Grande come Spazza rimpianto da un’anima persa non meno eccentrica, Guido Seborga

Fonte: catalogo cit. infra

L’arte a Torino, l’arte in Piemonte, è sensibilissima allo spirito del tempo. Un destino, una vocazione, che nel Novecento ha in primis i suggelli di Felice Casorati e di Piero Gobetti (il protocritico del Maestro di «Silvana Cenni»). «Con la sua pittura – non sfuggirà a Massimo Mila, un occhio “impressionato” dall’arcangelo della Rivoluzione Liberale – ci pareva che finalmente venisse alla luce dell’arte quell’altra anima della città: l’anima di Torino europea e moderna, Torino città d’ingegneri, di tecnici e d’operai specializzati, gente dallo sguardo chiaro e snebbiato, che misura con esattezza i contorni delle cose».
Città dell’ora esatta, Torino, città della perfezione, città delle conversazioni platoniche, un crogiuolo di idee che ambiscono all’espressione plastica. Come simboleggia il casoratiano manifesto pubblicitario della Fiat 600, l’automobile generata dalla scacchiera urbana, «ordinata, geometrica e misurata (la città, ndr) come un teorema, enigmatica e inquietante come una cabala, astratta come una scacchiera».
Industria e arte (e arti). Una varietà di orme, di segni, di attrazioni, un rendez-vous che il miracolo economico rinnoverà. Giovanni Arpino, che concepirà Una nuvola d’ira di fronte a un motore Diesel marino (con ometto in tuta blu) nei padiglioni di Italia ’61, un dramma interiore da Mino Rosso (in copertina) rivestito d’intimismo espressionista. Armando Testa (fra i maggiori interpreti dell’intuizione olivettiana: la pubblicità come dimensione autonoma) che scarruffa il «numerus» casoratiano rileggendo il «Punt e mes». Antonio Carena, che magrittianamente pilota la Cinquecento, casa, alcova, coperta di Linus, guscio, fantastica diligenza, politecnico balocco…
Quando fa «boom» l’arte sotto la Mole, di lì irradiando il nuovo corso? Forse nel novembre del 1947, un’«esplosiva mostra» di Mattia Moreni – la saluta il critico de La Nuova Stampa – «entro alla roccaforte, sin qui, del più tradizionale conservatorismo pittorico, nella Tampa del Circolo degli Artisti».
Un’ulteriore scintilla – le trenta tele ambasciatrici «di quella tendenza che si può chiamare all’ingrosso neocubista» – del cortocircuito così indigeno, di respiro conradiano, fra anarchia e ordine, fra gerarchia e diserzione. Non scruterà forse, Luigi Carluccio, il critico optimus, già in Felice Casorati una parabola «tra evasione e obbedienza»?
Che cos’è il secondo dopoguerra se non la stagione successiva alla «perfetta classicità» o che svelle la «perfetta classicità», quindi uno straordinario big bang?
Big ovvero grande come Spazza rimpianto da un’anima persa non meno eccentrica, Guido Seborga: «Grande Spazza sei morto troppo presto / quando giro per Torino mi manca la tua invettiva…». [ndr: …nel ‘39 si formò a Bordighera un gruppo orientato verso i partiti della classe operaia e in particolare verso il partito socialista guidato da Guido Seborga, coadiuvato da Renato Brunati, Lina Meiffret  e Beppe Porcheddu. Gli aderenti stabilirono contatti a Torino con il gruppo di Alba Galleano, Giorgio Diena, Vincenzo Ciaffi. Tra gli altri [Domenico] Zucaro, Raf Vallone, Luigi Spazzapan, Umberto Mastroianni, Carlo MussaPietro Secchia, Enzo Nizza, Enciclopedia dell’Antifascismo e della Resistenza, Milano, La Pietra, 1968]
O come Mastroianni che – insofferente di «Casorati e del suo gruppo: avevano raccolto tutte le istanze, tutti gli echi, tutte le premesse di quest’Ottocento, così duro a morire» – si impose di dare «il meglio di sé per il rinnovamento dell’arte e della cultura, per fare di Torino, posta sulla direttiva Vienna-Parigi, una città d’avanguardia», per esempio contribuendo a varare il premio Torino, che calamiterà sotto la Mole Vedova, Cassinari, Fazzini.
O come l’albese Pinot Gallizio, il pittore antipittore farmacista, il vate della pittura industriale, profetizzando «chilometri di carte stampate, incise, colorate», che «inneggeranno alle più strane ed entusiasmanti follie», riscattando il male di vivere di Albino Saluggia, l’operaio di Volponi.
Di là della forma, dell’ossessione che talvolta è (la forma sferica per Casorati). Vi sarà chi, come Giacomo Soffiantino (Soffiantino, Ruggeri, Saroni, le «energie nove» che guardano nei Cinquanta a De Kooning, a Gorky, a De Staël) non esiterà a sfondarla, la luce come ariete.
Vi sarà chi, come Ettore Fico – il suo «Granturco», fervidamente a colloquio con il glicine – obbedirà strenuamente alla forma del colore, la metamorfosi delle cose, inevitabile sentiero del postimpressionismo italiano in partibus Bonnard, non la loro dissoluzione (l’astratto e l’informale).
È una galassia di «caratteri», di maestri in viaggio verso il termine di ogni scuola, di ogni appartenenza, questa carovana di «muse inquietanti». Da de Chirico che, «apparendo» alla Fiat 1400, annuncia la prossima intuizione di Ingeborg Bachmann: l’automobile che sostituisce per gli italiani «le antiche divinità». Allo sturm und drang di Ruggeri, di macerazione in macerazione, compenetrandosi – materica epifania – nella materia per trasfigurarla. Al jamesiano giro di vite di Mario Calandri, sul filo dell’ambiguità, dell’abnorme, dell’orrore metafisico.
Alla nudità della condizione umana quale la rischiara il «Che fare?» di Merz.
All’esoterico, nordico umore di Italo Cremona. Alle furie di Albino Galvano, che nel ’46 impavidamente confessava: «L’appello della pittura risuona dal profondo del nostro sangue – ancora con quell’urgenza – come nei quindici anni quando sostituiva, in camuffamenti impegnati sino alle estreme ragioni della possibile azione, gli slanci religiosi o i presentimenti sessuali».
Alla natura fiamminga, mai consolatoria, di Francesco Tabusso, un infedele che trova se stesso smarrendosi mille volte nella foresta, fra gli specchi di Alice, nei castelli dove arde, mai incenerito, l’incantesimo.
Perché il «boom» è un corpo a corpo con il mondo, così come è il richiamo irresistibile di un altro mondo.
Di stazione in stazione, approdando alla redoniana Porta Nuova di Pistoletto, attendendo con Carlo Mollino un treno fantasmatico (perché «la materia solo dove bisogna»), avvicinandosi le «muse inquietanti» adunate da Luigi Carluccio. Un inventario di sogno e di infanzia, l’estrema surreale stagione, prima che (è il 1967) il sogno indossi la maschera del sonno che genera mostri, l’infanzia smarrisca l’innocenza, liberando la tragedia. Che non è la tragedia dell’infanzia di Savinio.
Non sarà un «boom» di vita la tela bianca che segue.
Bruno Quaranta, Un’altra anima in catalogo (a cura di Gianfranco Schialvino) della Mostra  Gli anni del Boom. Dalla Ricostruzione alla Contestazione. Arte in Piemonte dal 1946 al 1968, Bra, Palazzo Mathis, 8 settembre – 4 novembre 2012, Fondazione Cassa di Risparmio di Bra, Città di Bra, 2012, pp. 11,12,13