Approcci critici alla Storia della colonna infame

Nel panorama delle riprese manzoniane, un caso particolare è costituito dalla “Storia della Colonna infame”; circoscritto dal punto di vista temporale – il valore del testo manzoniano è pienamente riconosciuto solo a partire dagli anni Sessanta del Novecento – ma estremamente denso, con ricadute anche su discorsi non immediatamente letterari. Il problema del rapporto fra storia, azione umana e tragedia risulta qui complicato, prima che dall’insolubilità della contraddizione proposta, che già aveva destato l’attenzione di Pomilio e Bacchelli, dallo statuto non definito dell’opera, a cavallo fra storiografia, narrativa e saggismo. Sono proprio questi caratteri ibridi, estranei e in parte eccentrici rispetto all’epoca della composizione, a sancirne la fortuna nella tarda modernità.

[…] La critica ottocentesca propone una lettura delle “Osservazioni” come materiale preparatorio alla Storia, e di quest’ultima come corredo dei Promessi sposi; il primo Novecento è invece condizionato dalla valutazione negativa di Croce rispetto alla ‘cattiva storiografia’ di Manzoni, nella quale «l’interesse morale» avrebbe assoggettato «l’interesse storico». <91
Al giudizio crociano fa seguito un’attenzione solo negativa, che raggiunge l’apice con le ricerche di Fausto Nicolini, autore del saggio “Peste e untori nei “Promessi sposi” e nella realtà storica”: una feroce polemica storiografica impegnata a smontare l’interpretazione manzoniana del processo, che si risolve nel tentativo di ricondurre il dibattito a un improbabile stadio pre-illuminista. <92
Tuttavia, in parte l’autore non sbaglia nell’accusare Manzoni di proporre una ricerca superficiale, almeno da un punto di vista storiografico, secondo criteri novecenteschi. L’errore è condizionato da una interpretazione parziale della “Storia della Colonna infame”, intesa come opera propriamente storica, quando invece essa si colloca al crocevia fra lavoro narrativo, storico e saggistico.
Le voci, innanzitutto critiche, che si leveranno a sostenere questa seconda lettura, aprendo la via ad una rivalutazione dell’opera, prendono piede a partire dal 1928, anno della ristampa della “Storia” e, per la prima volta, dell’”Appendice” a cura di Michele Ziino <93. Tale tesi già lievitava nelle posizioni di Gadda, che pubblicava l’”Apologia manzoniana” l’anno precedente; ma la vera svolta si ha nel 1942, in occasione del centenario della “Quarantana”: nella prefazione alla ristampa della “Storia”, Vigorelli (influenzato da Sansone <94) inaugurerà una nuova linea interpretativa, tesa a valorizzare il carattere narrativo dell’opera.
Viene da qui la cauta ipotesi che vede, nella “Storia della Colonna infame”, il nucleo centrale del secondo romanzo da più parti invocato: «sono tentato» – scrive Vigorelli – «di gettare là il sospetto che la “Colonna infame” non è l’appendice del grande romanzo, ma – forse – è l’azzardato compendio di quell’“altro romanzo” che il Manzoni si vietava di scrivere sino a preferire il silenzio, il romanzo della passione e della cecità, del vortice e dell’arbitrio» <95. Recensendo il volume Moravia, anni dopo così nettamente antimanzoniano, <96 in un giudizio che, davvero, porta il segno dei tempi, scrisse: «Il Manzoni non era uno storico, bensì un poeta e un narratore; ma i lettori di oggi gli sono ugualmente grati di aver fatto la ‘sua’ storia» <97.
Si inizia in questi anni ad apprezzare il tratto che, probabilmente, ha aperto la strada alla fortuna tarda dell’opera. La “Storia” manzoniana, se affrontata con criteri attuali, verrebbe definita ‘testo ibrido’, ‘ad alto tasso saggistico’: lo specialismo dello storico, dell’archivista e dell’esperto di diritto viene inquadrato all’interno di una struttura dallo statuto in equilibrio fra riflessione e narrazione, imperniata su una forte tesi ancorata alla soggettività dell’autore.
Anche per questo, le riletture che ne sono state date non sono solo di ordine critico, come sarebbe potuto accadere per un’opera decisamente letteraria; accanto a queste, si possono riconoscere altri filoni: il primo, che qui interessa meno, quello dell’indagine storica (Fausto Nicolini, Franco Cordero); il secondo, quello delle riprese, dei ‘dialoghi’ più o meno diretti con posizioni espresse dagli autori, in relazione al presente; il terzo, dei recuperi tematici o formali.
Dino Buzzati: una trasposizione

