Francia, la meta principale, nel periodo fra le due guerre, sia dell’emigrazione di lavoro sia del fuoruscitismo

Parigi attira molti esiliati italiani antifascisti già a partire dai primi anni Venti. I primi flussi riguardano centinaia, se non migliaia, di militanti libertari e di sinistra, sindacalisti e ribelli colpiti dalle azioni delle squadre fasciste e senza possibilità di lavoro a causa del proprio impegno rivoluzionario. Ancora prima della “Marcia su Roma” era chiaro quale sarebbe stato il risultato dello scontro violento, sia sociale che politico, in corso nel periodo infuocato e denso di speranze del “Biennio Rosso”. Ormai la sconfitta consigliava fermamente a prendere la via dell’esilio a chi si era troppo esposto e la cui vita era in costante pericolo. Tra di essi non pochi sono gli Arditi del Popolo che avevano cercato, in condizioni di netta inferiorità, di contrastare gli attacchi squadristi sullo stesso piano di violenza organizzata. Con il progressivo imporsi del fascismo, braccianti e operai, piccoli contadini e artigiani avevano quindi alimentato la corrente di emigrazione popolare verso la Francia, ed in particolare verso la sua capitale, città dalle grandi capacità di attrazione e di rifondazione di esistenze quasi spezzate <1.
Parigi era anche la città che tradizionalmente aveva ospitato, già dalla metà Ottocento, gli esuli delle rivoluzioni democratiche e liberali di mezza Europa che qui avevano trovato uno spazio di vita impossibile in patria. Per gli italiani la metropoli francese rappresentava inoltre il centro di una società dai tratti simili a quella italiana, forse la più vicina tra le situazioni europee sia per lingua che per valori umani di riferimento. Altri luoghi francesi di convergenza per i rifugiati si ritrovano nel sud rurale, in particolare per il bisogno di manodopera in seguito alle falcidie di giovani maschi determinato dalla Grande Guerra, e nel grande porto mediterraneo di Marsiglia, che ha tratti paragonabili a quelli di Genova o di Napoli.
La terra di Francia ospita anche i tentativi di rivincita contro il fascismo che gruppi di esuli irriducibili cercano di concretizzare a partire dal 1925. Dopo la crisi del delitto Matteotti, che Mussolini riesce a superare con l’appoggio della Corona, e la breve illusione di una imminente caduta del regime, centinaia di antifascisti rispondono all’appello di uno dei nipoti di Giuseppe Garibaldi, tale Ricciotti, e si preparano per una spedizione nella penisola. Ma si tratta di una manovra dell’apparato poliziesco e provocatore della dittatura per tastare il terreno di un’eventuale opposizione armata e per rendere più difficile la stessa sopravvivenza dell’antifascismo in esilio. L’ispiratore, malgrado l’illustre nome, risulterà essere un agente al soldo di Mussolini e gli antifascisti saranno arrestati dalla polizia francese prima di potersi muovere oltre le Alpi <2.
L’altra apparente grande occasione di ritorno in Italia si ripresenta una decina di anni dopo, attorno alla guerra di Etiopia che molti vedono come una sfida troppo grossa anche per il tronfio duce romano. La risposta della Gran Bretagna con l’embargo e le minacce di intervento militare, le sanzioni della Società delle Nazioni, l’isolamento internazionale del fascismo fanno intuire la possibilità di un crollo prossimo del sistema mussoliniano. E non sono solo gli antifascisti più radicali a prospettare un rientro in massa per dare un’energica spallata al regime con uno scontro aperto che ha pure la valenza di reale alternativa alla frustrazione vissuta nel paese transalpino. Infatti l’esilio è visto come condizione precaria ed emarginata e di progressivo indebolimento dell’antifascismo. È diffusa la coscienza che il tempo avrebbe giocato a favore del fascismo con lo sradicamento e il logoramento dei suoi antagonisti politici dal popolo italiano, sempre più in balìa delle strutture repressive e di condizionamento mentale della dittatura.
