Complessivamente, il PCI non uscì indebolito dalla crisi apertasi con l’attentato a Togliatti


Senza dubbio, il momento fondamentale per lo sviluppo del culto della personalità di Togliatti fu l’attentato del 1948 <10.
Il 14 luglio 1948 Togliatti, appena uscito da Montecitorio con Nilde Iotti, fu colpito da tre colpi di pistola, sparati da Antonio Pallante, un giovane siciliano di estrema destra che, subito arrestato, dichiarò di aver progettato l’attentato da solo; immediatamente, però, si cominciò a parlare della collusione di Pallante con ambienti fascisti e socialdemocratici <11.
Alla notizia dell’attentato l’Italia comunista si mosse senza attendere le direttive del partito, proclamando lo sciopero generale; scontri e manifestazioni sospesero l’autorità dello Stato nelle maggiori città italiane: a Torino, gli operai della Fiat occuparono la fabbrica e presero in ostaggio sedici dirigenti; in tutto il Piemonte si riorganizzarono tempestivamente brigate partigiane; a Milano una trentina di persone rimasero ferite in scontri con la polizia <12; a Genova venne preso d’assalto un commissariato di polizia e furono devastate le sedi della Democrazia Cristiana e delle Acli; a Venezia gli operai presidiavano le fabbriche, la sede della Rai, il ponte sulla laguna; a Napoli furono allestiti nelle strade degli “altarini” con fiori e fotografie di Togliatti <13.
Roma fu presa d’assalto dagli operai: alcuni disselciarono la piazza di Montecitorio, gettando sassi contro i poliziotti di guardia al Parlamento, mentre le donne del popolo si recavano in massa in pellegrinaggio al santuario del Divino Amore a pregare per Togliatti <14. In piazza Esedra si svolse un grande comizio popolare, presieduto da Longo e D’Onofrio, che riuscirono a sedare l’impeto rivoluzionario della folla proponendo agli astanti di rendere omaggio al leader sfilando in silenzio davanti ai cancelli del Policlinico dove era ricoverato.
L’episodio insurrezionale più importante avvenne all’Abbadia San Salvatore, sul monte Amiata: i minatori armati occuparono la centrale telefonica dalla quale passavano le comunicazioni fra il Nord e il Sud della penisola <15. Numerosi episodi di violenza, inoltre, interessarono il piccolo centro: un camion di poliziotti fu investito da una bomba, che uccise due agenti; il pomeriggio del 15 luglio, in paese, una coltellata colpì a morte un maresciallo dei carabinieri. L’azione successiva delle forze dell’ordine assunse risvolti spettacolari, con rastrellamenti in montagna e “falsi” fotografici esibiti da L’Europeo e dalla Settimana Incom: furono arrestate novanta persone e nel 1950 si tenne un processo sommario che emise pesanti condanne <16. Su questi fatti, in particolare, si fondò l’accusa del governo democristiano che il Pci avesse preordinato un piano insurrezionale: il famigerato “piano K” <17.
La repressione dell’insurrezione fu molto dura e continuò per parecchi mesi, colpendo in particolare i quadri intermedi del partito e del sindacato. Furono rinviate a giudizio settemila persone, in particolare nel Sud e in Toscana; tra il luglio 1948 e la prima metà del 1950 furono uccisi dalla polizia 62 lavoratori – di cui 48 comunisti – mentre i feriti furono in totale 3.126. <18
La direzione del Partito e il sindacato furono colti di sorpresa dall’imponenza della mobilitazione di massa. La sera del 14 luglio la Direzione si riunì in seduta straordinaria: le posizioni dei dirigenti erano molto eterogenee, ma i vice-segretari Longo e Secchia riuscirono a imporre la decisione di sedare l’impeto insurrezionale; l’obiettivo dello sciopero doveva essere la dimissione del governo o almeno di Scelba, all’epoca ministro degli Interni, additato come maggior responsabile di quel clima di isteria anticomunista in cui era maturato l’attentato. Il 16 luglio la Direzione ordinò la cessazione dello sciopero, senza ottenere gli obiettivi che aveva fissato <19.
Nel frattempo Stalin inviò un telegramma alla Direzione del Pci, che venne pubblicato il 16 luglio in L’Unità. Il leader sovietico, a nome del Comitato centrale, espresse la propria indignazione per “il brigantesco attentato”, rimproverando gli “amici di Togliatti” che non erano riusciti a difenderlo. Nonostante le parole di indignazione e i rimproveri, comunque, neppure Stalin diede direttive insurrezionali.
