Come una ninfa oreade

Musine Kokalari – Fonte: Giornale di storia cit. infra

Il volume La mia vita universitaria. Memorie di una scrittrice albanese nella Roma fascista (1937-1941), a cura di Simonetta Ceglie e Mauro Geraci (Viella, 2016) è stato presentato nell’ottobre del 2016 dall’Archivio di Stato di Roma e dall’associazione Occhio Blu Anna Cenerini Bova che ha tra i suoi scopi la diffusione nel nostro Paese di un’immagine articolata e realistica della storia e della cultura albanese. Nell’intento di diffondere un’informazione nuova e corretta dell’Albania, Occhio Blu Anna Cenerini Bova fin dalla sua fondazione nel 2000 è stata particolarmente attenta alle tematiche relative alla condizione femminile soprattutto quando, negli anni dopo la fine della dittatura, giungeva in Italia un’immagine negativa dell’Albania in gran parte veicolata dalla figura delle giovani donne sfruttate dal traffiking. Ma chi frequentava “il Paese delle aquile” in quegli anni è venuto a contatto con tutt’altra immagine delle donne albanesi: nei miei lunghi e frequenti soggiorni sul posto ho conosciuto la loro capacità di reagire alle difficoltà, le loro attività come protagoniste del cambiamento, a partire dal ruolo nella famiglia, ruolo di sostegno, di guida, se non di comando, ruolo nel lavoro con l’invenzione di nuove occupazioni, ruoli forti, anche se spesso non riconosciuti per il persistere di una mentalità che vede la donna inferiore, sottomessa, gregaria.
Ho trovato la conferma del mio convincimento nel testo di Musine Kokalari La mia vita universitaria che dà il nome al volume, così come negli illuminanti saggi di Mauro Geraci, Simonetta Ceglie e Visar Zhiti che introducono a una lettura approfondita.
Il taglio antropologico di Geraci e il suo entusiasmo di fronte al «sovrumano montare» di coincidenze di luoghi e date tra la sua vita e quella della studentessa albanese, le preziose informazioni documentali di Simonetta Ceglie con l’attenzione al processo di scrittura e agli effetti della guerra sulla vita della giovane Kokalari, insieme all’empatia del poeta Visar Zhiti per la sua poesia, suggeriscono chiavi di lettura e forniscono strumenti per una fruizione del testo articolata e perciò rispondente alla sensibilità di ognuno. Si percepisce la presenza di Musine, sostenuta anche dalle fotografie raccolte nel volume: immagini di documenti, abiti, luoghi, appartenenti al passato ma ancora eloquenti, con un effetto straziante di solitudine nelle ultime due fotografie della casa in cui la scrittrice albanese visse nei lunghi anni di internato a Rrëshen.
Il testo di Musine risponde alle domande suscitate dai saggi introduttivi nel lettore pronto a farsi catturare dal racconto. L’autrice costruisce il suo svelamento graduale in italiano, per lei lingua straniera, con competenza linguistica pari alla consapevolezza emozionale, raccontando un percorso che nasce dalla sua capacità di autoanalisi e da uno sguardo spesso delicatamente autoironico. Nella prefazione scrive: «Adesso sto per finire questo corso e quindi ho deciso di scrivere qualche mia impressione prima di lasciare l’Italia. Questo libro è una testimonianza personale della mia propria esperienza di vita e ancor più del mio pensiero. Ė una prosa naturale di vita quotidiana». <1

Fonte: Konferenca shkencore “Musine Kokalari: vetëdija e shkrimit dhe e qëndresës”, Biblioteka Kombëtare e Shqipërisë dhe Biblioteka Kombëtare e Kosovës, Tirana, 2018
Fonte: Konferenca cit.