Poco prima della crisi etiopica è cessata una delle poche strutture di coordinamento unitario sorta nel segno di una piattaforma moderata e sostanzialmente legalitaria, sulla scia dell’Aventino del 1924. La “Concentrazione antifascista” <3 aveva raccolto l’adesione di forze diverse: dai socialisti airepubblicani, dagli aderenti alla Lega Italiana per i Diritti dell’Uomo ai superstiti sindacalisti della Confederazione Generale del Lavoro. Dal 1927 al 1934 questa organizzazione costituì un punto di riferimento per gran parte del composito movimento antifascista. Anche Giustizia e Libertà, pur dichiarandosi rivoluzionaria e favorevole all’azione diretta, collabora sia pure mantenendo una certa autonomia.
Carlo Rosselli, animatore a tutti i livelli di GL critica “l’attesismo” dei moderati della Concentrazione e propone di compiere attacchi decisi e incisivi contro il regime e i suoi esponenti di punta, a cominciare dal duce. Su questo piano si sviluppano contatti intensi con gruppi di anarchici disposti a portare a termine programmi rischiosi e ambiziosi, spesso però noti alla polizia fascista tramite informatori in pianta organica o meno.
Berneri e l’esilio anarchico in Francia
Camillo Berneri, sia come uno dei leader del movimento anarchico sia a titolo individuale, stringe rapporti stretti con Carlo Rosselli, alternando polemiche di carattere teorico a convergenze pratiche. Lo scopo principale e immediato è di portare a termine progetti di grande rilievo nella lotta antifascista, ma questi programmi erano forieri di pericolosi esiti soprattutto per la costante presenza di spie e provocatori fascisti ben collocati nell’intero “fuoriuscitismo”. Infatti il regime aveva costruito una fitta e spesso insospettabile rete di controllo. Nel 1928 essa fu in parte svelata proprio da Berneri nel volume “Lo spionaggio fascista all’estero” (E.S.I.L., Marsiglia) che rappresentò un punto di arrivo di un’attività di “controspionaggio” difficile e, a sua volta, molto rischiosa. Le conseguenze di errori e approssimazioni su questo terreno resero molto complicata la credibilità e l’esistenza dell’anarchico lodigiano (Camillo da Lodi è un suo pseudonimo molto frequente). In ogni caso, egli non si accorse di un informatore a lui molto vicino, quel Bernardo Cremonini <4 che aveva raggiunto incarichi di responsabilità nell’organizzazione libertaria in esilio.
Accanto alle questioni della sopravvivenza materiale e dell’autodifesa dalle infiltrazioni, altri problemi caratterizzavano l’anarchismo italiano in Francia negli anni Venti e Trenta. Un duplice tentativo di spedizione armata antifascista a metà degli anni Venti aveva alimentato grandi entusiasmi e le inevitabili polemiche, una volta falliti gli intenti. Frequenti erano stati i tentativi di dar vita a un collegamento stabile che utilizzasse vecchie sigle, come la Unione Anarchica Italiana, fondata nel 1920 e travolta dalla vittoria fascista, oppure di tipo nuovo come la Federazione Anarchica dei Profughi Italiani. Nessuna formula organizzativa riuscì a consolidarsi per un insieme di ragioni dettate anche dal contesto politico e umano assai precario. Al tempo stesso nell’esilio francese continuarono a uscire, sia pure saltuariamente, varie testate dal glorioso passato come “Umanità Nova” (già quotidiano dal 1920 al 1922), oppure la nuova “Lotta umana”, che poteva contare sulla collaborazione di un importante continuatore dell’opera di Errico Malatesta come Luigi Fabbri. Alla fine degli anni Venti, in seguito ad un giro di vite delle autorità francesi, vari leader come Fabbri abbandonano l’Europa per l’Argentina (così Ugo Fedeli e Torquato Gobbi) o verso gli Stati uniti, come Raffaele Schiavina che entrerà, col nuovo nome di Max Sartin, nell’organo anarchico “L’Adunata dei refrattari”. Altri, come Luigi Damiani e Virgilio Gozzoli si trasferiranno prima in Belgio e poi, nel 1931, nella Spagna repubblicana <5. La rinascita del movimento spagnolo, che con il sindacato della CNT costituisce il principale punto di catalizzazione dell’anarchismo mondiale, dà nuovo vigore anche all’esilio italiano: centinaia di militanti si trasferiscono nella Barcellona considerata, non a torto, la “Mecca dell’anarchismo”. Una parte notevole dell’impegno del movimento in esilio si dirige verso la solidarietà con i compagni detenuti, sia in Francia attraverso gli anarchici attivi nella LIDU, sia nell’Unione Sovietica dove diversi militanti erano incarcerati con l’accusa di controrivoluzionari e, come Francesco Ghezzi e Otello Gaggi, sarebbero spariti nell’ “arcipelago gulag”.