Togliatti, intanto, operato con successo dal professor Valdoni, durante la sua degenza e la convalescenza seguì l’evolversi della situazione, leggendo i giornali e ricevendo i dirigenti del partito. Il 30 luglio L’Unità pubblicò un suo messaggio, nel quale ringraziava i medici che lo avevano seguito e i compagni e gli amici; il 1 agosto scrisse un editoriale per il quotidiano comunista nel quale, pur prendendo atto dell’inevitabilità dello sciopero generale, cercò di sedare gli animi e di mediare la situazione conflittuale che si era creata, non insistendo sull’ondata repressiva scatenata dal governo.
Togliatti rientrò pubblicamente nella vita politica partecipando alla festa dell’Unità, il 26 settembre. Mezzo milione di persone provenienti da tutta la penisola andarono a Roma per ascoltare il suo discorso, testimoniando uno spontaneo culto popolare della personalità di Togliatti.
In quella occasione, il regista Carlo Lizzani girò un documentario, “Togliatti è ritornato” <20. Il film mostra immagini rivelatrici dell’ampiezza del consenso che il Pci riscuoteva negli strati popolari della società italiana. Un corteo immenso sfilò nelle strade di Roma fino al Foro italico, dove si tennero i discorsi di Togliatti e di altri dirigenti comunisti; la folla mostrava squarci di folklore popolare regionale, combinati ai simboli ideologici dell’immaginario comunista (i ritratti di Marx, Engels, Lenin, Stalin, Togliatti). La grande manifestazione fu rievocata e analizzata da Pietro Ingrao nel 1990: “Quella giornata non fu solo di grande gioia. Fu un fatto politico(…). C’era stata una volontà deliberata nell’impostare la Festa: ogni organizzazione regionale portasse [sic] nel corteo romano una figurazione, un gruppo, una musica che fosse l’immagine della terra, della città da cui veniva (…) eravamo allora molto “nazional-popolari”, e in quello sforzo testardo di radicamento nel paese attingevamo anche dal folclore (…) Come direttore dell’ “Unità” io parlai brevemente: è stato il più grande comizio di massa in cui ho parlato nella mia vita (…). <21
[NOTE]
10 Su questa tematica cfr. in particolare: Giorgio Bocca, Palmiro Togliatti, Milano, Mondadori, 1991, pp. 501-522; Aldo Agosti Togliatti Torino, Utet, 2003, pp. 359-364; Massimo Caprara L’attentato a Togliatti. 14 luglio 1948: il Pci tra insurrezione e programma democratico Venezia, Marsilio, 1978; Walter Tobagi La rivoluzione impossibile. L’attentato a Togliatti: violenza politica e reazione popolare Milano, il Saggiatore, 1978, Giovanni Gozzini, Renzo Martinelli, Storia del Partito comunista italiano. Dall’attentato a Togliatti all’ VIII congresso Torino, Einaudi, 1998, pp. 22-71.
11 Cfr. Alberto Jacoviello I complici di Pallante in L’Unità, 24, 25, 27, 29, 31 luglio 1948, 1 agosto 1948.
12 Cfr. Tutta Milano in piazza in L’Unità, ed. dell’Italia settentrionale, 14 luglio 1948.
13 Gli “altarini” sono descritti in: Giorgio Amendola Il Pci all’opposizione: la lotta contro lo scelbismo, pubblicato in: Aa. Vv. Problemi di storia del Partito Comunista italiano Roma, Fondazione Istituto Gramsci, 1971, cit. p. 120:“ A Napoli, utilizzando una vecchia tradizione locale, furono collocati agli angoli delle strade dei tavolini con la foto di Togliatti, dei fiori e dei libri per la raccolta delle firme. Questi altarini, così furono chiamati dal popolo, furono circondati da folle di cittadini, i quali (…) espressero poi i loro sentimenti, firmando e raccogliendo decine e decine di migliaia di firme: un vero plebiscito (…).
14 Cfr. Francesco Jovine Un giorno d’angoscia in L’Unità, ed. dell’Italia settentrionale, 24 luglio 1948.
15 Cfr. Gino Serafini I ribelli della montagna. Amiata 1948: anatomia di una rivolta Montepulciano, Edizioni del Grifo, 1982; Sirio Mangalaviti, Le miniere dell’Amiata 1944-1978 Firenze, La Nuova Italia, 1979. Per una ricostruzione del moto v. anche Sandro Orlandini, Luglio 1948. L’insurrezione proletaria nella provincia di Siena in risposta all’attentato a Togliatti, Firenze, Clusf, 1976.
