Con l’avvento del fascismo il mito americano subisce un brusco calo di interesse

Il termine “americanismo”, inteso come atteggiamento positivo di fronte ad una influenza americana, calco della voce inglese americanism, si inserì nella storiografia ufficiale a partire dai primi del Novecento:
“Nessun’altra famiglia semantica, legata ad una nazione, conosce negli stessi anni un’articolazione e una diffusione analoga. Questa annotazione elementare può suggerire una valutazione più generale della incisività e della pervasività del messaggio proveniente dagli Stati Uniti. Un messaggio culturale prima che economico – simboli più che oggetti – che può essere contestato, esorcizzato, ma non ignorato”. <96
Questo dato di natura lessicografica permette di evidenziare come l’influenza americana e l’adozione del modello statunitense in Europa fossero già in atto nei primi anni del Novecento in virtù non soltanto di una superiorità economica – che dopo il 1918 diventerà una supremazia – ma anche per la forza di un mito fondato su elementi estremamente appetibili, quali quelli di uguaglianza e di modernità.
A questo proposito, nei Quaderni del carcere, Antonio Gramsci, prima di iniziare la sua riflessione sull’americanismo e sul fordismo, elenca una serie di testi che testimoniano da un lato l’attenzione suscitata dal tema, dall’altro la precoce proliferazione di clichés e stereotipi:
“Americanismo. Ricordare il libro di Guglielmo Ferrero Fra i due mondi [pubblicato nel 1913]: quanti luoghi comuni del Ferrero sono entrati in circolazione a proposito dell’America e continuano a essere spesi senza ricordare il conio e la zecca? (Qualità contro quantità, per esempio). Fra i due mondi è di prima della guerra, ma anche dopo il Ferrero ha insistito su questi tasti. Vedere. Sull’americanismo vedi l’articolo L’America nella letteratura francese del 1927 di Ètienne Fournol nella «Nuova Antologia»[…] comodo perché vi si possono trovare registrati i luoghi comuni più marchiani sull’argomento […] Perché dunque è stato accettato così facilmente in Europa (ed è stato diffuso così abilmente) questo cliché degli Stati Uniti senza lotta di classe, ecc. ecc.? Si europea, ma si crea il cliché dell’omogeneità sociale americana per uso di propaganda e come premessa [ideologica] di leggi eccezionali”. <97
L’immagine degli Stati Uniti quali incarnazione della modernità nasce non tanto dalla volontà di esportare un modello economico quanto dalla necessità di creare un immaginario condivisibile e, proprio per questo, si configura come mito forte in grado di varcare confini sociali, culturali e geografici.
La forza dell’ideologia americana può essere quindi individuata nella sua inscindibilità con il concetto di “moderno” inteso come «non fare quello che è già stato fatto, ma fare qualche cosa di completamente nuovo» che ha come conseguenza diretta la possibilità per l’uomo moderno di «abbandona[re] il proprio passato, rompe[re] con la tradizione, con quello che è stato per diventare qualcosa di nuovo». <98
Modernità e uguaglianza finiscono quindi per essere rappresentate come conseguenza diretta di un sistema economico che attraverso il predominio del mercato porta alla standardizzazione non solo dei prodotti ma anche degli acquirenti e dei consumatori.