[…] Ne deriva un equilibrio tra soggettività e oggettività, un’efficacia comunicativa con la quale Musine esprime tutti i valori in cui crede e che io, visitatrice straniera, ho avuto la possibilità di conoscere in molti aspetti della vita quotidiana delle donne albanesi anche se non eroici, visibili o esibiti: determinazione, disponibilità all’aiuto, preveggenza, saggezza, progettualità. La mia vita universitaria registra, senza toni enfatici, eventi quotidiani che spaziano da problemi di studio, di salute, di socializzazione, di amore, fino alla guerra che fa da sfondo agli anni universitari. L’effetto è non solo di equilibrio, intensità, densità ma anche affinità con l’oggi, che trova conferma in una serie di coincidenze.
Nel suo saggio introduttivo Geraci scrive: “Fu l’indicibile gioia per l’ulteriore, sbalorditiva coincidenza d’aver scoperto che tra le quattro palazzine del quartiere Nomentano abitate da Musine sul finire degli anni Trenta ve n’era una, quella di Viale XXI Aprile 8, che io avevo avuto modo di frequentare sin da ragazzo, dai primi anni Settanta, quando appena trasferiti da Palermo a Roma i miei trovavano lì i Fusco, carissimi amici di famiglia. In quell’elegante palazzina giallo chiaro – tra i freschi alberi quasi all’angolo con Via Nomentana, nel cui piccolo cortile, spesso senza far niente, rimaneva seduta sulla sedia giocherellando con le dita sul tavolo mentre l’aria fresca le accarezzava i capelli e gli occhi che osservavano i fiori nei vasi in piena fioritura – Musine soggiornò nel ‘38 appena giunta a Roma da Tirana, senza sapere che dagli anni Settanta quello stesso edificio sarebbe stato a lungo frequentato da un ragazzo che, nella sua stessa facoltà, sarebbe poi diventato l’antropologo culturale che nel Duemila ne avrebbe preso a cuore la sua stessa vita universitaria”. <2
Inoltre, in altre parti del suo saggio, Geraci fa spesso riferimento ai luoghi frequentati, in tempi diversi, da Musine e da lui stesso e Simonetta Ceglie e il resoconto dei movimenti della scrittrice albanese nel quartiere è stato ricostruito dettagliatamente dai curatori del volume. <3
Le coincidenze di tempi e luoghi con lo studioso di oggi si accompagnano a un’altra più sottile forma di condivisione, cioè la percezione di un passato collettivo e della sua presenza nel presente. Come Mauro Geraci è stato colpito dalla scoperta dei luoghi frequentati dalla giovane Kokalari, io sono stata profondamente sorpresa da quello che mi pare un esempio della presenza di un passato culturale condiviso con Musine che, descrivendo le sue passeggiate per Roma, scrive: “Nel riflesso dell’acqua, la vita mi sembrava un sogno, e in queste ore di solitudine ero pienamente me stessa e sentivo dentro di me una dolce inquietudine; di fronte a tanta bellezza ammiravo la grande opera di Dio. Così senza volere la mia anima si smarriva nell’immensità della natura, dove gli alberi, le piante, i fiori, fanno ornamento alla terra insieme col dolce canto degli uccelli. In questo stato di contemplazione, girando lo sguardo da una parte all’altra, con occhi socchiusi, mi sfuggivano i particolari, mentre ogni cosa sembrava vibrare”. <4
Sapeva l’autrice di evocare Leopardi? Intenzionale o no, il tema e le scelte lessicali rimandano a tutto ciò che per il lettore è associato all’Infinito leopardiano e ampliano e personalizzano il messaggio arricchendolo della dimensione evocativa della memoria […]
1 M. Kokalari, La mia vita universitaria, Memorie di una scrittrice albanese nella Roma fascista (1937-1941), a cura di Simonetta Ceglie e Mauro Geraci, Roma, ed. Viella, 2016, p. 112.
2 M. Geraci, La Muza albanese alla Sapienza. Vita e morte di un sogno universitario, in M. Kokalari, La mia vita universitaria, pp. 14-15.
3 M. Kokalari, La mia vita universitaria, fig. 14.
4 Ivi, p.116.
6 Ivi, p.132.
7 Ivi, p.198.
Anna Rosa Iraldo, Tempo e tempi nella prosa di Musine in Una Musa albanese alla Sapienza. Giornata di studi in onore di Musine Kokalari (Adana 1917 – Rrëshen 1983). Atti del convegno (a cura di Simonetta Ceglie), Giornale di storia 30 (2019), ISSN 2036-4938