16 Sul processo v. Vittorio Bardini, Storia di un comunista Firenze, Guaraldi, 1977, pp. 106 sgg.
17 Cfr. Il piano “K” dei sediziosi esaminato dal Consiglio dei ministri in Il nuovo Corriere della Sera, 18 luglio 1948.
18 V. Delitti dell’anticomunismo. La repressione dopo il 14 luglio in Rinascita, a. XI, n. 8-9, agosto-settembre 1954, pp. 541 sgg.
19 Delle sedute del 14 e del 16 luglio non si trovano i verbali nell’Archivio del Pci, ma della seconda esiste la ricostruzione di Caprara, che ne aveva redatto il verbale, v. Massimo Caprara, ibid. , pp. 105 sgg.
20 Il documentario è stato riproposto in videocassetta unitamente al libro a cura di Nicola Tranfaglia ( a cura di ) Il 1948 in Italia. La storia e i film Firenze, La Nuova Italia, 1991. I lungometraggi (sicuramente il più famoso è senz’altro questo documentario) e le “filmine” prodotti dal partito circolavano largamente nelle federazioni ed erano distribuite a cura del Centro diffusione stampa. Sulla propaganda del partito attraverso le “filmine” cfr. A. Mignemi, La lanterna magica: le filmine elettorali del Pci in Istituto storico della Resistenza in provincia di Novara “P. Fornara”
21 Pietro Ingrao Le cose impossibili: un’autobiografia raccontata e discussa con Nicola Tranfaglia Roma, Editori Riuniti, 1990, cit. p.66.
Selene Bertolini, Il culto di Togliatti. I linguaggi e le immagini del capo nel Partito Comunista Italiano, Tesi di laurea, Università degli Studi di Pisa, 2007

In questo contesto di profonda agitazione e inquietudine sociale, rilevabile in tutto il paese, si verifica l’attentato a Togliatti il 14 luglio 1948: confusione, rabbia, tendenze estremiste portano in molte città alla determinazione di una situazione insurrezionale. La vicenda è nota: il segretario comunista viene ferito gravemente nei pressi del parlamento da Antonio Pallante; non appena la notizia inizia a diffondersi, in tutto il paese la Cgil proclama lo sciopero generale, gli operai occupano le fabbriche e le piazze si riempiono di una folla arrabbiata. Si percepisce l’attentato come il preludio ad un nuovo attacco frontale alle sinistre, dopo la sconfitta del 18 aprile, quasi il risorgere del fascismo. Ma, più in generale, dice Ginsborg, tutte le frustrazioni dei tre anni precedenti – il freno posto al movimento partigiano, il fallimento delle riforme, l’umiliazione della disoccupazione di massa, la sconfitta del Fronte popolare – tornarono in superficie. <438
La mobilitazione assunse forme diverse, con un tono decisamente più insurrezionale nel nord: a Torino, gli operai della Fiat prendono sedici dirigenti in ostaggio, tra cui l’Amministratore delegato Valletta; a Venezia, si fa prigioniero lo stato maggiore della Marina italiana; a Genova, infine, dove il movimento di protesta assunse chiaramente il potere della città, i lavoratori presero possesso dei carri armati dell’esercito.