La novità dei primi anni Venti, costituita dallo sviluppo del Partito Comunista d’Italia che raccoglie anche istanze rivoluzionarie e antiriformiste tipiche dell’anarchismo soprattutto in alcune regioni del Centro Nord, si farà poi sentire all’estero come una pesante ipoteca sull’intero ambiente antifascista. Negli anni Trenta non pochi moderati, sia socialisti che repubblicani, finiscono con l’accettare, soprattutto dopo l’inizio del 1933 che vede l’avvento di Hitler al potere, una sorta di “protezione” fornita dalla Terza internazionale diretta da Mosca. Adopporsi allo stalinismo dilagante resteranno alcuni gruppi di comunisti dissidenti, nelle varianti trotzkiste e bordighiste, e l’anarchismo che, dopo la repressione dei movimenti di Nestor Makhno e di Kronstadt, denuncerà senza mezzi termini l’involuzione dittatoriale della rivoluzione russa <6. Ciò comporta, in diverse occasioni e soprattutto attorno alla guerra di Spagna, un certo isolamento dei militanti anarchici considerati, dai bolscevichi e dai loro alleati più o meno convinti, alla stregua di provocatori anticomunisti. Di questa crescente influenza, propagandistica e organizzativa, dei comunisti filo staliniani dovrà tener conto l’anarchismo italiano in Francia e, a partire dal luglio 1936, in Spagna.
[NOTE]
1 Un recente inquadramento complessivo dell’esilio anarchico francese è offerto, malgrado il titolo, da L. Di Lembo, Guerra di Classe e Lotta Umana. L’anarchismo in Italia dal Biennio Rosso alla Guerra di Spagna (1919-1939), BFS, Pisa 2001.
2 Questo episodio, insieme a moltissimi altri, di cui alcuni ripresi nel presente saggio, sono esaminati in modo approfondito nel fondamentale lavoro di M. Franzinelli, I tentacoli dell’Ovra, Bollati Boringhieri, Torino 2001.
3 Tuttora valido è il classico studio di S. Fedele, Storia della Concentrazione antifascista (1927-34), Feltrinelli, Milano 1976.
4 Sull’ambigua figura di Cremonini si veda la scheda di C. Silingardi in Dizionario Biografico degli Anarchici Italiani (d’ora in poi: DBAI), BFS Pisa, vol. 1, pp. 463-465.
5 L’attività di centinaia di anarchici italiani che convergono a Barcellona, in buona parte dalla Francia inospitale, è da me trattata in Tra rivoluzione e guerra. Libertari italiani nella Spagna degli anni Trenta, nel volume collettivo La Resistenza sconosciuta. Gli anarchici e la lotta contro il fascismo, Zero in Condotta, Milano 2005, pp. 115-138.
6 Si veda il lavoro di S. Fedele, La breve illusione. Gli anarchici italiani e la Russia sovietica (1917-1939), Franco Angeli, Milano 1996.
