Ho visto anche degli zingari felici

Claudio Lolli – Fonte: DOPPIOZERO cit. infra

Una canzone la cui ambientazione in Piazza Maggiore è anch’essa un pretesto o una casualità è Ho visto anche degli zingari felici di Claudio Lolli, contenuta nell’omonimo disco<112, che musicalmente nasce dalla collaborazione con il “Collettivo Autonomo Musicisti” di Bologna, composto da Adriano Pedini alla batteria, Roberto Costa al basso, Roberto Soldati alle chitarre e Danilo Tomasetta al sax e al flauto. Come riportato nelle note di copertina, scritte dallo stesso Lolli, il titolo del disco (e dell’omonima canzone) è la citazione di un vecchio film jugoslavo, e nell’ultima parte vi sono quattro strofe, di tre versi ciascuna, liberamente rielaborate dal testo di Peter Weiss “Cantata del fantoccio lusitano”.
Riportiamo qui soltanto il ritornello:
Ma ho visto anche degli zingari felici / corrersi dietro, far l’amore / e rotolarsi per terra,
ho visto anche degli zingari felici / in Piazza Maggiore
ubriacarsi di luna, di vendetta e di guerra.
Anche Lolli, come Dalla, mostra un’interesse più politico e sociologico per la città che geografico, tracciando assai più ritratti che paesaggi di note.
112 Che contiene anche il brano Agosto, dedicato ai funerali in San Petronio delle vittime della strage dell’Italicus.
Stefania Bettinelli, Paesaggi di note: Bologna città della musica, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Bologna Alma Mater Studiorum, 2007

BOLOGNA. Arrancando per i cinque piani della scala che porta alla famosa casa di Via Indipendenza, casa “aperta” per tanti anni, viene da pensare a tutti quelli che hanno fatto la stessa fatica, da Andrea Pazienza agli studenti “impegnati” (come si diceva un tempo) che ancora oggi a Bologna vogliono incontrare l’uomo che cantava di aver visto in Piazza Maggiore «anche degli zingari felici corrersi dietro, far l’amore e rotolarsi per terra». Claudio Lolli, quello di Michel, di Aspettando Godot, il “cantore del Movimento” (definizione che odiava), il musicista dagli arrangiamenti raffinati (quel sax!). Il professore. Il poeta. Che ha appena concluso, con la band di allora, un nuovo disco dal titolo eloquente, Il grande freddo. «Un disco fuori dal tempo perché dal ‘77 sono passati quarant’anni e noi siamo gli stessi di allora ma completamente diversi» dice il produttore e sassofonista Danilo Tomasetta, che ci apre la porta insieme alla moglie di Lolli, Marina. Un disco che ha proprio quel suono, dilatato e sognante, malinconico e oscuro, ma anche pieno di amore e di sensualità. E di ricordi, certo, ma non solo: «Ricordo non solo la guerra e il terrore/ in quei campi in montagna/ ho visto dei fiori» dice una strofa. E si capisce perché ha appena vinto quello che probabilmente è il premio più importante per chi nella musica non cerca solo evasione: la Targa Tenco.
C’è un gruppo di giovani a Bologna, Lo Stato Sociale, che sta avendo un successo notevole ed è tra l’altro uno dei pochissimi che prova a parlare ancora di politica, tanto che il loro disco si intitola Amore, lavoro e altri miti da sfatare. Faccio a lei la domanda che ho fatto a loro: che differenza c’è tra la Bologna di oggi e quella di fine anni 70?
«Questa è una domanda cattiva: ancora ancora se fatta ai giovani, ma se fatta a me (ride)… La differenza viene dalla possibilità di partecipazione che tu hai rispetto alla città. Io a settant’anni ne ho poca. Quando facevo concerti, fino a due anni fa, parlavo di Bologna come della città che mi ha cresciuto, la mia culla: la chiamavo “la Parigi d’Italia” perché è una città ricchissima di cultura, stimoli, idee. Io la sento come una città meravigliosa. Certo ci sono state tante delusioni politiche, tanti sindaci, questa forte appartenenza io sto cercando di allentarla perché mi ha anche fatto soffrire molto. Posso solo dire che sono felice di questo (indica la finestra: c’è un vaso con un fiore rigoglioso e dietro i tetti di Bologna). Sono felice di vivere qui».
