Come prevedeva il socialista Mauro Seppia, la Commissione d’inchiesta P2 non sarebbe stata mai segreta

I lavori di commissione [Commissione d’inchiesta P2] iniziarono il 9 dicembre del 1981. La sede era San Macuto [a Roma ], un tempo palazzo della Santa Inquisizione. In quelle stanze era stato processato Galileo Galilei per le sue teorie sul cosmo. La struttura era direttamente collegata alla Piazza del Collegio Romano, un tempo scuola gesuita poi diventato la sede del Ministero per i Beni e le Attività culturali. San Macuto era un luogo fitto di deputati e giornalisti ma anche di molti studenti universitari di lettere e scienza politica per la sterminata biblioteca di cui era dotato. La sede, di proprietà della Camera dei Deputati, era stata scelta per la prassi secondo cui il luogo di lavoro di ogni inchiesta bicamerale doveva afferire alla Camera di appartenenza del Presidente della commissione, in questo caso il deputato Tina Anselmi. Tale prassi determinava alcuni aspetti procedurali: non solo la sede, ma anche il regolamento, il funzionamento dei lavori e il regime archivistico dei documenti acquisiti e prodotti sarebbero stati posti sotto diretta tutela e responsabilità della Camera dei Deputati.
Tutto il materiale doveva essere esaminato prima dall’Ufficio di Presidenza, che vi faceva apporre gli estremi del protocollo poi dai membri della Commissione. I documenti così ufficialmente istituzionalizzati venivano classificati secondo una delle seguenti categorie: a) documentazione libera, ossia quelle fonti che erano già state pubblicate e quindi conosciute; b) documentazione riservata, che riguardava tutte quelle fonti che erano state prodotte dalla Commissione ma non ascritte al vincolo della segretezza; c) documentazione segreta e quindi non pubblicabile <119. Se i documenti liberi erano accessibili a tutti, quelli riservati erano estensibili oltre che ai membri della Commissione soltanto al personale autorizzato dal Presidente. Invece i documenti segreti non erano in alcun modo riproducibili nè estensibili a nessuno al di fuori dei membri dell’inchiesta parlamentare. Almeno in teoria. Perchè nella sostanza tutti i commissari sapevano che i documenti, anche quelli più riservati, sarebbero usciti da Palazzo San Macuto. Come prevedeva il socialista Mauro Seppia, infatti, questa commissione non sarebbe stata mai segreta dal momento che troppi erano gli interessi interni e troppe le pressioni esterne. <120
A quali interessi e a quali pressioni si riferivano le parole del deputato socialista lo si può ricostruire mettendo insieme alcune parole scritte dai protagonisti della commissione. Il Presidente Anselmi nei suoi appunti racconta che il 30 ottobre 1981 veniva invitata da Nilde Iotti, deputata del Partito Comunista Italiano e Presidente della Camera, ad assumere la presidenza della commissione parlamentare d’inchiesta sulla Loggia massonica P2. Il Presidente della Camera aveva pensato a Tina Anselmi sia perché entrambe erano state partigiane durante la Resistenza sia, come ha sottolineato l’ex segretario della Anselmi Vincenzo Giaccotto, perché “la Iotti temeva l’indicazione del nome del Presidente della commissione da parte del Presidente del Senato Fanfani, oltretutto politicamente legato a Forlani, e precedette tutti indicando una democristiana” <121.
