Gli ospedali neurologici militari nati in Italia durante la Grande Guerra costituirono un’assoluta novità

L’espressione Grande Guerra richiama subito alla mente immagini di grande sofferenza: uomini ammassati nelle trincee in condizioni durissime, distese di cadaveri lasciati dopo gli assalti contro il muro delle mitragliatrici nemiche e ospedali colmi di feriti. È abbastanza diffusa ormai la figura del soldato traumatizzato da eventi bellici catastrofici o semplicemente dalle estreme condizioni della vita di guerra. Quella combattuta in Europa tra il 1914 e il 1918 fu di una natura estremamente diversa da quelle passate a causa del binomio tra massa e tecnologia, che mise a dura prova la tenuta sia dei sistemi bellici in generale sia dei nervi degli uomini che ne facevano parte. Gli eserciti mobilitati erano formati da milioni di soldati e le armi avevano raggiunto una considerevole efficacia nell’uccidere: ciò produsse, oltre a una quantità di morti e feriti senza precedenti, lo sconvolgimento delle modalità con cui gli eserciti si erano affrontati fino a quel momento e della loro organizzazione interna. In quei profondi cambiamenti, il servizio neuropsichiatrico militare si ritrovò davanti ad un crescente numero di soldati ricoverati con sintomi di malattie mentali che i comandi militari non erano abituati a gestire, nonché all’estrema difficoltà incontrata dai medici a comprenderne la natura di quei disturbi. La foto scelta per la copertina di questo volume contrasta volutamente con l’idea del soldato reso folle dalla brutalità della guerra, sospetto simulatore per le autorità militari, ricoverato in reparti sovraffollati e affidato a psichiatri pressoché ignari di ciò che accadeva nella loro mente. Non si vuole certo affermare l’inesistenza o minimizzare quei fenomeni che gli storici hanno da tempo dimostrato essere rilevanti nel discorso sull’intervento psichiatrico in Italia durante la Prima guerra mondiale. Il contrasto che la foto suscita sta piuttosto a richiamare l’altra faccia della medaglia, altrettanto significativa: non sempre, infatti, gli psichiatri navigarono a vista per stilare una diagnosi, non tutti minimizzarono i sintomi dei pazienti per evitare che venissero riformati dal servizio militare, assecondando le direttive militari o il richiamo patriottico; così come le vicende vissute dai cosiddetti ‘scemi di guerra’ non sempre sfociarono in disgrazie permanenti.

Figura 10. Sala di soggiorno dell’ospedale militare neurologico di Ferrara. Fonte: G. Boschi, Un ospedale speciale per malati nervosi. L’Ospedale Militare Neurologico Villa del Seminario presso Ferrara, p. 30 – qui ripresa da Marco Romano, Op. cit. infra