Claudio Venza, Compagne devote. Le donne della famiglia Berneri nell’esilio francese (1926-1940), DEP, Università Ca’ Foscari Venezia n. 8 / 2008

In primo luogo va ricordata la composizione dei flussi in uscita dall’Italia nei primi anni Venti, caratterizzati dalla nutrita presenza di lavoratori la cui decisione di spostarsi all’estero nasceva non solo da ristrettezze economiche patite in Italia, ma anche, e in molti casi soprattutto, dal bisogno di “cambiare aria”, di abbandonare luoghi di residenza nei quali la vita si era fatta rischiosa ed insostenibile a causa degli attacchi dello squadrismo fascista e la possibilità stessa di conservare o trovare un’occupazione era compromessa dalle intimidazioni, dall’emarginazione sociale e dai veri e propri “bandi” con cui i fascisti, divenuti padroni del territorio, colpivano i militanti più in vista, sul piano locale, della sinistra politica e sindacale. In questo caso la compresenza di motivazioni politiche e di motivazioni economiche all’origine della scelta migratoria, che pure appartiene anche ad altri momenti della storia delle emigrazioni contemporanee <2, si impone all’attenzione per la rilevanza quantitativa delle esperienze individuali che ne sono toccate e si presenta sotto una luce particolare. Differentemente da altre situazioni storiche in cui il rapporto appare invertito, si ha infatti a che vedere non tanto con un concorso di stimoli politici alla scelta di espatrio da parte di determinati soggetti – inquieti, “irregolari”, in rotta con il contesto socio-politico di origine – quanto con un disagio economico individuale che ha scaturigini politiche o con una vera e propria costrizione politica alla ricerca di impiego all’estero.
Si potrà non qualificare come “antifascista” questa emigrazione di lavoratori, ma solo per ragioni che attengono alla possibilità o meno di impiegare il termine “antifascismo”, inteso nel senso pieno che assumerà più tardi, in riferimento ai primissimi anni Venti, non perché essa non rechi l’impronta della politica. Si tratta, a tutti gli effetti, di un’emigrazione imputabile al fascismo, che prepara l’ambiente al cui interno agiranno successivamente i leader dei partiti antifascisti che lasceranno l’Italia per sottrarsi alla dittatura mussoliniana e recuperare all’estero libertà d’azione politica, quelli che il lessico del regime definirà spregiativamente “fuorusciti”. In secondo luogo, proprio con riguardo alle condizioni ambientali entro le quali opera a partire dalla seconda metà degli anni Venti l’élite politica in esilio, si deve tener conto della presenza nelle comunità italiane all’estero di nuclei politicizzati di più antica data, costituiti da lavoratori che avevano lasciato l’Italia nel corso delle migrazioni prebelliche e che già avevano reso possibile la nascita, nei paesi di destinazione, di organismi legati all’associazionismo politico italiano della sinistra repubblicana, socialista ed anarchica. Le prime organizzazioni italiane che si qualificano espressamente come “antifasciste”, cercando di promuovere una vasta solidarietà contro i nuovi dominatori della politica italiana, nascono all’indomani della marcia su Roma proprio in paesi di emigrazione
[…] All’estero i leader politici antifascisti in esilio entreranno quindi subito in contatto con una base di militanti e di simpatizzanti, tanto dell’emigrazione più recente quanto della più vecchia; in forza di questa realtà essi potranno non sentirsi soltanto dei “rifugiati” e riusciranno a mantenere, anche in terra straniera, un rapporto con l’elemento nazionale; la loro condizione psicologica sarà perciò molto diversa da quella sperimentata negli anni Trenta, molto spesso nei medesimi paesi d’asilo, dagli emigrati politici tedeschi o austriaci. Per la stessa ragione la ricostituzione o il trasferimento all’estero dei partiti antifascisti italiani non fu un fatto meramente nominale o simbolico: nei microcosmi delle comunità italiane emigrate rinacquero davvero forme di attività politica organizzata e si rinnovò, sia pure in miniatura, la tipica dialettica tra direzione, quadri intermedi e base.
Vi è dunque ampia materia di riflessione sul rapporto tra esilio antifascista ed emigrazione economica. Affrontato con questa chiave di lettura, lo studio dell’antifascismo all’estero apre prospettive di ricerca concernenti sia aspetti specifici e peculiari dell’emigrazione suscitata dal fascismo (ad esempio la sua composizione interna, le relazioni fra gli esuli politici, gli emigrati politicizzati e la ben più ampia cornice delle comunità italiane all’estero, l’impatto sul mondo dell’emigrazione del conflitto tra fascismo e antifascismo e della sua proiezione internazionale) sia questioni più tipicamente legate all’esperienza storica delle emigrazioni contemporanee (i processi di politicizzazione, la dialettica tra formazione mentale originaria e influenza delle pratiche sociali nei paesi di destinazione, la tensione fra sentimento di appartenenza nazionale e integrazione nel paese ospitante, solo per citarne alcune).