[…] Silenzio ostinato e raffinato, quello di Musine, da intendere anche come strumento di replica al “nulla sociale” impostole dai servizi segreti, come un solipsismo d’autore ferreo e sconvolgente. Il silenzio di una martire, verrebbe da dire, che sopporta con fierezza e dignità la mutilazione di un corpo e di un pensiero.
Silenzio ostinato e freddo, quello delle istituzioni (politiche prima, sanitarie poi), di fronte alle richieste consegnate alla scrittura struggente di Musine malata terminale, colpita al seno, colpita al cuore, il cui corpo – specchio acustico di una solitudine senza appello – reclama dignità di ascolto.
Il viaggio nel silenzio di Musine Kokalari comincia presto, ben prima della sua reclusione politica, ben prima che la sua voce venga messa a tacere dall’orrore di un regime.
Comincia nel segno di una pedagogia al femminile incorporata forse nel contesto familiare e sociale di appartenenza. Paradigma di un’armonia e di una saggezza che si conquistano progressivamente, nel suo primo anno di studi universitari il silenzio è l’esito di un disagio linguistico e di una consapevolezza nuova: la lingua italiana appresa negli anni di formazione scolastica in Albania esige infatti una rinascita che incoraggia una stagione di tacita incubazione: «i primi mesi non aprivo bocca», ricorda nella sua autobiografia, segnalando come la sua condizione di disagio fosse condivisa dalle compagne di studi che, provenienti da «altri paesi italiani», si misuravano come lei per la prima volta con una lingua ufficiale così diversa da quella parlata nella sfera domestica e consegnata al linguaggio cifrato degli affetti.
Al silenzio forzato di quei primi mesi fa da contrappunto il pianto ristoratore delle ore notturne e un mondo onirico compensativo, terapeutico, che incoraggia un risveglio verso la nuova vita. Percorrendo retrospettivamente gli scenari urbani, le strade animate, l’euforia di un mercato, Musine non manca di segnalare l’insofferenza al rumore cittadino, la dissonanza delle voci e della folla urbana, quando con il suo corpo minuto ne attraversa in punta di piedi l’inquietudine.
Ancora al silenzio consegna il peso di un corpo che riconquista “a grandi passi” presenza ed emozione nella contemplazione di un riflesso d’acqua fluviale, sulle sponde del Tevere, di una tomba etrusca, di un Colosseo «immerso in un silenzio profondo» e condiviso dai visitatori resi muti dalla meraviglia della storia.
Al suo silenzio fanno eco altre voci femminili, rubate durante una breve sosta su una panchina del quartiere nomentano: le lamentele di due giovani cameriere nei confronti di signore intransigenti o le lodi riservate ai loro piccoli da due giovani mamme: chiacchiere, scrive Musine, plasmate secondo il grado di cultura o la posizione sociale; voci che evocano innocenti menzogne, ma alle quali «è peccato non prestare fede», perché incarnano l’eco acustica di una storia al femminile che si nutre di modesti scenari privati, di una sfera domestica nella quale la vita scorre nel segno di un’armonia di genere, per lo più interdetta all’ascolto degli uomini.
Silenzio e qualità di ascolto nutrono anche i viaggi di ritorno di Musine in Albania: estati trascorse con l’amica di scuola, sempre allegra, in contrasto con la sua natura taciturna; momenti contemplativi di fronte a un paesaggio marino, giornate passate «ad ascoltare soltanto» per raccogliere i racconti, i canti, gli usi e i costumi popolari di Argirocastro, il paese di residenza, resi a lei come un dono da donne adulte, madri e nonne, sorprese di fronte a un interesse così inconsueto per il loro mondo.
Un silenzio malinconico accompagna Musine studentessa al suo rientro a Roma, quando l’autunno sveste la natura, in quei momenti di solitudine in cui il pensiero, per motivi incomprensibili e inesprimibili, lascia libera la strada a un umore sordo e cupo. Ed è ancora facendo leva sul silenzio che sopporta il dovere di assistenza ospedaliera prima verso un giovane parente albanese afflitto dalla tubercolosi e ricoverato a Roma, che giorno dopo giorno vedrà spegnersi senza versare una lacrima; poi verso il piccolo nipote, costretto a mesi di ricovero e a ripetuti interventi correttivi per una lussazione congenita dell’anca: «non parlavo quasi mai, e l’amica mi lasciava stare». Nella lunga estate romana dedicata alle cure al nipote e alla scelta dell’argomento per la tesi di laurea, il silenzio sarà compagno del riposo pomeridiano in un angolo silenzioso del Verano, sotto i cipressi silenziosi che la riportano a un’infanzia in cui, timida e silenziosa, ascoltava durante gli inverni rigidi del suo paese il fischio acuto delle punte tormentate dal vento.
Nel segno di un silenzio disorientato Musine accoglie anche l’amore di un giovane il cui nome non verrà mai rivelato; un collega di studi che da principio guadagna la sua stima, che frequenta con spirito amicale e che infine corrisponde in un sentimento amoroso che tuttavia le sollecita poca serenità e una profonda lotta interiore. E così, mentre il ragazzo lamenta il suo silenzio come un segno di scarso coinvolgimento, Musine si chiede se un legame troppo intenso non rischi di compromettere il bene inalienabile della sua libertà. Alla fine della storia, contorta e corrotta da piccole miserie quotidiane, Musine conclude che se l’amore è bello «più bella ancora è la liberta dello spirito, quando l’anima non è imprigionata in un pensiero unico che tutto assorbe, ma erra come cosa selvatica […]. L’uomo è nato per vivere solo». <4
Nelle ultime stagioni romane i giorni si susseguono tra impegni, attese e nostalgia di futuro: nonostante gli eventi storici di quegli anni incoraggino uno sguardo di disincanto, il rientro in Albania finisce per essere il ritorno a un “paese interiore” il cui richiamo appare a Musine come l’ultimo atto dovuto, al termine di un’esperienza formativa condotta nel segno di quel rigore etico che convertirà la Muza o la Tacita della prima giovinezza in una irriducibile intellettuale dissidente. Nei quattro anni che intercorrono tra il rientro in patria e l’arresto, il processo sommario, la condanna, la sua voce si farà sentire forte e chiara: sarà La voce della libertà, come l’organo di informazione del neonato Partito socialdemocratico e come voce di denuncia della miseria della società rurale, delle discriminazioni politiche, dei pericoli di un populismo comunista di cui coglie subito il potenziale distruttivo e violento.
Sarà la voce che invoca elezioni democratiche, che chiama all’appello le rappresentanze diplomatiche dei paesi occidentali, che viene avvertita in tutto il potenziale deflagrante dallo Stato comunista.
Una voce nel silenzio o la voce di un silenzio rivelato che contagia e condanna senza appello.
A chi nei durissimi anni di detenzione tenterà di estorcerle confessioni, pentimenti o ritrattazioni, Musine Kokalari replicherà con una coerenza che le varrà la condanna a un silenzio a vita.
Come una ninfa oreade, come la ninfa Eco signora della solitudine montana, come parabola mitica di una voce penetrante, Musine diventerà simmetrica alla solitudine del suo unico amante: un popolo vessato e condannato da un regime perverso al silenzio politico, alla digressione vocalica e alla consunzione melanconica.
Ma se è vero che non si può immaginare il silenzio senza una contestualizzazione del linguaggio, il silenzio di Musine merita oggi una forma nuova di risarcimento storico.
Occorre dissodarne il campo semantico, è necessario restituirlo alla sua ossimorica polifonia storica e poetica […]
4 M. Kokalari, La mia vita universitaria, p. 185.
Laura Faranda, Musine Kokalari e il silenzio svelato in Una Musa albanese… op. cit.