[…] Dal punto di vista istituzionale gli ospedali neurologici militari nati durante il conflitto costituirono un’assoluta novità in un’Italia dove le poche cliniche neurologiche presenti sul territorio erano costose e quindi accessibili a pochi. Per la prima volta le patologie del sistema nervoso diventarono di competenza statale, anche se il sostegno civile fu in molti casi necessario per la piena attuazione delle iniziative e la loro stessa fondazione fu possibile solo grazie all’impegno personale dei direttori, tutti e tre di formazione civile e arruolati solo dopo l’entrata dell’Italia in guerra. Questi cercarono, ognuno con la sua particolare visione, di isolare le malattie del sistema nervoso da ambienti inadatti alla loro cura quali potevano essere gli ospedali comuni e i manicomi.
Una dinamica paragonabile per sommi capi a quella che nell’Ottocento connotò il tentativo di ospedalizzare le malattie mentali strappandole dagli istituti per poveri o incurabili. Ma qui è utile sottolineare la spinta che la creazione dei centri neurologici militari diede allo sviluppo di un’assistenza che poteva definirsi para-manicomiale, in linea con gli scopi della legge sui manicomi del 1904 che escludeva dal ricovero psichiatrico i soggetti né pericolosi né di pubblico scandalo. Il reparto neurologico di Arezzo, per esempio, entrava a pieno titolo nella questione dei così detti servizi aperti, molto dibattuta tra gli anni Venti e Trenta del Novecento nel contesto delle svariate proposte di riforma della legge sull’assistenza psichiatrica del 1904. Dietro l’espressione servizi aperti vi erano in realtà una serie di concezioni anche molto diverse tra loro, unite dal comune intento di rendere l’assistenza psichiatrica parzialmente svincolata dai rapporti con le autorità giudiziarie e di pubblica sicurezza e di conseguenza più conforme alla pratica degli ospedali comuni.
Nella concezione dello psichiatra francese Èdouard Toulouse, colui che, secondo il parere di Pieraccini, fu il primo ad applicare in modo pianificato tale sistema, i servizi aperti consistevano in un piccolo ospedale o reparto situato all’interno o adiacente all’ospedale psichiatrico, funzionale all’esame e alla cura di patologie nervose e mentali per le quali il manicomio risultava un ambiente troppo rigoroso, ma che non potevano essere trattate con servizi adeguati nei reparti ospedalieri comuni (Pieraccini cita come esempi principali i disturbi mentali leggeri, le nevropatie e le isterie) <576.
Il pensiero del Toulouse è dunque molto chiaro e preciso nei riguardi del programma svolto e della azione sulla quale, per il momento almeno, si adagia.
Egli in sostanza dice: all’attuale ospedale psichiatrico «chiuso», dove non si entra e da dove non si esce senza l’ordine di Autorità, deve essere sostituito l’ospedale psichiatrico «aperto», dove possa essere accettato, senza formalità restrittive di sorta (certificati medici, ordini di un’autorità pubblica, nullaosta o requisitoria di un’autorità amministrativa o giudiziaria, restrizione per la durata del soggiorno ecc.) chiunque vi si presenti o vi venga condotto (on étant amené). È sufficiente, per l’accettazione, che l’individuo sia affetto da disturbi mentali. Altro non si cerca. Per «casi eccezionali» (così li considera nel testo), di «malati protestatari o a reazioni pericolose», «provvedono gli odierni Ospedali chiusi» («Asiles des aliénés» equivalenti ai nostri «Manicomi») o provvederanno in seguito «quartieri chiusi» da crearsi «attorno ai servizi aperti» <577.
Toulouse avviò quella che viene considerata la prima esperienza ufficiale di servizio psichiatrico aperto <578 nel 1922 presso l’ospedale psichiatrico Saint-Anne di Parigi, ma in pochi anni la struttura si ingrandì a tal punto da divenire autonoma con la denominazione di Hôpital psychiatrique Henri Rousselle <579.
Il progetto era praticamente identico a quello ideato da Pieraccini sin dagli anni del conflitto ed è probabile che abbia agito anche da modello ispiratore per il medico toscano dato che Toulouse aveva teorizzato i servizi aperti già sul finire dell’Ottocento.
Il reparto di Arezzo si differenziava, tuttavia, per l’accento posto sulla specializzazione neurologica piuttosto che su tutte le patologie non idonee al ricovero manicomiale.
Se è vero, come visto in precedenza, che era inevitabile l’inclusione di alcune malattie mentali nel reparto neurologico diretto da Pieraccini, queste rappresentavano delle eccezioni a un regolamento che formalmente accettava unicamente feriti e malati del sistema nervoso. Era proprio questo uno dei punti su cui insisteva il direttore quando l’attività della sua sezione neurologica veniva citata da alcuni psichiatri come primo modello di servizio aperto in Italia. Durante un Convegno psichiatrico svoltosi a Firenze il 10 dicembre 1933, dove una Commissione di 15 membri doveva pronunciarsi sui punti principali della tanto attesa riforma della legge sui manicomi, Luigi Baroncini mise a verbale queste parole: «Coll’art. 1° del progetto Baroncini <580 si può ottenere da tutti, sotto altra forma, quello che Pieraccini ha ottenuto col suo Reparto per nervosi, che non tutti possono avere e che certe condizioni locali non possono consentire» <581.
Da parte sua Pieraccini cercò di distanziarsi nettamente dai molti che in Italia invocavano l’introduzione dei servizi psichiatrici aperti, sottolineando il fatto che il suo reparto, al di là di possibili sovrapposizioni tra i due gruppi patologici, era funzionale alla cura delle patologie del sistema nervoso e non mentali: «concepire dei Servizi aperti misti per alienati e neuropatici è anche più grave, sembrami, che mirare con tale creazione a puri Servizi aperti per soli malati di mente. E quando si cita, a confronto di vedute del genere, ciò che è stato fatto ad Arezzo, si confondono involontariamente le cose» <582.
Era la posizione giuridica dei pazienti che preoccupava Pieraccini nell’equiparazione degli alienati ai malati del sistema nervoso dal punto di vista delle procedure di ricovero, soprattutto a causa del carico di responsabilità per i direttori determinato dall’esclusione dell’autorità giudiziaria dal processo decisionale; ne sarebbe derivato poi un potere troppo esteso per i medici, liberi di trasformare a proprio piacimento un ricovero volontario in uno coatto qualora si sarebbe reso necessario un trasferimento in manicomio per la gravità delle condizioni.