Dino Buzzati nel 1962 fa rappresentare e successivamente pubblica un testo drammatico, “La colonna infame”. Il dramma dà corpo alla tesi manzoniana della colpevolezza individuale dei giudici, dell’«orrenda vittoria dell’errore contro la verità» <98; con un’aggiunta di colore, lo stesso don Rodrigo viene calato sulla scena a introdurre lo spettacolo, intento a corteggiare (e tentando di rapire) una graziosa popolana. Attraverso artifici d’ordine avanguardistico <99, quali l’inserzione di un personaggio-narratore e di dialoghi-didascalia, il tempo viene frammentato e risulta possibile rappresentare, in sostanziale continuità, la durata del processo: Lucherino, ‘folletto di Milano’, inquadra la scena dal momento delle prime presunte unzioni al supplizio finale, commentando le chiacchere delle donne, il processo, la tortura.
Per rendere il giudizio morale manzoniano Buzzati imposta un conflitto drammatico fra due dei giudici, l’uno accecato dalla malvagità, l’altro raziocinante. Quest’ultimo, sconfitto, prima di recedere dal suo incarico nel collegio giudicante dichiara:
Mancano forse gli ammalati, mentre muoiono ottocento cittadini al giorno? Che bisogno c’è di far ammalare altra gente? A che scopo? E come mai l’unto pestifero fa ammalare gli altri ma loro due no? E perché il Mora incarica il Piazza di spargere l’unto? E perché gli promette di dargli una quantità di soldi? Perché? Per vendere di più il suo specifico contro la peste. Magnifico! Ci può essere un cumulo più assurdo di castronerie? Chi ci può credere? Voi ci credete? Voi ci credete?” <100
È stata riconosciuta <101 nel dramma storico in quanto genere una sorta di rarefazione, di riduzione della vicenda agli estremi conflittuali: proprio per rendere la dinamica dello scontro Buzzati sovrappone alla lettura manzoniana, basata su una contrapposizione d’ordine morale fra le ragioni della giustizia e quelle di stato, un contrasto fra tensioni e azioni individuali. In tal modo le posizioni dei singoli, appiattite agli antipodi, si tingono rispettivamente di sadismo, crudeltà ingiustificata, inganno spietato, ovvero di sdegno civico, di razionalismo consequenziale, di amore per la verità: il che al di là di ogni estremizzazione, oltre la soglia del verisimile, crea delle macchiette. Proprio per questo l’autore ha la possibilità di proporre una chiave di lettura inedita, quella della libidine dei giudici e della ricerca del piacere, che percorre l’intera vicenda; ne sarebbe oggetto Martina, spettatrice della vita popolare di Milano, condotta dopo numerose sevizie con gli altri imputati al supplizio. Si innesta nel testo un indugio scabroso su una violenza di stampo sessuale che non pare trovare giustificazione d’ordine drammatico; se non, forse, nell’intento duplice di scandalizzare e stuzzicare la pruderie del pubblico borghese. Sia l’impostazione morale dell’opera manzoniana, che la sua complessa struttura saggistico-narrativa non trovano qui spazio. “La colonna infame” di Buzzati risulta essere così una ripresa solo inferenziale che, al di là delle apparenze, rispetto all’ipotesto intrattiene una relazione di natura solo tematica: in definitiva, un appiattimento sul presente, una intertestualità solo di facciata, dietro alla quale sta una riscrittura poco riuscita.

 

Una seconda trasposizione, di caratura completamente diversa, è quella cinematografica compiuta da Nelo Risi (come regista) e da Vasco Pratolini (come sceneggiatore) nel 1973.
Anche qui la resa narrativa della “Storia della Colonna” infame avviene attraverso l’inserzione di riferimenti ai Promessi Sposi; tuttavia lo statuto ibrido del testo manzoniano è reso con l’adozione di tecniche stranianti di origine brechtiana: la tensione narrativa viene costantemente bloccata dal contrasto dell’immedesimazione, ottenuto con la resa in studio, le musiche, il clima irreale e allucinato della Milano appestata. Ne sarà dato conto nell’ultima parte dello studio, dedicata a un confronto fra alcune riprese filmiche di materiale manzoniano.

