Elmore Leonard

Era un maestro: non c’è alcun dubbio. E se anche, in Italia, non godeva di quella fama che, invece, in America gli guadagnava migliaia di lettori e ammiratori illustri (tra cui Quentin Tarantino), Elmore Leonard è stato uno dei pochi scrittori di genere capaci di superare le convenzioni e, anzi, di screditare qualunque critico volesse rinchiuderlo dentro schemi prefissi. Intendiamoci. Non che non sapesse o non rispettasse le regole dei generi (noir o gialli, come volete). Solo che, rispettandole, era capace di superarle. Per questo era un maestro. “Dutch”, come lo chiamavano fin da giovane[…] La sua parabola di scrittore è stata simile a quella di molti altri, soprattutto autori americani, che hanno incrociato, nella loro fertile attività, il cinema. Elmore Leonard, infatti, è stato ispiratore di molti successi di Hollywood, tanto da diventare anche sceneggiatore e produttore. Imbattibile nei dialoghi, sono suoi i soggetti che diedero poi vita a film come Get Shorty, Quel treno per Yuma, e appunto Jackie Brown, girato da Tarantino. Di educazione cattolica (singolari tematiche religiose saranno da lui affrontate in alcuni romanzi come Imbroglio e Il tocco), si era laureato in filosofia. Era irresistibilmente attratto dall’America più povera e dimenticata, dai derelitti, dai farabutti, dai killer. «Mi interessa chi non ha un lavoro e per sbarcare il lunario fa qualcosa d’altro nella vita» aveva dichiarato una volta. «Elmore Leonard è un attentissimo osservatore della società che lo circonda e del suo paesaggio mediatico» ha scritto Wu Ming 1, traduttore e ammiratore dello scrittore nella prefazione a quelli che molti pensano sia il capolavoro di Leonard, Tishomingo Blues. «A quasi ottant’anni d’età continua a inserire nei suoi romanzi – continuava Wu Ming nel 2003 – (praticamente in tempo reale) i cambiamenti dovuti all’arrivo delle nuove mafie, gli scandali politici, il gossip più aggiornato, la più recente ondata di revival culturale, i vecchi e nuovi luoghi comuni dei reazionari a stelle e strisce, la demenza dell’imperialismo, le pagine nere della guerra contro Cuba, dell’invasione di Santo Domingo e Grenada, dell’appoggio ai contras nicaraguensi… Tutto ciò rende ogni suo libro inconfondibilmente contemporaneo, eppure mai datato, anche leggendolo a quindici o vent’anni dalla prima edizione».
[…] Negli ultimi anni, occhialini e barbetta appariva come un vero gentiluomo del Sud (era nato a New Orleans). Laura Grimaldi, signora del giallo italiano, collaboratrice del Domenicale del Sole 24 Ore, che lo conobbe bene, ne lodava «l’accento morbido, i modi cortesi, la languida pigrizia – solo apparente – che sembra evocare una poltrona a dondolo sotto un portico ombreggiato da una quercia. In realtà, quando non è in viaggio possiede una metodicità nordica: sveglia alle sette; due ore di appunti o di verifica delle ricerche effettuate dai neolaureati che regolarmente manda in avanscoperta, con dettagliate istruzioni, nei luoghi in cui ambienterà le sue storie e che poi visiterà personalmente; sei ore di scrittura (dapprima a mano e poi a macchina, mai su computer)».
Era tornato spesso sul concetto di scrittura, pubblicando anche delle famose regole (le vedete a parte) [1] che diventarono un succoso libretto dopo la prima pubblicazione sul New York Times. Una volta per tutte aveva espresso il suo concetto fondamentale: «intendo intrattenere, non insegnare, non predicare».
Lo aveva perseguito tenacemente in oltre 40 romanzi e racconti. Se ne dovessimo scegliere uno, forse indicheremmo proprio Tishomingo. Non a caso un blues, non a caso un libro di perdenti e derelitti, riscattati dalla letteratura.
Stefano Salis in biblioteca dell’egoista, 2013

[1]


Le 10 regole di E. L.

1. Mai iniziare un libro parlando del tempo. Se è solo per creare atmosfera, e non una reazione del personaggio alle condizioni climatiche, non andrai molto lontano. Il lettore è pronto a saltare le pagine per cercare le persone. Alcune eccezioni. Se ti capita di essere Barry Lopez, che conosce più modi di un eschimese per descrivere il ghiaccio e la neve nel suo Sogni Artici, puoi fare tutti i bollettini meteo che vuoi.

2. Evita i prologhi: possono irritare, soprattutto quelli che seguono un’introduzione che viene dopo una prefazione. Queste sono cose che di solito si trovano nella saggistica. In un romanzo, un prologo è un antefatto, e puoi metterlo dove ti pare. C’è un prologo in Quel fantastico giovedì di Steinbeck, ma va bene perché lì c’è un personaggio che centra esattamente ciò di cui parlo in queste regole. Dice: “Mi piacciono i dialoghi in un libro, e non mi piace che nessuno mi dica com’è il tizio che parla. Voglio immaginarmelo dal modo in cui parla”.

3. Nei dialoghi non usare altri verbi tranne “disse”. La battuta appartiene al personaggio; il verbo è lo scrittore che ficca il naso. Almeno, “disse” non è invadente quanto “borbottò”, “ansimò”, “ammonì”, “mentì”. Una volta notai che Mary McCarthy aveva chiuso una battuta con “asserì” e dovetti smettere di leggere e prendere un dizionario.

4. Non usare un avverbio per modificare il “disse”. Usarlo in questo modo (o in qualsiasi altro modo) è un peccato mortale. Così lo scrittore si espone troppo, usando una parola che distrae e che può interrompere il ritmo dello scambio. In uno dei miei libri si raccontava di un personaggio che era solito scrivere storie d’amore d’ambientazione storica “piene di stupri e avverbi”.

5. Tieni i punti esclamativi sotto controllo. Ti è permesso di usarne non più di due o tre ogni 100.000 parole. Se poi sei incline a giocare con i punti esclamativi come Tom Wolfe, puoi aggiungerne a manciate.

6. Non usare mai “improvvisamente” o “s’è scatenato l’inferno”. Questa regola non richiede una spiegazione. Ho notato che gli scrittori che usano “improvvisamente” tendono ad avere meno controllo nell’uso dei punti esclamativi.

7. Usa dialetti e slang con moderazione. Una volta che cominci a compitare foneticamente le parole nei dialoghi e a riempire le pagine di apostrofi, non sarai più in grado di fermarti. Nota come Annie Proulx cattura il sapore delle sonorità del Wyoming nella sua raccolta di racconti Distanza ravvicinata.

8. Evita descrizioni dettagliate dei personaggi, come faceva Steinbeck. In Colline come elefanti bianchi di Ernest Hemingway come sono “l’Americano e la ragazza che era con lui”? “Si era tolta il cappello e lo aveva messo sul tavolo”. Nel racconto, questo è l’unico riferimento a una descrizione fisica.

9. Non dare troppi dettagli descrivendo posti e cose, a meno che tu non sia Margaret Atwood e sia in grado di dipingere con le parole. Non vuoi descrizioni che portino l’azione – il flusso della storia – a un punto morto.

10. Cerca di omettere le parti che i lettori tendono a saltare. Pensa a cosa salteresti leggendo un racconto: fitti paragrafi che trovi abbiano troppe parole.

“il Sole 24 Ore” , 20 agosto 2013