Essendo Togliatti temporaneamente fuori gioco, il controllo del partito è assunto direttamente dai due vice-segretari Longo e Secchia, i quali applicano da subito senza mezzi termini la linea dei nervi saldi e del rientro di qualunque moto o tentativo insurrezionale. Secondo Aldo Agosti è da ritenere che “in quel momento scattino quei meccanismi di difesa che il partito ha predisposto per l’ipotesi di una provocazione e di un colpo di Stato, e che in qualche caso questi meccanismi sfuggano di mano, soprattutto per l’intervento degli ex-partigiani, a chi li aveva ideati. Certo è che Longo e Secchia […] non vogliono l’insurrezione, per lo meno non la vogliono in quel momento e in condizioni che giudicano sfavorevoli. Nella Direzione che si riunisce d’urgenza la sera del 14 luglio, però, non tutti appaiono ugualmente decisi a far rientrare subito il moto, e qualcuno è propenso a dare almeno una dimostrazione di forza in grande stile”. <439
PCI e CGIL (almeno la sua maggioranza socialcomunista) cercano dunque di impostare la protesta nei limiti della legalità e del discorso costituzionale, invocando anzitutto proprio la difesa della democrazia. Ma nell’appello che viene lanciato da l’Unità, <<Dimissioni del governo della discordia e della fame, del governo della guerra civile>>, emerge chiaramente quella contraddizione e quella confusione di fondo tra costituzionalismo democratico e rivoluzionarismo marxista-leninista di cui soffriva tutto il partito nuovo, non solo la base (con buona pace dei dirigenti che si credevano immuni dal primitivismo), ma anche i quadri e che si traduce in ambiguità: “Se la prima parte (<<per la pace interna, per la legalità repubblicana, per la libertà dei cittadini>>) indicava un’adesione al regime politico esistente in Italia, la seconda con la richiesta di dimissioni in blocco del governo senza peraltro avanzare una proposta alternativa di maggioranza rivela la contraddizione di quell’adesione di fondo a una cultura marxista-leninista, abituata a considerare la democrazia borghese un semplice involucro formale e mistificante delle ingiustizie di classe e la prospettiva di una rivoluzione violenta come lo sbocco naturale della lotta di classe”. <440
Emerge in tutta la sua drammaticità quel cortocircuito politico-culturale, dovuto al mancato chiarimento del nesso tra lotta democratica e lotta rivoluzionaria per il socialismo, che assieme all’autocefalia dell’esecutivo, avrebbe indebolito il Partito comunista italiano almeno fino alla destalinizzazione (che offrì un “aiuto” inaspettato alla risoluzione di questi nodi fondamentali).
Anche a Milano, dove il gruppo dirigente lombardo era stato sostituito dopo l’episodio Troilo, si vive questa contraddizione e ambiguità; vengono lanciate le parole d’ordine della <<lotta di massa aspra, ma non insurrezione per il potere>>.
Le tensioni insurrezionali del 14 e del 15 luglio mostrano una percezione probabilmente assai diffusa tra gli operai comunisti milanesi che <<il momento>> sia arrivato, sebbene l’inclinazione più specificatamente insurrezionale dell’azione a Milano pare sia rivolta soprattutto alla difesa degli impianti, in una sorta di dimostrazione di forza nella quale le armi sarebbero per lo più esibite o utilizzate a scopo intimidatorio, dato anche il numero limitato di vittime tra le forze dell’ordine. Il ridimensionamento del contenuto insurrezionale dei fatti milanesi appare, d’altronde, presto nelle relazioni prefettizie; se il 20 luglio il prefetto di Milano invia al Ministero dell’Interno una relazione nella quale si afferma che <<più che uno sciopero generale è stata attuata una vera e propria mobilitazione insurrezionale>> […], pochi giorni dopo il prefetto corregge le sue conclusioni iniziali, segnalando che <<di azione preparatoria e non di moto insurrezionale debba parlarsi>>. <441
Così Giorgio Manzini ricostruisce quella giornata vissuta da Giuseppe Granelli: “[Granel] si avvia a piedi verso viale Italia e appena sotto la cinta della Falck si sente chiamare dall’alto: <<Ohé, Granel>>. Dal muro sporge, a metà busto, un compagno col fucile a tracolla: <<Ma non sai niente? Non hai avuto la notizia? Togliatti è in fin di vita, gli hanno sparato alle spalle, vicino al Parlamento. È stato un fascista, uno pagato>>. Granel si mette a correre alla disperata, con lo stomaco che gli brucia. In fabbrica hanno già issato la bandiera rossa in cime all’acquedotto. Tutti i reparti sono fermi, e hanno spento i forni con la colata dentro. Si sono mossi ancora prima che arrivasse l’appello della Camera del lavoro, sciopero generale, presidio in tutte le fabbriche. È arrivata la stretta? È la prova decisiva? Si aspettano ordini e la confusione è un vortice che dilaga davanti alla portineria, dove sono comparsi alcuni cavalli di frisia. C’è sgomento, incredulità, sconforto, dolore, segno, rabbia. Cosa succederà se Togliatti muore?” <442
I vertici regionali e cittadini, nonostante la simpatia che alcuni potevano avere per le iniziative spontanee degli operai (come le barricate erette su tutte le principali strade di accesso alla città, che resterà di fatto isolata per tutto il 14 e anche parte del 15 luglio), cercano di impedire che la protesta assuma toni troppo estremi come accaduto da altre parti. Novella invita militanti e lavoratori a mantenere i nervi saldi; Alberganti gira per i principali stabilimenti occupati di Milano e Sesto San Giovanni, ordinando la smobilitazione. Mentre a Sesto San Giovanni gli operai utilizzano i vagoni dei treni per barricare gli stabilimenti e organizzano una difesa armata, a Milano gli incidenti più significativi avvengono alla Motta e alla Bezzi (dove erano già in corso le vertenze di cui abbiamo parlato), mentre si riunisce il Consiglio generale delle Leghe bracciantili e contadine per decidere il proseguo delle azioni nelle campagne circostanti (in quest’occasione avviene la prima scissione dei delegati democristiani dal Consiglio).