Leonardo Sciascia: Il contesto e la storia
Col passaggio fra anni Sessanta e Settanta, anche sotto la spinta della situazione politica italiana, la meditazione proposta dalla “Storia della Colonna infame” ritorna all’ordine del giorno.
Per alcuni autori il testo, a fronte di una influenza su forme e contenuti più o meno rilevante, diviene termine di confronto con il presente; in occasione del centenario della morte di Manzoni una nutrita rielaborazione critica e storiografica affronta, con rinnovato interesse, il saggio sugli untori <102.
Durante gli anni Settanta, infatti, nel dibattito la linea di lettura di una Storia narrativa si afferma definitivamente, in una qualche misura legittimandone le riprese sotto il profilo del romanzesco. Non è difficile verificare, a riguardo, alcune omologie fra narrativa e critica: Negri per primo, nel 1973, può rivendicare la Storia come «il nostro primo romanzo-inchiesta» <103; ma il “Contesto” – fra i romanzi di Sciascia quello maggiormente legato alla Storia – è del ’71.
Leonardo Sciascia è forse il più manzoniano fra gli autori del secondo Novecento; gli anni Settanta sono quelli di più diretta influenza esplicita, ma un dialogo serrato con Manzoni, e in particolare con la “Storia”, è sotteso a gran parte della produzione <104. Consonanze e analogie non sono limitate a un unico versante dell’opera, ma si dànno lungo varie direttrici. Alla frequente citazione esplicita si congiunge l’impostazione macroformale (la dispositio) dei romanzi, spesso originali variazioni su una struttura ricorrente; una discreta ma serrata attualizzazione, in senso pieno di confronto, agisce sulle riprese di temi, tensioni, forme e – in parte – impostazioni ideologiche.
La presenza diffusa di citazioni, dirette o implicite, non solo manzoniane ma di diversissima provenienza, ha posto un problema interessante, su cui la critica sciasciana appare divisa: il fenomeno si inserisce in una concezione della parola divenuta «universo totalizzante che attrae nella sua sfera tutte le cose, al cui interno è possibile qualsiasi gioco di sostituzione» <105, in un’affermazione ontologica della «verità della scrittura» <106; oppure, viene riscontrato un «primato conoscitivo problematicamente affidato dall’autore alla funzione etica, liberatoria e sapienziale della letteratura, intesa come codice ibrido, impuro, col quale mettere in mostra il disordine che aduggia permanentemente il reale – promuovere l’inquietudine del dubbio (l’“impazienza”), e non le esitazioni di una ragione in crisi» <107.
La questione si lega, evidentemente, all’inclusione o meno dell’autore entro un canone postmoderno italiano: si proverà così a mettere alla prova la riflessione rispetto a intertestualità e ri-uso su un caso di dibattito aperto, verificando se il rapporto con la tradizione evincibile dai testi possa aiutare a orientarsi in questa diatriba.

 

[NOTE]

91 In Croce, al riconoscimento complesso e oscillante nel tempo del valore dell’opera artistica, fa da controcanto un severo giudizio sullo storico: «noi interroghiamo la storia, specie quando sia alquanto remota da noi, non per discernere e misurare la bontà morale e le debolezze di uomini che sono morti, ma per intendere l’opera che essi attuarono attraverso le loro virtù e i loro vizi, opera che opera in noi e sollecita il nostro pensiero e la nostra azione.
[…] L’interesse morale in lui [Manzoni] ha soverchiato l’interesse storico e, peggio ancora, sviato il giudizio». Benedetto Croce, Alessandro Manzoni, cit., pp. 38-39.
92 Le unzioni – questa la tesi sostenuta – ci furono; gli imputati furono colpevoli, da principio proprio in quanto criminali incalliti; non appare infine realistico che i giudici, persone dabbene, possano essersi macchiati di abusi e colpe personali. Cfr. Fausto Nicolini, Peste e Untori Nei Promessi Sposi e Nella Realtà Storica, Laterza, Bari 1937, p. 230.
93 Cfr. Alessandro Manzoni, Storia Della Colonna Infame, a cura di Michele Ziino, Perrella, Napoli 1928.
94 Sansone già compie il primo passo in contrapposizione alla lettura crociana: «si consideri bene la Storia della Colonna infame: a dispetto del suo titolo, essa non è una narrazione storica, ma un frammento di un trattato delle passioni verso il quale oramai propendeva l’ingegno manzoniano» Mario Sansone, Saggio Sulla Storiografia Manzoniana, Ricciardi, Napoli 1938, p. 120.
95 Giancarlo Vigorelli, In margine alla «Colonna infame»: grazia e delirio, in Id., Manzoni pro e contro, 2, Il Novecento I, cit., p. 524.
96 Parlando di un «realismo cattolico» manzoniano, affine per volontà impositoria al realismo socialista sovietico. Cfr. Alberto Moravia, Introduzione ad Alessandro Manzoni, Promessi Sposi, Einaudi, Torino 1960, pp. IX-XII e XLIII-XLV, ora in Giancarlo Vigorelli, Manzoni pro e contro, 3, Il novecento. II, cit., pp. 32-38.
97 Giancarlo Vigorelli, In margine alla «Colonna infame»: grazia e delirio, cit., p. 533.