Figura 9. Soldati che giocano a «croquet da giardino» nell’ospedale neurologico Villa del Seminario. Fonte: G. Boschi, Un ospedale speciale per malati nervosi. L’Ospedale Militare Neurologico Villa del Seminario presso Ferrara, p. 36 – qui ripresa da Marco Romano, Op. cit. infra

Il dibattito sui servizi aperti condotto durante gli anni del fascismo era lontano ormai da possibili riferimenti alla guerra, ma la citazione di Baroncini è significativa di un modello, quello dei centri neurologici militari, che costituì un esempio efficace nel lungo processo di inclusione delle malattie mentali nelle pratiche sanitarie comuni a tutte le specializzazioni mediche, al di là dei fraintendimenti sul ruolo dei servizi aperti.
Era lo stesso Pieraccini, tra l’altro, a evidenziare una realtà pratica spesso ibrida a fronte della divisione formale delle discipline neurologica e psichiatrica <583.
Tra i casi presentati quelli di Milano e Arezzo sopravvissero alla guerra, anche se non fu possibile rendere l’assistenza neurologica di totale competenza pubblica come per i manicomi.
Ciò limitò di molto la possibilità di estenderla a larghi strati della società nel breve termine, ma le strutture create furono decisive nel percorso che ha portato alla formazione delle moderne cliniche neurologiche in Italia, nelle quali si sono potute approfondire – grazie al veloce progresso tecnologico avvenuto nella seconda metà del Novecento – ricerche votate anche all’esplorazione delle malattie mentali.
Le vicende analizzate mostrano che l’universo psichiatrico non affrontò la guerra come un monolite saldo nel far fronte al richiamo patriottico e alle necessità belliche.
I contesti locali e la formazione professionale dei protagonisti influivano in modo significativo sul trattamento dei soldati ricoverati nelle strutture da loro dirette.
I provvedimenti medico-legali proposti nei manicomi attestano che i bisogni dei soldati non vennero totalmente trascurati, contraddicendo in parte la vulgata sul potere invasivo delle autorità militari e sugli psichiatri come semplici custodi dell’ordine sociale.

Figura 8. Soldati ricoverati a Ferrara che svolgono attività di canottaggio Fonte: G. Boschi, Un ospedale speciale per malati nervosi. L’Ospedale Militare Neurologico Villa del Seminario presso Ferrara, p. 41 – qui ripresa da Marco Romano, Op. cit. infra