Gli anni a cavallo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento costituiscono, per il mito americano, una fase di sedimentazione durante la quale luoghi comuni e stereotipi, fino ad allora elaborati, si fissano e si diffondono al grande pubblico che inizia a pensare agli Stati Uniti attraverso immagini legate «alla modernità, alla novità, alla velocità, alla stravaganza, alla moda, alla eccentricità, alla libertà, alla democrazia, alle infinite possibilità, all’emancipazione femminile». <99
“La visione italiana dell’America cambiava, come cambiava del resto il volto stesso della società americana. L’immigrazione, a partire dal 1880 circa già in vertiginoso aumento, era una delle cause importanti di questo cambiamento: l’urbanizzazione assumeva proporzioni grandiose e da paesi nascevano rapidamente metropoli; Chicago triplicava, raggiungendo il milione e mezzo di abitanti, New York passava dai due ai tre milioni e mezzo, e altre ventiquattro città minori superavano i centomila abitanti”. <100
Angelo Mosso in Vita moderna degli italiani, diario di viaggio in cui vengono raccolte le impressioni su alcune aree del Meridione visitate dal medico in seguito alla lettura di un articolo dell’onorevole Lacava sullo spopolamento di interi comuni in Basilicata a causa dell’emigrazione verso l’America, scrive:
“Viceversa la civiltà dell’America irradia e diffonde la sua luce a noi con influenza feconda. Mi raccontava un provveditore agli studi nelle Provincie meridionali: «I contadini vengono di lontano a scuola e si accalcano nei banchi per imparare a leggere e scrivere, non per la legge sull’istruzione obbligatoria della quale nessuno si cura, ma solo perché gli emigranti li sollecitano ad imparar presto, altrimenti non potranno partire. Per la Basilicata (soggiungeva) fin giù nella Calabria si considera l’America come la terra promessa. Vale più una di quelle lettere piene di sgorbi che girano nelle mani del popolo che non tutte le circolari dei ministri per la istruzione”. <101
Non è un caso che gli anni in cui il mito americano si diffonde rapidamente, anche nelle aree più periferiche del paese, coincidano con il picco più alto dell’emigrazione italiana verso l’America. <102
Emilio Franzina, analizzando il fenomeno migratorio, ha sottolineato come:
“L’emigrazione popolare […] attraversa […] la stessa storia dell’Italia Unita mettendo a nudo lo scarto che, tolte poche eccezioni, separa […] le aspirazioni e le esigenze d’intere popolazioni dalle politiche ufficiali dei governi e dalla parallela costruzione di un armamentario di immagini spesso finalizzate al consolidamento dell’identità nazionale”. <103
Si potrebbe quindi ipotizzare che in alcune aree della penisola, il mito americano, consolidato nell’immaginario collettivo sia dai racconti dei migranti che dalla fortuna stessa che essi stessi esibivano al ritorno in patria, abbia costituito una forte attrazione, come raccontano Francesco Jovine e Carlo Levi:
“Sulla bottega del barbiere e accanto all’ufficio del cassiere comunale c’erano grandi manifesti che rappresentavano bastimenti a vapore in mezzo al mare azzurro; sui fianchi delle navi c’erano piccole imbarcazioni a remi cariche di signore velate e di uomini in cilindro. Tutti i contadini di Guardialfiera volevano mettersi il cilindro e andarsene per mare verso l’America. Forse io a Trivento non sarei più tornato e un giorno sarei partito con Albamaria per l’America”. <104
“Era questa macchina, l’unica esistente a Gagliano, una vecchia 509 sgangherata. Apparteneva a un meccanico, un “americano”, un uomo grande, grosso, biondo, con un berretto da ciclista. La macchina l’aveva comprata con i suoi ultimi risparmi di New York”. <105
Un’attrazione così forte che in alcuni casi sembra in grado di sostituirsi all’identità nazionale stessa così che i simboli americani, come la banconota del dollaro o l’immagine del presidente Roosevelt, vengono considerati come una divinità da venerare e per questo esposta a fianco dei Santi della liturgia tradizionale e offerta in dono alla Madonna Nera durante le processioni sacre
[…] La consapevolezza nel distacco dal mondo contadino si riscontra anche nelle destinazioni scelte dagli emigranti i quali, benché provenissero soprattutto da zone rurali e l’America fosse allora soggetta ad un processo di colonizzazione agricola, si stanziarono prevalentemente in città dove le condizioni di vita erano estremamente precarie, come descritto da Vincenzo La Bella ne «La Domenica del Corriere»:
“A me sembra che la [loro] vita […] sia tutt’altro che felice […] quando cala la notte ed i teatri si chiudono, una folla muta e silenziosa si raccoglie davanti ad una panetteria tedesca la quale usa distribuire verso la mezzanotte, agli affamati, tutto il pane raffermo che le viene restituito dai rivenditori cittadini […] Quanti italiani ho visto il quella dolorosa linea!” <109
Nonostante il diffuso analfabetismo, le partenze alla cieca o alla ventura hanno caratterizzato soltanto la prima fase dell’emigrazione: i reportages giornalistici, le lettere degli emigranti e i racconti dei rimpatriati hanno contribuito alla formazione e al consolidamento di un orizzonte mentale che, soprattutto nelle popolazioni subalterne delle campagne e nei quartieri popolari dei centri urbani, ha portato alla nascita del mito dell’America come “paese della Cuccagna” dove “i soldi vengono giù dal cielo”, senza però favorire la circolazione di notizie pragmatiche sulla realtà oltreoceano a tal punto che non era nota la distinzione tra Nord e Sud America, come testimoniato da Constantine Maria Panunzio:
“Of course, like every Italian boy, I had heard from earliest childhood of America, the Continent which ‘Colombo’, one of our countryman, had long ago discovered. However, my idea of America was a misty as that of the Old World on the day when Columbus returned from his famous voyage… We used to sing a song: it was about thirty stanzas long, and it told all the story of that famous voyage, but it had nothing in it about the continent he had found, or what was on that continent in our day. Like every boy who goes through the third grade of Italian schools, I had read the story of America in De Amicis’ famous book, Il cuore. But while story, ‘From the Apennines to the Andes’ is one of unexcelled imaginative beauty, it gives little or no details of the country beyond the setting, sun, of its people, its institutions, its life in general. Moreover, that story deals with South America rather than North America”. <110
Tuttavia l’interesse per l’America non riguardava solamente il ceto più basso della popolazione per il quale essa rappresentava la possibilità di una vita più agiata ma anche la fascia medio-alta: nei primi decenni del Novecento si assiste ad una proliferazione di pubblicazioni di diari di viaggio e di articoli sul costume e sullo stile di vita americano, come testimonia «La Domenica del Corriere», supplemento illustrato de «Il Corriere della Sera», pubblicato per la prima volta l’8 gennaio del 1899, che aveva come obiettivo quello di integrare l’informazione del quotidiano attraverso rubriche di costume, rivolgendosi ad un pubblico composto prevalentemente dalla media borghesia e dai gruppi colti della classe operaia
[…] Il modello a cui «La Domenica del Corriere» guardava è quello del giornalismo americano, in particolare del «New York Herald» di Gordon Bennet ovvero del foglio più diffuso oltreoceano, dal quale Attilio Centelli ha tratto ispirazione in primo luogo per lo stile popolare che evitava esasperazioni critiche, in secondo luogo per l’impaginazione vivace; infine per l’uso di immagini a colori che da un lato fornivano al lettore meno colto una sintesi dell’argomento trattato, dall’altro si configuravano come un elemento accattivante
[…] Nonostante la presenza di altri periodici illustrati sul mercato, come «L’illustrazione italiana» e «La Tribuna illustrata», «La Domenica del Corriere» si impose come leader del settore: la sua tiratura è raddoppiata nell’arco di circa un anno, passando dalle 50000 del febbraio 1899, alle 72000 nel marzo 1900, fino alle 110000 della fine del 1900.
Questo periodico, in virtù di una diffusa divulgazione, contribuì in maniera determinante alla diffusione di alcune immagini legate al mondo dell’immigrazione e alla società americana, soprattutto dopo il 1910, quando all’interno della rivista viene creata una rubrica riservata alle notizie oltreoceano, intitolata Americanate.
A fronte della varietà degli argomenti trattati, analizzando gli articoli pubblicati tra il 1899 e il 1935, è impossibile individuare due tipologie tematiche opposte, ovvero da un lato l’esaltazione stereotipata dell’America in quanto icona di modernità, di uguaglianza sociale e di “paese della Cuccagna”, dall’altro il racconto intriso di realismo del fenomeno migratorio (costante è il riferimento ai numeri e alle statistiche) del quale vengono denunciati gli aspetti più miseri e degradanti che non riguardano soltanto il viaggio per mare ma anche il soggiorno stesso nella “terra promessa”.