98 Alessandro Manzoni, La storia della Colonna infame, cit., p. 12
99 Silvia de Min, Quando è di scena un narratore: modalità informative del teatro buzzatiano, in «Studi Buzzatiani», 15, 2010, pp. 37-41 e 57-58.
100 Dino Buzzati, La colonna infame, in Id., Teatro, Mondadori, Milano 1980, p. 513.
101 György Lukács, Il romanzo storico, Einaudi, Torino 1965.
102 Una reazione a questi ri-usi del saggio manzoniano e comunque alla sua fortuna in questi anni è costituita dalla pubblicazione di un volume peculiare, fra l’erudizione, la storiografia critica e la giurisprudenza storica, di Franco Cordero, La fabbrica della peste, Laterza, Bari 1984. Dopo Nicolini è il primo a riprendere in mano il processo agli untori; l’impostazione generale di Manzoni, ipostatizzata, schiacciata sul moralismo, viene ancora ferocemente criticata. Al di là delle posizioni espresse nel testo («[Manzoni] picchia a colpi sordi, nel classico stile zdanovista», pp. 198-199), alla base delle quali si intuisce un’influenza fuori tempo massimo dalle posizioni di Moravia e dell’accostamento fra realismo cattolico e realismo socialista, è interessante come permanga un costante confronto con la storia – anche giuridica – contemporanea. Se Manzoni è uno Zdanov ante litteram, per Cordero la procedura penale intentata durante la vicenda degli untori è accostabile ai grandi processi staliniani, in particolare a quello di Bucharin, e ad alcune vicende del nazionalsocialismo dimostrandosi, anche al di là di Manzoni, un punto di confronto particolarmente rivelatore con il presente: «L’uomo mosso da volontà storta, elabora idee sbagliate […] Implica una santa inquisizione tale assunto sulla genesi pratica dell’errore: chi vi incappi va punito, in quanto colpevole, e poiché in una società chiusa ‘vero’-‘falso’ sono qualifiche fluide, manipolate dai dominanti, non esistono più spazi aperti al disquisibile […] Può darsi che Bucharin pensi benissimo, ma finisce male, sotto infami stigmate teoriche, se l’apparato è in mano a Stalin: nelle diatribe teologali, le idee costituiscono una variabile» (p. 203).
103 Renzo Negri, Il romanzo-inchiesta del Manzoni, in «Italianistica», 1, 1972, p. 29.
104 Per uno sguardo a volo d’uccello, cfr. Carlo Boumis, La verità bella. La Storia della Colonna infame tra riscrittura e invenzione, in Francesca Bernardini Napoletano (a cura di), Leonardo Sciascia. La mitografia della ragione, Lithos, Roma 1993, pp. 141-203. La tesi del saggio, non pienamente condivisibile, è quella di una progressiva evaporazione, in Sciascia, delle distinzioni fra storia e letteratura. «La storiografia è letteralmente un’impostura quanto l’impostura, la mistificazione della letteratura è “superiore verità”» (p. 193).
105 Ricciarda Ricorda, Sciascia ovvero la retorica della citazione, in «Studi Novecenteschi», 16, 1977, pp. 92-93.
106 Carlo Boumis, La verità bella, cit., p. 153.
107 Fabio Moliterni, La Nera Scrittura, B. A. Graphis, Bari 2007, p. 21.