Se tuttavia si passa ad analizzare la bibliografia, si può constatare come a lungo vi sia stata una netta sproporzione tra le potenzialità euristiche del campo di ricerca e i risultati effettivamente raggiunti. Gli storici dell’esilio antifascista hanno generalmente privilegiato per molto tempo lo studio dei partiti antifascisti e, poiché il problema storico che motivava i loro interessi era costituito dagli sviluppi ideologico-dottrinali preparatori del ritorno dei medesimi partiti sulla scena politica italiana dopo la caduta di Mussolini, essi hanno rivolto l’attenzione all’elaborazione dei gruppi dirigenti delle organizzazioni politiche più che alle strutture politiche in quanto tali, intese cioè come cornice organizzativa di un complesso di attività militanti esercitate da soggetti la cui opzione politico-ideologica si accompagnava a una concreta esperienza di emigrazione di lavoro e quindi a una condizione condivisa con masse più ampie di italiani all’estero. D’altra parte gli storici dell’emigrazione hanno lungamente avuto quasi un ritegno ad accostarsi allo studio dei movimenti migratori e delle dinamiche in seno alle comunità italiane all’estero durante l’epoca fascista, tutt’al più riassorbendo questi temi all’interno di visioni di lungo periodo o affrontandoli incidentalmente nel quadro di analisi primariamente dedicate alla politica migratoria del governo fascista. È significativo che fino a una quindicina di anni fa la gran parte delle ricerche sulla politicizzazione e sulle attività politiche dei lavoratori emigrati o sui loro rapporti con gli sviluppi politici e le forme della politica e della mobilitazione sociale nei paesi ospitanti si arrestassero alla Prima guerra mondiale, come se gli storici dell’emigrazione ritenessero che lo studio di questi fenomeni nel periodo corrispondente in Italia alla crisi dello Stato liberale e all’esercizio del potere da parte del fascismo fosse piuttosto competenza degli storici della politica nell’età del fascismo. Ne ha risentito non solo la ricerca sull’emigrazione antifascista, ma anche quella sui Fasci italiani all’estero, decollata con evidente ritardo rispetto agli altri temi di storia del fascismo.
[…] La tendenza a includere nell’orizzonte delle ricerche gli strati più profondi dell’emigrazione antifascista, e non solo i gruppi dirigenti, si è poi fatta strada anche nel campo, più tradizionale e frequentato, della storia dei partiti antifascisti, con la pubblicazione di saggi incentrati sull’articolazione organizzativa in terra di Francia dei due maggiori raggruppamenti politici operanti in esilio, il Partito comunista e il Partito socialista <8, e sull’attività perseguita in condizioni di illegalità, dopo lo scoppio dalla guerra, dai militanti comunisti in alcune regioni dell’Hexagone <9: aspetto, quest’ultimo, che rimanda al tema della partecipazione di militanti emigrati italiani alla Resistenza francese <10, da mettere a sua volta in connessione con la questione più generale dell’inquadramento, ad opera dei comunisti francesi, della Main d’OEuvre Immigré (MOI) delle più diverse nazionalità nelle formazioni della Resistenza11. È da sottolineare lo stimolo che a questo sviluppo delle ricerche è venuto da studiosi dei paesi di destinazione dell’emigrazione italiana.
Essendo stata la Francia la meta principale, nel periodo fra le due guerre, sia dell’emigrazione di lavoro sia del fuoruscitismo, non meraviglia che proprio da studiosi francesi, attraverso la costituzione nel 1983 del Centre d’études et de documentation sur l’émigration italienne, sia venuta una forte sollecitazione a ricondurre l’esperienza dell’esilio politico nel più ampio contesto dei movimenti migratori, collocandola nella prospettiva di una storia sociale dell’emigrazione politica.