[…] Tuttavia Cesare Pavese analizzando a posteriori il fenomeno ha sottolineato come siano state proprio le pubblicazioni come «La Domenica del Corriere» a favorire l’ascesa dell’egemonia culturale statunitense in quanto «nella loro banalità non prive di un certo provinciale rispetto per la vita vera», hanno offerto un «verdetto sostanzialmente positivo» dell’America pur tratteggiandone un’immagine frutto di un «mix di attrazione e di repulsione». <119
[…] Tuttavia a questo proposito è interessante notare come l’automobile americana sia l’unico prodotto che gli europei non importarono direttamente: questo dato mette in evidenza il rapporto egemonico profondo che si crea tra Stati Uniti e Europa per il quale non è singolo prodotto ad esercitare un “fascino irresistibile” quanto piuttosto lo stile di vita americano, american way of life, che la società dei consumi contribuisce a far conoscere e, di conseguenza, a diffondere.
[…] Se l’auto incarna il moto perpetuo e la nuova estetica del dinamismo industriale e sociale; la strada, a sua volta, assume un significato che trascende la sua funzione di infrastruttura per diventare lo scenario di un desiderio inconscio, ovvero il sogno di mobilità individuale. <129
Durante il Ventennio, la propaganda fascista si servì dell’immaginario che era venuto a crearsi intorno all’automobile per pubblicizzare l’immagine di un’Italia che aveva superato l’arretratezza in cui versava agli inizi del secolo e che quindi poteva essere definita a tutti gli effetti moderna: il Duce stesso si fece spesso ritrarre a bordo di auto o di motociclette; inoltre nel 1927, venne organizzata la prima Mille miglia, gara automobilistica disputata su strada (e non su pista) che dimostrò al pubblico internazionale i progressi della rete viaria italiana; la competizione si tenne anche nel 1936, nonostante le sanzioni inflitte dalla Società delle Nazioni avessero imposto una razionalizzazione dei carburanti. Entrambi questi aspetti confluiscono ne Il lanciatore di giavellotto, ambientato nella campagna marchigiana attraversata dalla Flaminia sulla quale sfreccia l’Alfa Romeo rossa del Duce
[…] Gli «eccentrici» <132 costumi americani sono oggetto di un’attenzione costante soprattutto da parte delle riviste popolari che descrivono minuziosamente la diversa percezione che la collettività ha della donna la quale non soltanto combatte in prima linea per l’acquisizione di maggiori diritti, ma diventa l’oggetto di numerose pubblicità che ritraggono la bellezza del corpo femminile. <133
[…] Tuttavia se negli articoli delle riviste, ci si limita ad una descrizione folkloristica delle attività concesse alle donne, nei reportages il comportamento femminile non è che una traccia per smascherare l’illusorietà di un mito.
[…] Il dibattito sulla nuova modernità, già vivace nel primo decennio del Novecento, si intensifica con lo scoppio della Prima guerra mondiale per l’intervento americano nelle vicende politiche europee che rivelò da un lato la forza militare, politica ed economia dall’altro pose a diretto contatto gli Europei, fin ad allora semplici osservatori, con la nuova realtà che si era andata elaborando oltreoceano
[…] Il forte impatto iniziale stimolato dalla martellante campagna pubblicitaria esaurì in breve tempo la sua portata, soprattutto in Italia, dove la vittoria sull’Intesa venne celebrata in termini nazionali più che come il risultato di una cooperazione internazionale, salvo poi, trasformarsi in mutilata a causa della politica americana dei quattordici punti che, in base al principio di sovranità nazionale, impedì l’annessione dei territori della Dalmazia e di Fiume. Per meglio comprendere questo cambiamento di percezione, sarà sufficiente ricordare due testi di Gabriele D’Annunzio, il primo, All’America in armi (1918) in cui viene celebrata la potenza militare d’oltreoceano, mentre il secondo, La preghiera di Sernaglia, pubblicato su «Il Corriere della Sera» del 24 ottobre del 1918, in cui il poeta attacca il presidente Wilson per la mancata annessione di Fiume all’Italia
