla lotta generale degli operai suscitava grande entusiasmo tra i lavoratori.
Moscatelli tenne un comizio alle maestranze della Elli Zerboni (una fabbrica torinese sfollata a Varallo); quando finì di parlare tutti i quattrocento operai chiesero di essere arruolati in massa nelle formazioni, e non fu facile convincerli che dovevano considerarsi, nella fabbrica,come partigiani combattenti.
L’organizzazione delle SAP trovava un terreno fertilissimo nelle città e particolarmente tra gli operai.
Eravamo quasi al termine del primo terribile inverno di guerra. Lo sciopero generale dava ai partigiani duramente provati dalle fatiche e dalle privazioni imposte dalla rigida stagione la testimonianza che essi non erano soli nella lotta.
La grande maggioranza dei giovani combattenti nelle formazioni, allo stesso modo di quelli che lavoravano nelle fabbriche, conoscevano per la prima volta il valore di questa arma potente: lo sciopero generale; conoscevano per la prima volta la grande forza dell’unità della classe operaia.
Durante tutto il 1944 e sino al momento dell’insurrezione di aprile la fabbrica fu il fulcro della lotta contro i tedeschi e i fascisti, le agitazioni degli operai appoggiarono le azioni partigiane e queste a loro volta contribuirono a rendere più facile il successo delle rivendicazioni dei lavoratori. Non solo le formazioni garibaldine diedero sempre il loro appoggio agli operai durante gli scioperi, ma intervennero spesso direttamente presso gli industriali in favore dei lavoratori per chiedere il rispetto dei contratti, degli orari di lavoro, il riconoscimento delle commissioni interne.
Il generale Cadorna, nel suo libro La Riscossa (4), pubblica un rapporto certamente stilato da qualche tirapiedi di un grande industriale, nel quale l’anticomunismo sprizza da ogni riga, tuttavia tolte le esagerazioni, esso conferma lo stretto legame che vi fu sempre tra le azioni dei partigiani e la lotta degli operai.
«Tutti i capi delle formazioni garibaldine sono comunisti: la loro propaganda fra gli operai e i salariati in genere è molto attiva, cercano di accattivarsi l’animo della popolazione mostrandosi quali paladini della classe operaia, estorcendo dagli industriali con la minaccia delle armi contratti di lavoro sproporzionatamente favorevoli con condizioni tali da impedire il normale andamento dell’industria. Con tutto questo forzano la mano dei CLN i quali sono costretti a ratificare il fatto compiuto».
In realtà le formazioni garibaldine intervennero sempre soltanto per appoggiare le giuste rivendicazioni dei lavoratori, per impedire – quando questo era possibile – che la produzione fosse consegnata ai tedeschi, operando in modo energico nei confronti di quegli industriali che collaboravano col nemico.
Numerosi documenti stanno a testimoniare come l’intervento dei partigiani contro società e singoli industriali fosse motivato da fini altamente patriottici: agire contro coloro che con ordinanze all’interno delle fabbriche tradivano la patria.
Note
1) Cfr. Leo Valiani, Tutte le strade conducono a Roma, «Nuova Italia», p. 154: «I comunisti sono ottimisti al punto da ritenere possibile l’organizzazione di un grande sciopero generale in tutte tre le regioni industriali: Piemonte, Lombardia, Liguria. Ne avrò altri dettagli a Milano dove devono trovarsi Longo e Secchia al centro di tutto il movimento proletario».
2) Cfr. Joseph John Marus (Candidus), Radio Londra, 20 marzo 1944: «Gli scioperi avvenuti nell’Italia Settentrionale dal primo all’otto Marzo, organizzati, condotti, conclusi con una precisione, una disciplina e un coraggio finora mai visti in tutta l’Europa occupata, hanno avuto nella stampa internazionale il riconoscimento che meritano. Ora che sono giunti dall’Italia più precisi particolari sulla natura, l’andamento e la portata del moto, i giornali non esitano a definirlo come il più coraggioso sciopero che si ricordi, data l’eccezionalità delle condizioni e le difficoltà e i pericoli in mezzo ai quali si è svolto».