È possibile notare inoltre un certo impegno, differente a seconda delle personalità e dei campi specifici di studio, verso il progresso di una branca ancora giovane delle scienze mediche.
Se gli alienisti di formazione manicomiale dovettero per forza di cose adattare i propri metodi alle tempistiche e alle priorità dei comandi militari, riuscirono comunque a influenzare a loro volta l’intervento delle autorità in funzione dei dettami della propria disciplina, delle proprie opinioni scientifiche e delle varie circostanze operative.
Non è possibile quindi porre il conflitto come evento che trasformò radicalmente una pratica formatasi ormai da decenni nei manicomi italiani, ma non c’è dubbio che fornì le condizioni per approfondire argomenti chiave del dibattito psichiatrico come l’ereditarietà delle malattie mentali e il ruolo delle emozioni nella loro comparsa.
La guerra non influì solo sui discorsi teorici ma costrinse le autorità a sperimentare nuovi modelli ospedalieri.
L’attenzione rivolta ai centri neurologici militari nati tra il 1915 e il 1918 è giustificata proprio dalla possibilità di portare alla luce esperienze proficue per la crescita della ricerca scientifica e per il miglioramento dei trattamenti sanitari anche nei decenni successivi.
Con la parabola dei sospetti simulatori il focus viene invece spostato dalla risposta delle istituzioni a quelle dei soldati, mostrando casi di reazione consapevole, anche se non di ribellione aperta, alle imposizioni della guerra.
Sono tutti aspetti utili ad osservare il fenomeno degli ‘scemi di guerra’ da punti di vista alternativi a quello che insiste sulla loro condizione di traumatizzati e su di una psichiatria incapace di comprenderla.
Dopo decenni di ricerche storiche è ormai acquisito che i soldati della Grande Guerra furono vittime del meccanismo brutale di una guerra di massa, industrializzata, e che quelli colpiti da malattie nervose e mentali divennero, e sono ancora oggi, una delle espressioni più disturbanti di tale brutalità.
Nondimeno risulta limitante l’adozione di un paradigma vittimario, sbilanciato troppo verso un approccio empatico ai traumi subiti dagli uomini al fronte.
Le cause che portavano alla comparsa di quella vastissima serie di sintomi propri delle patologie nervose e mentali erano le più svariate, per cui è riduttivo sottolineare il solo potere patogeno della guerra per l’interpretazione di un fenomeno estremamente complesso.

Immagine 7. Soldati che frequentano la scuola elementare organizzata all’interno dell’ospedale militare neurologico di Ferrara Fonte: G. Boschi, Un ospedale speciale per malati nervosi. L’Ospedale Militare Neurologico Villa del Seminario presso Ferrara, p. 41 – qui ripresa da Marco Romano, Op. cit. infra

[NOTE]
576 A. Pieraccini, Problemi di attualità nell’assistenza neuropsichiatrica ospitaliera e para-ospitaliera, «Rassegna di studi psichiatrici», 22, 1933, pp. 730-731.
577 Ivi, p. 734.
578 Quella di Toulouse non era in realtà la prima esperienza equiparabile alla pratica dei servizi aperti, anche se quelle conosciute in precedenza, con esempi anche in Italia, non erano veri e propri modelli estendibili a livello nazionale. Ivi, p. 730.
579 Ibid.
580 Luigi Baroncini formulò una proposta di riforma nel 1925 che inseriva alcune importanti modifiche alla legge del 1904, tra le quali l’istituzione di servizi aperti: «Art. 1°, comma 2° – Possono inoltre (negli Ospedali Psichiatrici) esservi ricoverati, curati e custoditi anche i malati in genere affetti per qualunque causa da alienazione mentale, per i quali non si riscontrano gli estremi di cui al comma precedente [il riferimento è al primo articolo della legge 36/1904]. Per l’assistenza e la cura di questa categoria di alienati [quelli non idonei al ricovero manicomiale definitivo] è in facoltà delle Amministrazioni di provvedere all’impianto ed al mantenimento di speciali reparti, Istituti o Case di cura». AONA, Opuscoli, Pieraccini Arnaldo, La riforma della legge sui manicomi e sugli alienati, p. 8, estratto da «Annali dell’Ospedale Psichiatrico di Perugia», 1, 1934.
581 Ibid.
582 Ibid.
583 Si veda, oltre alle dichiarazioni citate in precedenza, il capitolo  L’abbinamento della ospitalizzazione neurologica e psichiatrica in A. Pieraccini, Problemi di attualità nell’assistenza neuropsichiatrica ospitaliera e para-ospitaliera, cit., pp. 780-792.
Marco Romano, Soldati e neuropsichiatria nell’Italia della Grande Guerra. Controllo militare e pratiche assistenziali a confronto (1915-1918), Firenze University Press, 2020