Fu il primo in Italia a scrivere di Picasso

Otto Dix, Ritratto del poeta Theodor Däubler, 1927 – Fonte: Wikipedia

Sei o sette anni fa, a Torino, dov’ero di passaggio; andai a vedere la mostra degli Espressionisti Tedeschi, in palazzo Madama.
Entrando nella prima sala, a due passi dalla porta mi trovai in presenza di Teodoro Daübler. Era seduto in poltrona, maestoso. Posto al centro della parete che mi si parava dinanzi, egli figurava, nella sontuosa cornice dorata, in tutto il suo volume naturale.
Il poeta, che avevo, nel 13, lasciato poverissimo, trasandato e problematico, nel quadro di Nolden riposava l’anima; nell’agiatezza, nel benessere del corpo. La sua grande barba, senza dubbio fragrante, mi parve accarezzata dal successo. Era vestito di ricchi panni inglesi sicché io gli posi la mano sull’avambraccio e lo strinsi per rallegrarmi, e insieme godere della qualità del tessuto…
Per delicatezza, non mi domandò come io andassi.
Tornai col pensiero a Firenze del 1912 dove c’eravamo conosciuti; e dove, accompagnandolo per le vie, al caffè, al ristorante, mi pareva di sfidare un po’ la pubblica opinione.
Ma la mia solidarietà, era quasi sempre condivisa da due o tre, studenti in lettere, e vestiti convenientemente.
Quando fummo presentati, da Italo Tavolato, era seduto a un tavolo del caffè Giubbe Rosse, e discorreva con Francesco Pagliai. Parlava della traduzione che andava facendo in lingua tedesca dell’Incendiario di Palazzeschi. Soppesava la parola di un verso che citava con la mano, una mano enorme. La quale mi si fece presente quasi quanto una persona. Aveva mani polpose, carnali, che, anche per essere alquanto trascurate, mi parvero esenti da ogni ritrosia, e piene di simpatia per la materia. Le dita snodate, capaci, erano modellate con arguzia… In quel triste inverno, egli era difeso da un mantello tirolese grigio-verde; molto provato. Portava un cappellaccio nero, che forse non aveva mai visto; e nelle giornate di vento, la barba brizzolata, sventolando, gli dava un’aria di fiera pertinacia. Pareva un profeta ispirato, prima o dopo l’oracolo. E del resto egli si riferiva spesso all’arcano. Ci stava dentro. Anche certi gesti che, compiendoli, l’uomo ordinario nel suo pensiero denigra, eran da lui trasfigurati. Non fu semplice per me, tutto nuovo al mondo, appena uscito da un ordine fisso e angusto, assuefarmi alla sua compagnia. Mi sconcertava. Io lo studiavo attentamente, con quel genere di sentimenti che suscita la lettura di un vecchio libro di astrologia. Di notte, solo di notte, il suo alone forse mi lambiva l’anima. Io pativo cioè il sapore, i riflessi della sua esperienza. Ricordo certi suoi racconti; incontri assurdi, situazioni di una terribile ironia. La sua umanità com- prendeva un tirocinio di miseria.
A Parigi la povertà lo aveva condannato, con altri artisti, ad abitare in case e quartieri esposti a tutte le ingiurie.
Quante volte – io pensavo – il poveretto avrà rasentato degli assassini.
Il caro Daübler non di rado pasteggiava con parole classiche. Ma era un uomo che si teneva e teneva caldo.
Il grande gusto di vivere che gli rimaneva, ci era di spassoso incoraggiamento.
Era monumentale. Quando, a notte alta, per i lung’Arni deserti, isolandosi si metteva a ballare, il corpo perdeva peso, si sollevava aereo, ondeggiava come un pallone frenato. In quelle ore gli venivano ondate di strofe. E una notte dai grandi mantici uscì tutto il Canto dell’Amore di Carducci.
Come amava le parole! Aveva una straordinaria memoria letteraria, musicale e pittorica.
Era riuscito a visitare tutti i musei d’Europa; dei più celebri quadri ricordava ogni particolare, e avrebbe potuto, per combinazione, parlare di innumerevoli nasi.
Fu il primo in Italia a scrivere di Picasso, in un lungo articolo apparso in Lacerba, che cominciava così: “In magni ammassamenti cubici gravitano i monti Sabini”. Aveva scritto un poema più lungo dell’Orlando Furioso: Nordlicht, dov’è cantata l’aurora d’una umanità chiamata a fare del nostro pianeta un sole spirituale. Daübler era cordialmente conosciuto da D’Annunzio, per il quale aveva una ammirazione illimitata; e da lui forse riceveva qualche aiuto.
La sua memoria non sapeva e non poteva celare.
In uno dei suoi rigurgiti, appresi che, soldato, a vent’anni, passò al reggimento un mese soltanto, fu riformato per idiozia. Non ho mai conosciuto nessuno che si lasciasse tanto assorbire dal sogno.
La sua ingenuità era toccante.
Qualcuno disse che aveva lo stupore degli animali e la meraviglia dei santi. Il suo ridere non era adulto, rideva come un ragazzo di dieci anni…
A spasso per via dei Colli, in botticella, la signora che gli sedeva accanto, una sua mecenate, austriaca, stanca di sospirare, gli gettò le braccia al collo. Svincolandosi, sgomento, egli aveva urtato la portiera, che si aprì, e cadde nella fitta polvere della strada. “Che immoralità!” esclamava raccontandomelo. Vidi che non scherzava.
Il successo lo aveva fatto aspettare; gli arrise due o tre anni dopo la Grande Guerra. Fu eletto membro di un’insigne Accademia, e i giornali lo pagavano ad alto prezzo. Andò in Grecia per il più grande quotidiano di Berlino. S’era riempito di capricci e di voglie; e si parlava molto di lui. Morì di tisi a Capri, non so in quale data precisa; prima che apparisse Hitler.
Che mi venisse l’idea, proprio nell’ottobre del ’14 di fare un viaggetto in Germania, dipendeva da lui. Aveva suscitato in me una particolare curiosità per Monaco di Baviera. Vi andai e non vi rimasi più di due settimane. Gli amici tedeschi mi consigliarono di andarmene. L’Italia era ormai molto sospetta […] Giacomo Natta, Il cappotto di Dino Campana [1960] in biblioego

Finissima e originale figura di letterato, quella di Giacomo Natta (Vallecrosia 1892 – Roma 1960) sfugge alle consuete classificazioni come sfugge alle ordinarie storie della letteratura. In vita pubblicò un solo ma squisito libro che gli valse l’acuta e partecipe presentazione di Giuseppe Ungaretti. In gioventù frequentò, nella sua Riviera, Georgij Plekhanov e il Principe Kropotkin […] biblioego