Racconta la Anselmi che prima di acconsentire ci pensò appena quindici minuti: quindici minuti durante i quali aveva telefonato a Leopoldo Elia, Presidente della Corte Costituzionale dal 1981 al 1985, che le aveva consigliato di accettare l’incarico propostole dalla Iotti. Poco più di un mese dopo l’insediamento, il 5 dicembre del 1981, lo stesso Leopoldo Elia le indicava anche le linee guida da seguire nel corso dell’inchiesta: indagare sulla presidenza Saragat, approfondire l’influenza della massoneria contro la candidatura di Aldo Moro alla presidenza della Repubblica, fare luce sull’ultimo viaggio del leader democristiano negli Stati Uniti d’America. Ma soprattutto le aveva suggerito quale avrebbe dovuto essere il “compito storico” della commissione d’inchiesta: “con la giustizia determinare il cambiamento di una parte della classe dirigente del paese, compresa quella della Democrazia cristiana” <122
Il ceto politico, già ampiamente screditato, rischiava di lacerarsi ulteriormente se avesse trovato nella commissione un ennesimo attore potenzialmente capace di incrinare il suo ruolo di protagonista della vita democratica, troppe volte percepito sotto l’assedio di alcune procure della Repubblica <123. Come quella di Milano ad esempio, da cui il giudice istruttore Gherardo Colombo avrebbe scritto più tardi: “quando assieme a Giuliano Turone sequestrammo a Castiglion Fibocchi l’elenco degli iscritti alla Loggia P2, per alcune settimane i politici si arrovellarono la testa per capire chi muoveva quei giudici così zelanti: a chi rispondevano e per quale disegno agivano”. <124
Gli studi coevi di Alberto Predieri insistevano da tempo sulla crisi del processo parlamentare <125, all’interno del quale la burocratizzazione sembrava plasmare l’agenda del potere politico e non era chiaro se lo facesse “contro gli interessi degli uomini di partito oppure perché ministri e sottosegretari o addirittura interi partiti avevano delegato loro questo compito <126”. Questa dilatazione burocratica che bloccava il processo decisionale del Parlamento, stava portando ad inizio anni Ottanta a fratture profonde nel rapporto tra cittadini e partiti intesi come terminali delle domande collettive. “La società percepisce che con questo inserimento nel sistema, ai partiti viene a mancare quel carattere tipico di associazione spontanea al di fuori del sistema e insieme in esso agente. La mancanza lascia scoperta la funzione tipica dell’epoca moderna dei partiti […] di aggregatori di domanda e non di selettori del personale dell’apparato. Con la conseguenza che altre organizzazioni non partitiche ma soprattutto di massa stanno avviandosi ad assumere il ruolo di aggregazione di domande politiche sui temi fondamentali che erano dei partiti <127”. A livello esecutivo le pressioni politiche erano dirette verso i singoli ministri “veri e propri feudatari del loro territorio”, quasi mai controllati e coordinati dal presidente del Consiglio: questo tipo di pressioni trovava terreno fertile nella “sostanziale incongruenza programmatica fra i vari partner e addirittura nella concorrenza esplicita” nell’ambito dei rapporti con i gruppi d’interesse. <128
Perfino i giudizi del Censis descrivevano quegli anni come “di ossidazione e corrosione delle istituzioni, con le troppo evidenti tendenze ad usare il pubblico come strumento di interesse privato” così da produrre “una società che si sente non governata” che finiva “per esprimere al proprio interno una specie di dislocazione selvaggia, particolaristica, furbastra e conflittuale dei poteri e delle decisioni” in cui tutto c’è tranne moralità collettiva, coscienza civile, senso delle istituzioni, rispetto delle regole del gioco statuale:
“Da un lato si vuole la più ampia possibilità e libertà di esplicazione dei comportamenti individuali e collettivi, dall’altro si chiede una totale protezione pubblica […]. Il massimo dell’individualismo con il massimo della protezione, quasi una società della bisaccia […]. Ma è accettabile una tale propensione senza perdere il senso della responsabilità, nell’illusione che tutto sia comunque possibile?” <129
Sebbene la politica sembrasse defilata, di fronte all’aumento dell’interesse giudiziario intorno alle vicende della Loggia massonica P2 la reazione di una parte del Parlamento aveva trovato sintesi nell’intimidazione della magistratura e dei suo rappresentanti. Dieci giorni dopo la presentazione del governo Spadolini il segretario del partito socialdemocratico Pietro Longo, anch’esso citato negli elenchi P2, accusava che lo scandalo era stato prodotto per “motivi politici” e frutto di un “eccesso di scandalismo e criminalizzazione di massa” e chiedeva che venisse inserita nel programma di governo una netta delimitazione dei poteri del pubblico ministero <130. Dall’altra parte le opposizioni, Partito Comunista in testa, si limitavano a dare lezioni di moralità sottolineando che il processo degenerativo in atto non dipendesse dalle deficienze della Costituzione ma dal sistema di potere democristiano <131.
L’atteggiamento generale rischiava di fondere assieme azione giudiziaria ed inerzia legislativa, creando nell’immaginario collettivo una nuova categoria: quella del giudice politico, che pochi anni più tardi Mannheimer avrebbe definito “l’unico contraltare cui la gente sta attenta”. Tuttavia nell’ombra delle stanze di partito erano molti a sapere che ogni avviso di garanzia con destinazione politica era destinato a direzionare lo svolgimento della crisi in atto, <132, tanto che nel documento programmatico del neonato governo Spadolini si poteva leggere: “La credibilità dello Stato democratico, in un momento in cui per cambiamenti sociali profondi e per errori di attenzione politica, è affidata per molta parte all’opera della magistratura. Questa responsabilità di tipo nuovo è per un certo senso politica” <133.