Musine Kokalari.15 dicembre 1941. Diploma di laurea. Regia Università degli studi di Roma (ASS)  – Fonte: Giornale di storia cit.
Musine Kokalari a Villa Borghese di Roma – Fonte: Konferenca cit.

[…] Il famoso romanzo di Jan Potocki, libro di grande suggestione, inventa un manoscritto trovato a Saragozza; analogamente La mia vita universitaria di Musine Kokalari si potrebbe dire essere un “manoscritto trovato alla Sapienza”. Questo titolo avrebbe inoltre una carica evocativa; è stato appena detto con grande senso di pietas da Emanuela Prinzivalli che tanti volti di fratelli e sorelle sconosciuti non giungono alla notorietà; è anche vero che questa ragazza che venne a studiare nella nostra Sapienza suscita in noi atteggiamenti paterni, non paternalistici, non con quell’accondiscendenza con cui molte volte fingendosi padri si ribadisce una gerarchia sul figlio. Sentimenti paterni perché Musine è tenera, tenero fu il suo sguardo incantato, malinconico ma anche acutissimo e voglioso di conoscenza.
Penso che la prima lezione di questo manoscritto attenga al fatto che la conoscenza debba essere amata, perseguita come obiettivo da raggiungere; bisogna impegnarsi, giungere all’Università, attraversarla, dev’essere una conquista faticosa. È stupido pensare di trovare scorciatoie, tentando comunque di presentarsi all’esame anche se impreparati, così tanto per provarci; mi rivolgo ovviamente a quei giovani che affrontano gli esami con superficialeleggerezza, così tanto per laurearsi comunque e al più presto. No, l’importante non è tanto il laurearsi; è il come laurearsi che è importante. Perché l’università è anche, e soprattutto, alto momento formativo; nella formazione di modelli culturali, di obiettivi, di disciplina interiore ed esteriore. E anche qui Musine diventa esemplare suddividendo le proprie giornate italiane tra lo studio, la scrittura e il vagabondaggio.
Nel suo scritto autobiografico come nell’organizzazione della sua giornata è possibile notare questa chiara tripartizione del tempo in cui il vagabondare, il fantasticare – sottolinea a un certo punto Musine – non è mai inutile perché ogni volta lei stessa ne risulta arricchita.
Ecco perché considero questo libro esemplare e penso che chi ancora non lo conosce è bene che lo acquisisca e lo goda tutto, dalla prima all’ultima pagina. Anche se ne abbiamo avuto sufficienti esempi dalla bravissima attrice Carlotta Caimi attraverso i brani che ha appena letto, altri brani sono citati ad esempio da Franco Altimari, segno che ognuno ha riportato altre parti perché questo manoscritto possiede una capacità partecipativa e d’urto notevole […]
Luigi M. Lombardi Satriani, Lo sguardo incantato di Musine Kokalari: l’antropologia come poesia di libertà in Una Musa albanese… op. cit.