La Camera del Lavoro meneghina sembra differenziarsi rispetto alla linea del partito: il 14, mentre il PCI a livello nazionale invita a mantenere la calma per non far cadere i propri uomini in un tragico e definitivo errore greco, dirama un comunicato in cui invita gli operai a tenersi pronti a tutto, convocando uno sciopero indefinito e l’occupazione delle fabbriche; anche in questo caso come già in passato sembra piuttosto che la Cgil segua il movimento spontaneo dei lavoratori invece che dare il via al conflitto. Ma già il giorno successivo, dopo le proteste delle minoranze interne alla Cgil e l’ordine proveniente da Roma, i sindacalisti comunisti danno l’ordine di bloccare la mobilitazione: è l’estremo tentativo di salvare l’unità sindacale, ormai saltata definitivamente al vertice. Non è facile però riportare i lavoratori alla disciplina e al lavoro, e infatti in una relazione prefettizia e in quella del comandante dei carabinieri (rispettivamente, la prima e la seconda che riportiamo qui di seguito) è descritta la difficoltà dei dirigenti camerali a farsi obbedire: “I dirigenti camerali, investiti da invettive ed accuse di tradimento, cercavano di dominare la situazione, ma i lavoratori pretendevano di sostituirli con <<comitati di azione>> eletti tra di loro. <443 La delusione è stata così forte che alla Camera del lavoro verso le ore 15 del 16 luglio si è assembrata una folla cospicua di operai innervositi che inveivano contro i dirigenti camerali di parte comunista ed in particolare contro il dottor Busetto [sic], vicesegretario più in vista, che è stato accusato addirittura di tradimento. […] Esponenti prestigiosi come il senatore Alberganti, si sono dovuti mettere affannosamente in giro e promuovere comizi interni, in occasione dei quali hanno dovuto pronunziare discorsi con i quali smentivano quanto essi stessi avevano detto, soltanto trentasei ore prima, per montare la macchina prerivoluzionaria, con grande scapito del loro ascendente”. <444
Come ricordò sempre Granelli anni dopo a proposito di quelle giornate: “Lo sciopero rientra, un riflusso pigro, svogliato. Ci sono scatti di insofferenza, si formano zone di malumore, si addensano grumi di malcontento. Una gran fiammata per niente? Il lavoro stenta a ripartire, una ripresa che sa di mortificazione. Ma l’ha detto anche Togliatti, non fate sciocchezze, e la situazione non si poteva forzare. C’era un limite di guardia e poi c’era l’avventura. Resta però lo scontento, e la sensazione diffusa è che gli altri vorranno rifarsi dopo la strizza provocata da questo scossone”. <445
E infatti l’episodio non rimase senza conseguenze: già dal 18 un’ondata repressiva andò a colpire tutte le aree protagoniste degli episodi più estremi durante la protesta; licenziamenti di massa, denunce e processi per direttissima contro operai, ex partigiani e leader comunisti locali. In particolare a Milano in totale, le forze di polizia operano 221 fermi, 12 arresti ed effettuano 47 <<rimpatri coattivi>>, sequestrano 5 autocarri utilizzati dai dimostranti per il loro trasporto e subiscono un numero assai limitato di feriti in relazione alle forze messe in campo: complessivamente sono utilizzati 5817 poliziotti e 1074 carabinieri, di cui risultano feriti soltanto 1 funzionario di polizia, 20 guardie di Ps e due carabinieri. <446
Nelle fabbriche milanesi l’ordine di rientro, come abbiamo visto, scatena importanti discussioni interne. Si presentano tre correnti di pensiero principali: una che potremmo definire sindacalista, favorevole alla linea del partito, sostenitrice dell’impegno della forza insurrezionale dimostrata nelle battaglie sindacali; la seconda rivoluzionarista radicale, sintetizzabile in “o si fa la rivoluzione adesso o mai più”; una terza, minoritaria per la verità, rivoluzionarista gradualista: “la rivoluzione è un processo, portiamolo avanti progressivamente continuando a conquistare, per via extraistituzionale, i centri del potere e della produzione”.