Eppure alla delusione si era preparato: il suo disco del 1977, Disoccupate le strade dai sogni, era questo: il racconto della fine dell’utopia…
«Cazzo se mi sono preparato! Sono Claudio Lolli: lo vieni a dire a me (ride)? È il mio marchio. In quel disco si intuiva la parabola discendente perché il Movimento stava finendo: è molto bello cogliere il momento di massimo fulgore, e questi erano i famosi “zingari felici”, ma è intelligente anche saper cogliere una fine».
Che cosa è rimasto di quel momento secondo lei?
«Ma sai che fai domande difficili? Ecco cosa è rimasto (indica la sua compagna): più delle storie d’amore credo che non ci sia niente. Perché vedi, le rivoluzioni finiscono, le storie d’amore no».
[…] E Godot?
«È una cosa complicata. Ho tradito Beckett: ho dato un’intenzione attiva, propositiva al personaggio, che lo avrebbe fatto inorridire. L’ho messa in commedia. Aspettare qualcosa che non arriva mai è una metafora dell’esistenza umana. Il deserto dei tartari, Harold Pinter, Jacques Brel: la stessa cosa. La riprendo anche in Raggio di sole, che chiude il nuovo disco. Non ci si può sentire tranquilli aspettando Godot: bisogna agire».
Chi le piace degli altri musicisti?
«De André, Brassens, Brel e poi Dylan, Cohen. E De Gregori: l’adoro (silenzio). “Il ghiaccio dentro il bicchiere. Gli occhi di ghiaccio”. E poi il ghiaccio arriva. Titanic è un capolavoro».
Un altro personaggio che ha raccontato Bologna e il movimento del ‘77 è stato Andrea Pazienza…
«Veniva spesso qui a casa a disegnare. Andrea era meraviglioso: ha fatto la copertina di Antipatici Antipodi. Una sera è arrivato e ha iniziato a dire: “Un dente. Molto acuminato. Una sfrangiatura di capelli”. Io: “Stai bene Andrea?”. “Dietro. Dei palazzi. Bruciati. Un sorriso infido”. Mezz’ora così: stava raccontando la copertina, poi l’ha tirata fuori. Andrea era meraviglioso. La vita ha tante meraviglie…».
Luca Valtorta, Claudio Lolli: «Il ’77 è finito ma l’amor mio non muore», la Repubblica, il venerdì, 28 giugno 2017

[…] Seconda nota: il poeta civile
Claudio Lolli è stato un grande poeta civile. Poteva la spinta politica che voleva la rivoluzione, che voleva trasformare il mondo, unirsi alla poesia? Quanti poeti capaci di legare la poesia alla politica nel suo significato più alto ha avuto il nostro paese? Ma non è forse un paradosso parlare di poesia civile? Io lo immaginavo come Arthur Rimbaud sulle barricate della Comune di Parigi del 1870. Lo immaginavo come la poesia necessaria ad ogni rivoluzione per evitare che la rivoluzione finisca per assomigliare alla reazione che voleva combattere. Senza poesia, infatti, la rivoluzione e i rivoluzionari si trasformano fatalmente in funzionari reazionari del potere o in persecutori dogmatici, fustigatori fanatici infiammati dall’ideologia. È accaduto anche a noi in quegli anni. Ascoltavo invece Lolli come qualcuno che come me aveva passione per la politica, ma si rifiutava di usare il linguaggio freddo e logoro delle categorie dottrinali, degli stereotipi, degli slogans. Il movimento del ’77 non aveva saputo portare a compimento lo sforzo di poesia da cui era sorto. La sua lingua era precipitata rapidamente in un formulario ideologico vuoto. La violenza aveva colonizzato il pensiero critico e la domanda legittima di trasformazione e di riscatto sociale. Basta infatti un nonnulla per trasformare un eretico in un difensore implacabile dell’ortodossia. È l’anima inconsciamente stalinista di ogni rivoluzione che resta senza poesia. Claudio Lolli era per me, in quel contesto precario, un fiore, resistente e fragile insieme, apparso tra gli interstizi di una muraglia di pietra; la possibilità di sostituire al delirio della ideologia e alla precisione solo astratta delle sue categorizzazioni, la contraddizione viva e la sfumatura singolare della poesia.