Se il compito storico della commissione, coadiuvata dalla giustizia, era dunque quello di determinare il ricambio di una parte della classe dirigente del paese e se l’inchiesta parlamentare avesse seguito la medesima disomogeneità culturale che stava producendo continui attriti e contrasti tra la magistratura e il potere politico, quelle poche parole suggerite da Leopoldo Elia e così diligentemente appuntate nel suo diario da Tina Anselmi potevano produrre ancor prima dell’inizio dei lavori una frattura all’interno della commissione.
Inoltre accanto alle strutture strettamente parlamentari, ossia riferibili all’organico della Camera, la commissione si era avvalsa nel corso dei mesi della consulenza di alcuni collaboratori esterni, i quali avevano il compito di fornire l’assistenza necessaria sugli aspetti più complessi delle indagini ed offrire una sponda sulle diverse questioni giuridiche, bancarie e in generale tecniche che di volta in volta si sarebbero proposte in seno all’indagine. Ancora una volta Leopoldo Elia aveva suggerito al Presidente Anselmi alcuni nomi di esperti ai quali rivolgersi: Carlo Moro, Fulvio Mastropaolo, Pierpaolo Casadei Monti, Eugenio Selvaggi, Tommaso Morlino <134. Il più importante tra questi, data la sua biografia in ambito non soltanto giuridico ma anche civile, era il magistrato Giorgio Battistacci, ex partigiano, poi Presidente del Tribunale dei minorenni di Perugia e primo consigliere della Corte di Cassazione. Rileggendo gli scritti e gli atti dei convegni a cui Battistacci aveva partecipato, il suo nome aiutava a contestualizzare meglio il nuovo corso che stava inaugurando questa commissione d’inchiesta. La formazione civile che guidava le sue parole lasciava scorgere una impostazione nuova, dove emergeva la denuncia del continuo demandare la soluzione di ogni problema all’amministrazione giudiziaria, la mitizzazione dell’intervento del giudice, “sia pure di un giudice nuovo e fornito di mezzi e strutture adeguate”. Mentre per altro verso si chiedeva che l’azione politica tornasse ad incidere nei settori essenziali della vita del paese. Battistacci era un punto di riferimento per chi credeva che non bastasse avere giudici esperti e preparati e neppure strutture giudiziarie idonee “se non si individuavano i reali bisogni, se non si individuavano le vere esigenze della società, le cause politiche del disadattamento e della criminalità”. <135
Al quadro caotico di inizio lavori faceva da sfondo la pressione insistita di giornalisti e taccuini assiepati fuori dalla sala riunioni, alla ricerca di notizie esclusive e documenti riservati a dimostrazione del clamore che presso l’opinione pubblica stava suscitando la commissione d’inchiesta P2. Il suo compito era quello di appurare le finalità di una organizzazione che la stampa aveva già definito piramidale, al cui vertice sedeva il “grande . Più che una figura consulenziale, Battistacci sembrava incarnare una chiave di lettura chiara: l’espressione giudiziaria di un progetto politico. Ed anche un monito per chi credeva che l’indagine parlamentare sulla Loggia massonica P2 sarebbe stata semplice mimesi.
Al quadro caotico di inizio lavori faceva da sfondo la pressione insistita di giornalisti e taccuini assiepati fuori dalla sala riunioni, alla ricerca di notizie esclusive e documenti riservati a dimostrazione del clamore che presso l’opinione pubblica stava suscitando la commissione d’inchiesta P2. Il suo compito era quello di appurare le finalità di una organizzazione che la stampa aveva già definito piramidale, al cui vertice sedeva il “grande vecchio” e alla base si muoveva un oscuro gomitolo di affari e potere <136. Era una vicenda certamente di costume che appassionava e insieme indignava la società italiana. Nel centro di Roma, in un’area di meno di un chilometro quadrato si trovavano le sedi della Camera dei Deputati, in stretta contiguità con le sedi dei partiti politici e quelle dei giornali. In quella piccola porzione di città tutti conoscevano tutti e tutti parlavano con tutti. Ci si incontrava ovunque in un ambiente definito dal segretario di commissione adrenalinico nel quale: “l’imperativo era sempre quello di essere informati. E così lo scambio delle informazioni, l’accennare senza approfondire, era il sale quotidiano delle conversazioni in un mondo nel quale il confine tra realtà e menzogna non era nemmeno detto essere rilevante” <137.
Le notizie d’altronde potevano correre veloci e con una certa frequenza anche per il nutrito numero all’interno della commissione di parlamentari della Repubblica che avevano un passato nel mondo della stampa.