Dall’attività del Cedei sono scaturiti pubblicazioni collettive e convegni, nell’ambito dei quali diversi contributi hanno approfondito l’esame dell’interazione fra economia e politica alla base dei flussi migratori, della distribuzione e dell’insediamento dell’emigrazione antifascista sul territorio, delle sue relazioni con il tessuto sociale, dell’influenza del contesto francese sulla politicizzazione dei lavoratori italiani, della competizione tra fascismo e antifascismo per la conquista dell’egemonia sull’emigrazione, delle ripercussioni sull’emigrazione dello stato di guerra tra l’Italia e la Francia e delle successive vicende dell’occupazione e della Resistenza, non senza un’apertura alla comparazione con l’esperienza di altre comunità emigrate in Francia <12. Tra i promotori di questi sviluppi va ricordato innanzitutto il maggiore degli storici italianisti francesi dell’età contemporanea, Pierre Milza, che ha poi affrontato con quell’ispirazione i capitoli sugli anni del fascismo nel suo studio di sintesi sull’Italia in terra di Francia <13.
[NOTE]
2 Cfr. Émile Temine, Émigration “politique” et émigration “économique”, in L’émigration politique en Europe aux XIXe et XXe siècles, Roma, École française, 1991, pp. 57-72; Matteo Sanfilippo, Problemi di storiografia dell’emigrazione italiana, Viterbo, Sette Città, 2002, pp. 111-120.
8 Luigi Di Lembo, L’organizzazione dei socialisti italiani in Francia, in L’emigrazione socialista, cit., pp. 221-261; Loris Castellani, L’émigration communiste italienne en France (1921-1928). Organisation et politique, “Annali della
Fondazione Istituto Gramsci”, 1991, pp. 395-693 (con diverse anticipazioni negli anni precedenti).
9 Rudy Damiani, Les communistes italiens dans la zone interdite (1939-1945), “Annali della Fondazione G. Feltrinelli”, 1985, pp. 139-154; Jean Louis Panicacci, Les communistes italiens dans les Alpes Maritimes (1939-1945), ibid., pp.
155-180. Cfr. anche Rudy Damiani, La communauté italienne en zone interdite, in L’occupation en France et en Belgique 1940-1944, a cura di Étienne Dejonghe, Villeneuve d’Ascq, Revue du Nord, 1987-1988, vol. 2, pp. 691-706.
10 Il tema, su cui già si disponeva di dati e informazioni grazie al classico Pia Carena, Gli Italiani del maquis, Milano, Del Duca, 1969, è stato sviluppato sia sul piano dell’analisi complessiva delle correlate problematiche (Gianni Perona, Gli Italiani nella Resistenza francese, “Mezzosecolo”, IX, 1990-1993, pp. 327-356), sia prendendo in esame singole figure di combattenti (André Pierrard e Michel Rousseau, Eusebio Ferrari à l’aube de la résistance armée, Paris, Syros, 1980), sia sollecitando la memoria dei protagonisti (Damira Titonel, La libertà va conquistata. Un’emigrata trevigiana nella Resistenza francese, a cura di Carmela Maltone, Sommacampagna, Cierre, 2001).
11 Stéphane Courtois, Denis Peschanski e Adam Rayski, Le sang de l’étranger. Les immigrés de la MOI dans la Résistance, Paris, Fayard, 1989.
12 Les Italiens en France de 1914 à 1940, a cura di Pierre Milza, Roma, École française, 1986; L’immigration italienne en France dans les années 20, Paris, Cedei, 1988; L’Italia in esilio. L’emigrazione italiana in Francia tra le due guerre, Roma, Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento per l’informazione e l’editoria, s.d. [1993]; Exils et migrations. Italiens et Espagnols en France 1938-1946, a cura di Pierre Milza e Denis Peschanski, Paris, L’Harmattan, 1994. Da ricordare anche il periodico del Cedei, “La Trace”.
13 Pierre Milza, Voyage en Ritalie, Paris, Plon, 1993, pp. 218 ss.
Leonardo Rapone, Emigrazione italiana e antifascismo in esilio, in «Archivio storico dell’emigrazione italiana», IV, 2008, 1, pp. 53-67