Alla fine a prevalere è la linea disciplinata e, potremmo aggiungere, realista che porta alla smobilitazione. Tuttavia anche nei più realisti e disciplinati non manca la gelida presa di consapevolezza (la seconda, dopo i risultati del 18 aprile) sulla crisi di qualunque prospettiva insurrezionale e rivoluzionaria per lungo tempo: “E lì è stato il crollo. Perché in quel momento ci siamo resi conto che la rivoluzione non era possibile, mentre noi si era pensato di essere alla vigilia della presa del potere da parte della classe operaia. Fu chiaro che non era possibile. Avevamo la possibilità di prendere il potere ma la situazione non lo permetteva. La gran maggioranza del partito si è resa conto di questo e lì praticamente si è chiuso un ciclo. Con quella mazzata siamo andati in crisi. Tant’è vero che ci siamo chiesto che scopo aveva continuare la lotta. Il 14 luglio ha proprio determinato la chiusura di una spinta reale verso la rivoluzione. Ci diventava chiaro che la lotta si spostava su tempi lunghi, che la presa del potere non poteva più essere immediata”. <447
Complessivamente, il PCI non uscì indebolito dalla crisi apertasi con l’attentato, ma nemmeno rinforzato. Da una parte, la sua prospettiva insurrezionale subì un colpo decisivo, dall’altro si confermò la conventio ad exludendum nei suoi confronti, che peserà fino alla stagione del compromesso storico. Al tempo stesso, è la stessa cultura e opzione del conflitto antagonista che viene drasticamente ridimensionata, soprattutto nei suoi centri di maggiore forza, come appunto Milano. Mentre la restaurazione scelbiana ha nei giorni dello sciopero generale e soprattutto nella repressione successiva il suo consolidamento, ora pienamente legittimato.
La crisi economica e le riforme attuate per ricevere gli investimenti americani ERP, il pieno dispiegarsi dell’apparato di controllo dello Stato, l’epurazione dei lavoratori sindacalizzati protagonisti dell’ultimo triennio di conflitto: tutto ciò porta a un passaggio di fase nella politica del conflitto, che vede venir meno progressivamente l’aspirazione e le condizioni dell’autonomia di classe assieme alla possibilità di difendere il potere de facto di organismi di controllo sempre più ridotti e logorati. Il dualismo di poteri è ormai superato ed entro il 1950 sarà completamente scomparso anche dall’immaginario conflittuale.
[NOTE]
438 P. Ginsborg, op. cit., p. 157
439 A. Agosti, Togliatti, p. 361, Utet 1996
440 D. Della Porta, H. Reiter, op. cit., pp. 77-78
441 J. Torre Santos, op. cit., p. 315
442 G. Manzini, op, cit., pp. 96-97
443 Relazione del Prefetto di Milano al Ministero dell’Interno, Milano, 30 luglio 1948, cit. in J. Torre Santos, op. cit., p. 321
444 Lettera di Antonio Di Dato, Tenente Colonnello Comandante del Gruppo Milano Interno, Legione Territoriale dei Carabinieri di Milano, al Comando Generale Arma dei Carabinieri, Roma, Milano, 18 luglio 1948, cit. in J. Torre Santos, op. cit., p. 322
445 G. Manzini, op, cit., p. 99
446 J. Torre Santos, op. cit., p. 314
447 C. Bermani, op. cit., p. 108
448 G. Galli, op. cit., p. 186
449 F. Onofri, Classe operaia e partito, p. 48, Editore Laterza 1957, cit. in G. Galli, op. cit., p. 186
450 G. Galli, op. cit., p. 186
451 Verbale della Commissione Esecutiva della CdL di Milano allargata ai Segretari dei maggiori sindacati, 21 settembre 1948, pp. 4-5, cit. in J. Torre Santos, op. cit., p. 344
452 Cfr. A. Agosti, op. cit., p. 380
453 G. Crainz, op. cit., p. 238
454 Ibidem, p. 241
455 Ibidem, p. 246
456 Cfr. J. Torre Santos, op. cit., p. 347
457 Ibidem, pp. 246-47
Elio Catania, Il conflitto sociale: “motore della Storia” o “tabù” storico-politico. Il caso di Milano nel secondo dopoguerra, Tesi di laurea magistrale, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, Anno Accademico 2016/2017