[NOTE]
119 CP2, 2-ter/2, Predisposizione del programma di lavoro, 26 gennaio 1982. .
120 CP2, 2-ter/1, Resoconti Stenografici, M. Seppia, p. 91.
121 L’appoggio della Iotti a Tina Anselmi non sarebbe mai venuto meno, sostiene Giorgio Frasca Polara, all’epoca portavoce dell’onorevole Iotti: “Dal giorno dell’insediamento, fino alla chiusura della commissione, capitava di incontrare l’onorevole Anselmi nell’ufficio della Iotti, e seguendo ancora una volta i miei ricordi personali, posso dire che il presidente della commissione ebbe fin da subito la percezione della delicatezza del suo compito. Lo diceva senza esitazioni e, proseguendo nel suo impegno, andava prendendo sempre più coscienza dell’ampiezza delle articolazioni, dei legami, e del fatto che l’evento – la Loggia P2 di Gelli – chiamava in causa più poteri”.
122 A. Vinci, I diari di Tina Anselmi, Milano, Chiarelettere, 2011, p. 18.
123 Cfr. P. Borgna-M. Cassano, Il giudice e il principe. Magistratura e potere politica in Italia e in Europa, Roma, Donzelli Editore, 1997; A. Meniconi, Storia della magistratura italiana, Bologna, Il Mulino, 2012; P. Borgna (a cura di), La magistratura tra politica e autonomia, «Nuova Antologia», gennaio-marzo 1995; E. Bruti Liberati, La magistratura dall’attuazione della Costituzione agli anni Novanta, in G. De Rosa-G. Monina, L’Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003.
124 G. Colombo, Il vizio della memoria, op.cit.
125 Cfr. A. Predieri, Il processo legislativo del Parlamento italiano: analisi delle politiche legislative, Mialno, Giuffrè, 1981, p. 358-359; sempre di Alberto Predieri, Mediazione e indirizzo politico nel Parlamento italiano, in Rivista della scienza politica, 1975.
126 G. Pasquino, Istituzioni, partiti, lobbies, Bari, Laterza, 1988, pp. 107, all’interno del quale vengono messe in luce le due particolarità della burocrazia italiana, e cioè la sua funzione di reclutamento e nomina “partitica “ e la permanenza negli uffici non solo dei burocrati, ma anche dei ministri; cfr. P. A. Allum, Italy, republic without government?, Weidenfeld & Nicholson, Anatomia di una repubblica. Potere e istituzioni in Italia, Milano, Feltrinelli, 1976.
127 A. Predieri, Il processo legislativo, op. cit., p. 361.
128 G. Pasquino, Istituzioni, partiti, lobbies, op. cit., pp. 133.
129 Censis, Ripercorrere gli anni Ottanta, Franco Angeli, Milano, 1992, p. 15 e ss.
130 A. Rapisarda, Il tema della giustizia accende il dibattito sul nuovo governo, «La Stampa», 11 luglio 1981: “Con una mossa a sorpresa i socialdemocratici (partito di governo) hanno annunciato ieri mattina che non firmeranno la mozione di fiducia che sarà messa in votazione oggi alla Camera, se Spadolini non darà loro assicurazione sui problemi della giustizia. L’annuncio lo ha dato il segretario socialdemocratico Pietro Longo, primo oratore della mattina nel dibattito sulla fiducia a Montecitorio.
131 E. Berlinguer, «La Repubblica», 25 novembre 1981.
132 R. Mannheimer, «L’Osservatorio», 1994.
133 Camera dei Deputati, VIII Legislatura, Atti Parlamentari, Discussioni, 10 luglio 1981, “Intese programmatiche per il nuovo Governo”, pp. 30950 e ss.
134 Diari di Tina Anselmi, op. Cit. p.17.
135 G. Battistacci, Le strutture giudiziarie e la comunità locale, in V. Mele (a cura di) Giustizia e politica delle riforme, Roma, Dedalo Edizioni, 1978; cfr. anche G. Battistacci, Relazione al Convegno: Condizione carceraria in Italia: realtà e prospettive, Spoleto, 25-26 novembre 1978.
136 E. Scalfari, Da Sindona a Gelli, ma anche P. Buongiorno-M. De Luca, Storia di un burattinaio, in A. barberi (a cura di), L’Italia della P2, Milano, Mondadori, 1981. . Il problema del travaso di notizie verso l’esterno veniva stigmatizzato dal senatore della Sinistra indipendente Riccardelli il quale apriva una polemica con gli stessi commissari: “Ma poi chi giudica i giudici della P2? Ogni
137 Tommaso Di Ciommo, Prefazione ad op. Cit., p. XVII.
Lorenzo Tombaresi, Una crepa nel muro: storia politica della Commissione d’inchiesta P2 (1981-1984), Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”, Anno Accademico 2014/2015