Quando la poesia può davvero dirsi civile? Quando non si stacca, non abbandona l’umano per gli dei o per mondi utopicamente diversi da questo mondo. La poesia è civile quando resta vicina alla terra, allo scarto, all’humus umano. È questo lo sforzo di tutta la poetica di Lolli; la sua poesia è civile perché non evita di parlare della vita della polis, delle sue piazze, dei suoi conflitti, della sua follia, del suo entusiasmo. La poesia civile non è mai infarcita di ideali o di valori, non è mai retoricamente celebrativa. Essa ricorda sempre quella scissione contradittoria che attraversa, per esempio, Le ceneri di Gramsci di Pasolini o Volume 8 di De Andrè. La storia non esaurisce la vita, gli ideali di emancipazione non possono cancellare il magma caoticamente irrazionale dell’esistenza, il suo dolore, “il suo fondo di mare”.
L’interesse maggiore di Lolli è sempre stato per le vite rammendate, escluse, fragili, “lontane dal traguardo”. Le sue parole ci hanno insegnato che la fragilità non è affatto estranea alla politica. Anche i campioni, come Pantani, il “pirata ciclista”, o come “lo scrittore assassinato degli Scritti corsari”, non sono senza ferite perché conoscono bene “l’umiltà della strada e del sudore”. La poesia è civile quando non dimentica gli ultimi e la loro domanda di riscatto sociale; non dimentica le esistenze infime, quelle delle mosche, del “mignolino che era il più piccino”, dei “compagni sconosciuti”, delle “ginestre sulla massicciata”, perché “sono tutti uguali gli occhi degli uomini verso l’esilio”.
La forza di Lolli poeta civile è quella di non dimenticare l’irregolarità, il dolore, l’incondivisibile, la contraddizione umana che nessuna rivoluzione è in grado di cancellare. La sua parola sfondava così ai miei occhi il quadro tetro dell’ideologia svelando il “volto nascosto tra i capelli”. Nessuna generalizzazione, nessun universalismo, nessun codice, nessun formulario retorico. Il poeta è qualcuno che conserva il segreto, che ama il nascondimento più che l’esibizione. È stato lo stile di tutta la vita di Lolli; egli amava nascondersi. Il contrario della politica che invece punta all’universale, al generale, alle idee, alla manifestazione propagandistica, all’esibizione. La poesia resta caparbiamente sempre dalla parte del nome proprio; corregge permanentemente la tendenza universalistica della politica con la cifra critica della sua melanconia. La sua estetica non era quella rozza del passamontagna calato sul volto, ma quella del volto che non si lascia mai nascondere e che resiste all’anonimato della massa e del numero. La poesia civile non sostiene mai il valore di principi universali separati dai corpi individuali.
Per questa ragione preferivo le sue parole alle elucubrazioni ideologiche di cui molti di noi si ubriacavano. Preferivo Lolli agli stereotipi del linguaggio della politica che aveva colonizzato le nostre voci e il nostro modo di pensare[…]
Massimo Recalcati, Tre note su Claudio Lolli
[…] Appena partì il ritornello di Vecchia piccola borghesia lei mi guardò: «Non è un grande?» «Ma chi è?» domandai. «Sh, sh, aspe’», sventolò una mano, voleva che ascoltassimo la prima strofa. «Ti raduni nelle tue chiese, in ogni città, in ogni paese», cantava quella voce sconosciuta, ed Emme annuiva convinta, gli occhi enormi da extraterrestre, tanto chiari da commuovere. Ce l’aveva con me, che andavo a messa ogni domenica, e nonostante la mia indignazione verso Dio, che aveva inventato la morte, e nonostante i buchi logico-narrativi che mi tormentavano nella storia di Gesù e del suo sacrificio, non smettevo di aver fede quantomeno in Pascal, così ogni settimana rilanciavo la mia scommessa.