3) Cfr. P. Greco, Cronaca del C.L.N. Piemontese, Istituto Storico della Resistenza, Torino, p. 119: «Crescente sviluppo ed espansione delle formazioni garibaldine specialmente per opera di Colajanni (Barbato) e Moscatelli. Intensa loro attività di guerriglia e sabotaggio; 1-15 Marzo 1944».
4) R. Cadorna, La Riscossa, Rizzoli, Milano.
Pietro Secchia e Cino Moscatelli, Il Monterosa è sceso a Milano, Einaudi, 1958

Quando Hitler seppe, giudicò troppo blande queste misure e ordinò che il 20% degli scioperanti (pari a 70.000 uomini) fosse immediatamente deportato in Germania a disposizione delle SS per essere avviati al lavoro. Il fatto veramente straordinario, e unico per un ordine di deportazione, fu che Rahn, a proprio rischio, indusse Hitler a ritirare il suo ordine, col motivo che tale misura sarebbe stata molto controproducente: una gran parte di quei 70.000 uomini sarebbero passati alle bande partigiane, e la produzione industriale ne sarebbe stata enormemente danneggiata. Hitler, dunque, cede a Rahn, ma indirettamente cede agli operai scioperanti e alla loro avversione ai tedeschi, subisce il coordinamento fra gli scioperi degli operai e l’azione dei partigiani. Le conseguenze per gli operai furono in definitiva modeste: probabilmente 1.200 (il numero esatto non è certo) deportati in Germania. Questa misura fu efficace ai fini degli occupanti, perché bloccò gli scioperi fino all’aprile 1945, al momento dell’insurrezione finale. Ma è pure significativa delle possibilità di condizionamento di un potere militare come quello nazista, da parte di un’azione noanrmata di massa: dai 70.000 deportati voluti da Hitler ai 1.200, lo 0,5% invece del 20%; da un ordine furioso di Hitler al caso unico di un ritiro della volontà del dittatore in materia di deportazione. Lo sciopero non ebbe risultati economici, non divenne insurrezione generale, ma fu un grande segnale politico. Il suo vero significato «fu di aver messo in evidenza in Italia e all’estero il forte radicamento delle forze antifasciste, di aver dimostrato la forza del Partito comunista e di aver rafforzato lo spirito di opposizione della classe operaia».  […] Torniamo allo sciopero italiano del 1944. E’ abbastanza evidente, in questo caso storico, la forza di un mezzo classico di difesa nonarmata, quale è lo sciopero, usato da una componente sociale compatta e consapevole; forza che si dimostra in grado di mettere in una singolare difficoltà anche i metodi repressivi di Hitler, sia pure grazie alla circostanza, in sé contraddittoria, della collaborazione di questi operai con l’esercito tedesco, che ne aveva assoluto bisogno. […] Aldo Capitini seppe cogliere subito il valore di quegli scioperi come parte costitutiva della Resistenza (anche se vedeva in questa, con qualche apprensione, la lotta di una coscienza di minoranza). La vigilia della capitolazione della Germania, egli scriveva: «Questa è la vittoria della minoranza che per vent’anni è stata antifascista, dei giovani che hanno combattuto nelle bande dei patrioti, dei lavoratori che hanno scioperato contro il governo fascista del ’44. E’ la pace della moltitudine italiana, ma non è la sua vittoria». Perciò Capitini si domandava: «Sono gli uomini preparati a tutti questi atti che la pace esige per stabilirsi durevole su tutta la estensione dei continenti e degli oceani?». Potremmo attualizzare la sua domanda, senza voler rispondere: è rimasta la forza del lavoro capace, o almeno si prepara a diventarlo, di lottare per conquistare, insieme ai propri diritti vitali e al proprio benessere, il diritto generale e basilare alla pace, anche negando la propria collaborazione all’apparato militar-industriale, che di continuo genera guerre nel mondo? […]
La cultura della resistenza non armata ad ogni potere prevaricante, esterno o interno ad un paese, è il mezzo più sicuro e continuativo di difesa dei diritti umani, tra cui è supremo il diritto alla pace. Questo è vero persino nelle circostanze più sfavorevoli, come possiamo leggere nella storia, indagata con sguardo libero e nuovo.
Enrico Peyretti, Gli scioperi operai in Italia 1943-1944 come resistenza non armata al potere nazista, Peacelink, 31 marzo 2013