Filippo Grendene, Il dialogo della tradizione. Ri-uso, intertestualità, storia, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Padova, 2019

In primo luogo si dovranno allora tenere presenti le complesse istanze di una linea poetica sperimentale che assume a proprio fondamento la contraddizione manzoniana <29 di un esercizio letterario indefessamente rivolto al ritratto, alla scoperta, all’autopsia del vero <30 e insieme compromesso con la sua manipolazione, nell’alterazione della formalizzazione e nell’adulterazione dell’invenzione, una contraddizione assunta da Sciascia proprio nel momento in cui si fa aporia metodologica e ingermina il seme di una nuova strategia conoscitiva, di un nuovo ‘genere’. La ricerca sciasciana infatti non si limita a riportare al centro la decisiva questione del bilanciamento polare di storia/finzione, documento/invenzione ma ne riattiva lo snodo problematico, ovvero la sostanza interpretante di questo tipo di forma. Ed è per questa ragione che Sciascia sceglie come interlocutore privilegiato per la messa a punto della propria scrittura più ancora dell’esempio de I promessi Sposi la «relazione» <31 costituita dalla Storia della colonna infame, una scrittura ‘critica’ <32, di rottura e di svolta espressiva, perché costruita a strettissimo contatto con i referti e gli «atti» attorno a una materia incandescente, per molti versi inattingibile. Sciascia impara da Manzoni ad essere un «romanziere che si comporta da storico» in quanto a necessità di formulazione di una visione complessiva che è giudizio dei fatti, ma anche in quanto a consapevolezza che «l’approdo» per lo storico «non è un racconto dato come certo e veridico, perché lo storico non dispone di prove, ma di una congettura» <33. La sua scrittura evolve quindi il momento aporetico del vero riluttante ai traslati e alle commistioni, della polispettricità che le infinite possibilità della rappresentazione fanno gravare sull’interpretazione, incuneandosi lungo il solco problematico di quel nodo congetturale. E’ questa l’essenza delle opere ibride coeve a quegli scritti d’arte, «racconti-inchiesta» <34 secondo la formula utilizzata da Renzo Negri proprio in riferimento alla Storia della Colonna Infame <35, concepiti nelle direzione di un avanzamento e di un approfondimento di tale «nuovo» genere che più che sistema normativo si configura come postura procedurale di apertura e inclusione, come fascio di istanze e tensioni che puntuano campi di forze <36 in
costante mutamento e ridefinizione.
[NOTE]
29 «La storia, dico, abbandona allora il racconto, ma per accostarsi, nella sola maniera possibile, a ciò che è lo scopo del racconto. Congetturando, come raccontando, mira sempre al reale: lì è la sua unità. Dove se ne va, o piuttosto, come si forma quella del romanzo storico, che erra tra due mire opposte?» (A. MANZONI, Del romanzo storico e, in genere de’ componimenti misti di storia e invenzione, in cit.).
30 A riguardo si riportano qui le osservazioni riccamente documentante contenute in D. BROGI, «I promessi sposi» come romanzo storico, cit., p. 97: «Per Manzoni, com’è noto, non esistono vie di mezzo: il compito dell’arte è quello di “evidenziare [: faire ressortir] la realtà” (A. MANZONI, Lettera a Monsieur Chauvet, in ID., Scritti di teoria letteraria, Milano, Rizzoli, 1981, p. 115-116), “conoscere quello che è realmente, e di vedere più che si può in noi e nel nostro destino sulla terra”(A. MANZONI, Tutte le lettere, Milano, Adelphi, 1986, p. 194). Questa posizione è sostenuta fino al paradosso di sconfessare la scrittura letteraria quando essa non riesca più a rifar “in certo modo le polpe a quel carcame, che è, in così gran parte, la storia” (A. MANZONI, Del romanzo storico e, in genere, de’ componimenti misti di storia e invenzione, in Interventi sul romanzo storico (1927-1831) di Zajotti, Tommaseo, Scalvini, Centro Nazionale Studi Manzoniani, 2000)».
31 «Non soltanto nel tono ma fondamentalmente, in essenza, è una relazione; e non a “uno più alto” ma a se stesso e ai suoi simili» (L. SCIASCIA, Storia della colonna infame, in ID., Cruciverba, cit., p. 1076).
32 A riguardo Sciascia parla di «crisi», cfr.: «La ragione per cui Manzoni espunge dal romanzo [I Promessi Sposi] la Storia non è soltanto tecnica […]. La ragione è che sui documenti del processo, sull’analisi e le postille di Verri, Manzoni entrò, per dirla banalmente in crisi. La forma, che non era soltanto forma, e cioè il romanzo storico, il componimento misto di storia e invenzione, gli sarà apparsa inadeguata e precaria; e la materia dissonante al corso del romanzo, non regolabile da esso, sfuggente incerta, disperata» (L. SCIASCIA, Storia della colonna infame, cit., p. 1076-1077).
33 Cfr., E. SCARANO, Forme della storia e forme della finzione, in «Moderna», VII, n.1-2, 2006, p.39: «La congettura è una rappresentazione immaginaria e verosimile, fondata sull’elaborazione logica di dati insufficienti per una rappresentazione veridica attendibile. Quando l’autore vi fa ricorso, la storiografia si avvale, quindi, della finzione».
34 Una modalità espressiva sperimentata a partire da La morte dell’inquisitore del 1964, e proseguita negli anni con gli Atti relativi alla morte di Raymond Roussel del 1971, I pugnalatori del 1976, La scomparsa di Majorana del 1975 e L’Affaire Moro del 1978, e ancora negli anni Ottanta pur se non senza qualche sopraggiunto spostamento di prospettiva (in direzione della Cronachetta) con testi come La sentenza memorabile del 1982, La strega e il capitano e 1912+1 entrambi del 1986.
35 Cfr. R. NEGRI, Il romanzo inchiesta del Manzoni, in «Italianistica», n.1, 1972, pp. 14-43. È lo stesso Sciascia a citarlo in L. SCIASCIA, Storia della colonna infame, cit., p. 1079: «Non c’era mai stato niente di simile [‘l’esperimento’ della Colonna infame], in Italia; e quando qualcuno, più di un secolo dopo, si attenterà a riprendere il “genere” (poiché Manzoni, come esattamente dice il Negri, prefigura il “genere” dell’odierno racconto-inchiesta di ambiente giudiziario), “le silence s’est fait”: come allora».
36 Cfr. P. BAGNI, Il campo di forze dei generi, in Generi letterari, a cura di A. Sportelli, Roma-Bari, Laterza, 2001, p. 8: «congedare l’immagine di uno spazio dei generi come luogo-contenitore che rende possibile un ordine, una gerarchia, una classificazione, per raffigurare i generi come mobili costellazioni prese in un campo di forze. L’immagine “energetica” del campo di forze permette di porre l’accento sul genere come linea di efficacia nella composizione e sulla fisionomia delle opere: forza attiva al lavoro nelle opere».
Sofia Pellegrin, Uno Sguardo Dalle Radici. Gli Scritti D’Arte di Leonardo Sciascia, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Padova, 2015