«L’esistenza di dio [scritto minuscolo], o la sua assenza, / non mi è remota», avrei letto anni dopo nella poesia che apre la raccolta Rumore rosa, in cui Claudio Lolli dice che tutti i giorni all’ora di pranzo dio si materializza davanti a lui, «si transustanzia in un / campari soda». Allora però stavo giusto facendo la sua conoscenza, e avevo diciotto anni compiuti da poco, un amore a distanza che occupava ogni desiderio, una compagna di camera matricola come me e, per coinquilina, una ragazza di vent’anni che mi pareva immensamente più adulta. Sapeva tante cose del dolore e del perdono, e la sua risata suonava come il gorgoglio di un ruscello.
Fu un colpo di fulmine. Quasi senza accorgermene, nei giorni seguenti mi appropriai della cassetta che conteneva l’esordio di Claudio Lolli e la ascoltai di continuo, con o senza le mie amiche. Qualche settimana dopo, l’entusiasmo di Emme si sarebbe rivolto a qualcun altro – lei era così, si innamorava di continuo, e del cambiamento non aveva timore – mentre io mostrai devozione assoluta a Claudio Lolli: ero una che custodiva gli incontri per salvaguardarli dall’usura del tempo, una destinata a stare con lo stesso uomo per anni, ad esempio, anche se allora non lo sapevo.
All’epoca l’uomo in questione ne aveva diciotto come me e, quando tornavo in Liguria a trovare i miei genitori, lo aspettavo seduta su un’altalena dietro la chiesa, davanti al mare, cantando a ripetizione Michel. A volte la cantavo anche a lui, appena arrivava, in ritardo come al solito. La canzone raccontava la storia di un’amicizia, anzi di una fascinazione. Di un rapporto sbilanciato, come spesso capita nell’età in cui si cresce, quando uno dei due sa della vita qualcosa che l’altro ancora ignora, e a entrambi mancano le parole per condividerlo, o magari nemmeno credono sia opportuno cercarle. «Mentre lento il tuo vagone se ne andava ritornava la paura», recita il verso finale, ed è come se l’avessi scritto io, tanto mi riguarda. Dev’essere per via delle partenze senza ritorno, e non importa che trascinino via me o qualcun altro, è il distacco la ferita che non si può rimarginare. Ascoltavo Claudio Lolli e mi si rivelava l’evidenza di un’affinità elettiva.
Non sapevo nulla, di lui. Per dire, non sapevo che fosse il cantautore del ’77, e in realtà, sapevo poco pure del ’77, l’anno prima della mia nascita. La sua tensione rivoluzionaria mi arrivava, certo, ma nell’opposizione alla piccola borghesia, le cui disgrazie erano «una figlia artista», ciò che sognavo di diventare, «oppure un figlio non commerciante», e commercianti erano appunto i miei genitori, io sentivo prima di tutto un conflitto con il padre, qualcosa di più personale e intimo, che mi apparteneva. Grazie ai suoi album avrei scoperto chi fosse Ulrike Meinhof, sì, ma era soprattutto la bellezza di quella frase, «disoccupate le strade dai sogni», a colpirmi, la violenza di ogni imperativo e l’amarezza della rassegnazione racchiusi in un’unica, formidabile immagine; avrei desiderato anch’io rotolarmi per terra come gli «zingari felici», ma non per ubriacarmi di «vendetta e di guerra», solo perché credevo a mia volta che bisognasse riprendersela, «quella vita che gli altri ci respingono indietro», riprenderci «la vita, la terra, la luna e l’abbondanza».