[…] Con l’avvento del fascismo nel 1922, il mito americano, che fino ad allora aveva suscitato l’attenzione sia delle fasce sociali più basse che dell’élite intellettuale, subisce un brusco calo di interesse. Se da un lato, le masse popolari diventano il referente primario della propaganda fascista che, attraverso un massiccio uso dei mezzi di comunicazione (giornali, radio, cinema, cinegiornali), crea un altro mito, quello del Duce, rappresentato come un pater familia in grado di ridare all’Italia prestigio politico e benessere economico; dall’altro il dibattito intellettuale, mosso da una conoscenza più approfondita rispetto a quella del decennio precedente, si radicalizza su posizioni più estreme […]
[NOTE]
96 P.P. D’ATTORRE, Sogno americano e mito sovietico nell’Italia contemporanea in [a cura di] P.P. D’ATTORRE, Nemici per pelle. Sogno americano e mito sovietico nell’Italia contemporanea, Milano, Franco Angeli, 1991, p.18
97 A. GRAMSCI, Quaderni del carcere, Torino, Einaudi, 1975, p. 347
98 P.P. D’ATTORRE, Sogno americano e mito sovietico nell’Italia contemporanea in [a cura di] P.P. D’ATTORRE, Nemici per pelle. Sogno americano e mito sovietico nell’Italia contemporanea, Milano, Franco Angeli, 1991, p. 71
99 C. DALL’OSSO, Voglia d’ America. Il mito americano in Italia tra Otto e Novecento, Roma, Donzelli Editore, 2007, p. 6
100 G. MASSARA, Viaggiatori italiani in America. 1860-1970, Roma, Edizioni di Storia e di Letteratura, 1976, p. 57
101 A. MOSSO, Vita moderna degli italiani, Milano, Treves, 1906, p. 99
102 Cfr. A.M. BANTI, L’età contemporanea. Dalle rivoluzioni settecentesche all’imperialismo, Roma-Bari, Edizioni Laterza, 2009, pp. 382-383
103 E. FRANZINA, Le traversate e il sogno: viaggi per mare degli emigranti attraverso le fonti memorialistiche in [a cura di] S. MARTELLI, Il sogno italo-americano, Napoli, CUEN, p. 23
104 Citazione riportata in F. D’ESCOPIO, Francesco Jovine scrittore molisano, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1994, p. 50
105 C. LEVI, Cristo si è fermato ad Eboli, Torino, Einaudi, 1990, p. 73
109 V. LA BELLA, Le miserie dell’emigrazione. Gli italiani a New York in «La Domenica del Corriere», 29 Gennaio 1905
119 C. PAVESE, Cultura democratica e cultura americana in C. PAVESE La letteratura americana e altri saggi, Milano, Il Saggiatore, 1971, pp. 279-82
129 Cfr. V. DE GRAZIA, L’impero irresistibile. La società dei consumi americana alla conquista del mondo, Torino, Einaudi, 2005, pp. 246-247.
132 Cfr. C. DALL’OSSO, Voglia d’America. Il mito americano in Italia tra Otto e Novecento, Roma, Donzelli Editore, 2007, p. 105: «Americanate che un dizionario della lingua italiana oggi definisce “(scherz.) Impresa grandiosa, straordinaria, spesso incredibile […] / […] Avvenimento grandioso e di gusto eccentrico, quali si è soliti attribuire agli americani”. Dunque ai giorni nostri gli elementi costitutivi un’americanata sono sostanzialmente: eccentricità, straordinarietà, grandiosità e anche verosimiglianza. Ma ancor prima degli anni dieci, dal 1900 in poi, il mondo americano veniva variamente definito, nei titoli delle varie serie di notiziole o spigolature Curiosità americane, o Eccentricità americane, Vita americana, Meravigliosi episodi di vita americana, Costumi americani, Audacie americane, Scene americane, Le ultime meraviglie americane, Novità americane. Attorno al 1900, l’America è oramai codificata, protocollata come terra dell’inusuale».
133 A questo proposito Federico Garlanda arriva ad individuare nel ruolo predominante della donna nella vita americana la causa del materialismo americano. Cfr. F. GARLANDA, La nuova democrazia americana. Studi e applicazioni. Roma, Società Editrice Laziale, 1891, p. 67-69.
Federica Ditadi, Hollywood di carta. L’americanismo nei reportages italiani degli anni Trenta, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Padova, 2016