Fonte: Konferenca cit.

[…] Dovete sapere che nella mia famiglia si parlava sempre – in particolare mia nonna ne parlava fino all’infinito – di tutto quello che succedeva o che era accaduto prima. Ricordo che mio padre mi raccontò con molti particolari prima di morire come è cominciata questa triste storia. Mi disse: «Si sono aperte le porte e io non ho capito niente in quel momento lì. Stavo con la mamma in cucina e – ripeté – qualcuno ha spalancato le porte. Sono entrati tanti uomini in casa e in cortile … ben rammento mia zia che scendeva le scale in vestaglia e mia madre che urlava; poi sono svenuto e non ricordo più nulla …. di sicuro mi hanno portato via da qualche parte». Un’altra immagine forte di zia Musine nella memoria di mio padre risale a un anno dopo questa tragica giornata, quando egli tornò da scuola e trovò di nuovo il cortile pieno di gente in uniforme. Allora corse dalla mamma (da mia nonna) e, chiedendole cosa stesse accadendo, questa rispose: «Va’ ad abbracciare tua zia perché la portano via!» Quegli uomini difatti stavano portando via la zia, portando via i libri dagli scaffali, i documenti, tutto il resto… e lei cercava di tranquillizzare mia nonna dicendole: «Non ti preoccupare! Tornerò presto». Ma non sarebbe mai più tornata in quella casa e, anzi, tutta la famiglia avrebbe dovuto lasciare la casa.
[…] Musine venne anche altre volte da noi, poi c’è stato un periodo di allontanamento e lei non è più venuta a Tirana. Questo si spiega bene leggendo il suo dossier, in cui si dice che il suo codice di sorveglianza passò da II B a II A. Ciò significava che era proprio vicina a tornare in prigione di nuovo; così decise di tagliare i ponti con tutti per proteggere gli altri e per proteggere anche se stessa. Un altro ricordo, molto doloroso, è la visita in ospedale. Alla fine, erano passati quasi cinque anni dall’ultima volta che avevo incontrato la zia; non la vedevo da tanto ma la ricordavo bene. Chiamata, mi recai subito in ospedale ma lei non mi riconobbe perché mi aveva lasciato che avevo dodici anni e mi aveva ritrovato diciottenne. Allora mi presentai e ci fu un momento molto bello … Musine aprì le sue braccia e ci abbracciammo: è stato un lungo, silenzioso abbraccio. Così mi emozionai (avevo solo diciotto anni) e cominciai a piangere. Fu lei a scuotermi appena comprese che stavo piangendo e mi disse: «Nessuno deve vedere le lacrime nei tuoi occhi!» A quelle parole mi ripresi perché capii che non ero io a dover piangere ma lei; poi mi parlò della famiglia e mi chiese di tutti. Volle che portassi mio fratello Vesim che porta il nome di suo fratello (cioè di mio nonno) fucilato nel 1944. Risposi: «Va bene, te lo porto qui!». Mi disse di no, voleva scendere lei. Scese le scale e lo abbracciò lungamente, con un abbraccio ancora più emozionante del mio: era come se abbracciasse suo fratello. … Poi ci sono anche altri ricordi, anche più strazianti, quelli della malattia, della morte, ecc. ma non voglio parlare di questo perché oggi è un giorno di festa, una celebrazione.
Quando abbiamo deciso di fondare a Tirana l’Istituto Musine Kokalari, avevo un po’ di perplessità di fronte alle molte incognite e difficoltà del progetto. Abbiamo poi pensato che se fossimo riusciti a stampare anche una sola delle sue opere sarebbe stata una grande vittoria […]
Karolinë Kokalari, Ricordi di Musine Kokalari in Una Musa albanese… op. cit.