A catturarmi, insomma – voi mi perdonerete –, era la poesia, prima della politica. Era la capacità di fotografare la condizione umana, eterna e universale, fatta di sopruso e tradimento e ingiustizia, e però di insospettati lampi di candore, prima ancora che lo sguardo sulla Storia nella sua contingenza. Il concetto Nessun uomo è un uomo qualunque, titolo di una sua canzone, aveva a che fare, per me, con il valore testimoniale della scrittura, non soltanto di una dimensione storica o sociale, ma di ogni singola esistenza accaduta come evento nel mondo. Claudio Lolli sapeva renderne conto con parole pacate, in sordina, che dovevo tenermi in bocca a lungo perché sprigionassero la loro potenza.
Non era una lingua aggressiva, la sua, non ti si scagliava addosso; era sommessa, e per questo ancor più penetrante, come quella di Pavese, del quale non a caso lui musicò una poesia, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi […]
Rosella Postorino, Tempo e corpo
Questi due testi sono stati letti nella serata dedicata al cantautore bolognese il 19 febbraio scorso al MAST di Bologna: “Da Lolli e dintorni: la poesia civile di Claudio Lolli”, serata organizzata da Paolo Capodacqua e Massimo Recalcati.
Massimo RecalcatiRosella Postorino, Due sguardi su Claudio Lolli, DOPPIOZERO, 28 marzo 2020

[…] Vogliamo ricordare il cantautore bolognese attraverso alcune delle frasi e delle citazioni più belle tratte dalle sue canzoni, vere e proprie poesie in musica.
“Ma tu che ascolti una canzone, lo sai che cosa è una prigione, lo
sai a che cosa serve una stazione. Tu lo sai cosa è una guerra, e
quante ce ne sono in terra; tu lo sai a cosa può servire una
chitarra”
“Vivere è una tela di cose, con cui riempire i lunghi intervalli, tra
un momento e l’altro di felicità” (Viaggio)
“Io ti racconto il sogno strano di inseguire con la mano un
orizzonte sempre più lontano” (Io ti racconto)
“Quelli come noi, così timidi e ambiziosi, piuttosto silenziosi e
sempre con la testa piena di musica di arte e grandi amori e solo
poche volte fan festa, e spesso invece cantano perché non hanno
è quello che gli resta” (Quelli come noi)
«Primo maggio di festa oggi nel Vietnam
e forse in tutto il mondo,
primo maggio di morte oggi a casa mia
ma forse mi confondo» (Primo maggio di festa)
“Piazza, bella piazza, ci passò una lepre pazza.Ci passarono le
bandiere, un torrente di confusioni in cui sentivo che rinasceva
l’energia dei miei giorni buoni, ed eravamo davvero tanti,
eravamo davvero forti, una sola contraddizione: quella 􀀰la, quei
dieci morti” (Piazza, bella piazza)
“Anna la piazza ti ama, ti ama con me. Anna racconta: l’ultima
Francia com’era grigia, com’era triste, Anna racconta: il nuovo
lavoro, sempre camicie, solo camicie, Anna ti sembra di essere
pazza Anna la piazza, la piazza ti ama con me” (Anna di Francia)
“Non ho mai agito aspettando Godot,
per tutti i miei giorni aspettando Godot,
e ho incominciato a vivere forte,
proprio andando incontro alla morte,
ho incominciato a vivere forte,
proprio andando incontro alla morte” (Aspettando Godot)
“Venitemi a trovare correte a perdi􀀰ato
per voi ci sarà sempre il mio cuore incantato
venitemi a cercare nel mio arcobaleno privato
tra il colore del futuro e quello del passato” (Dalla parte del torto)
“Non sa convivere con la memoria.
Non mi sono mai conosciuta, diceva, e scommetto che non mi
conoscerò,
non saprei mai rigirarmi nei miei angoli ottusi, nei miei angoli
acuti,
preferisco svegliarmi per caso di notte e poi sparire in bocca al
metrò,
io preferisco i mesi agli anni, le ore ai giorni, i secondi ai minuti”
(Non aprire mai)
[…]
Gabriele Antonucci, Addio a Claudio Lolli: le frasi indimenticabili, Panorama, 18 agosto 2018