Quando Carlo Emilio Gadda <1 mette mano, di getto, alla prima stesura del saggio destinato a intitolarsi Apologia manzoniana <2, è un reduce: innanzi tutto dalla Prima guerra mondiale e dalla conseguente prigionia – dopo Caporetto – nel lager di Celle, dalle parti di Hannover. In quei frangenti, un Gadda ancora inconsapevole del proprio destino si sarebbe rivelato a se stesso scrittore, attraverso il diario dato alle stampe solo quarant’anni dopo, nel 1955, col titolo Giornale di guerra e di prigionia <3, in una versione non integrale che includeva l’arco temporale compreso fra il 24 agosto 1915 e il 31 dicembre 1919. Nell’agosto 1924 di quella prima stesura, inoltre, Gadda è reduce dall’immedicabile choc prodotto dalla morte del fratello aviatore Enrico e dalla durezza edipica del rapporto con la madre Adele Lehr, che gli rimproverava l’ingiusta sua sopravvivenza al figlio giudicato migliore; ma è reduce anche dalla laurea conseguita nel 1920, ventisettenne, in Ingegneria elettrotecnica al Politecnico di Milano e dall’ultima tappa del periplo internazionale subito condotto per ragioni di lavoro, tra la Lombardia nativa, la Sardegna, il Belgio e quell’Argentina dalla quale avrebbe fatto ritorno il 27 febbraio del ’24, approdando al porto di Genova.
[NOTE]
1 Tutte le citazioni gaddiane sono tratte da Opere di Carlo Emilio Gadda, Edizione diretta da D. Isella, “Libri della Spiga”, Milano, Garzanti, 1988-93, cui si rimanda anche per l’impostazione se non per la risoluzione di tutti i problemi filologiche posti dall’intricato ed entropico sistema delle scritture gaddiane, siano esse narrative, critico-saggistiche, cronistiche, geografico-descrittive, filosofiche o scientifiche. L’intrapresa è suddivisa nei seguenti volumi: Romanzi e racconti I [RRI], ibid., 1988; Romanzi e racconti II [RRII], ibid., 1989; Saggi giornali favole I [SGF I], ibid., 1991; Saggi giornali favole II [SGF II], ibid., 1992; Scritti vari e postumi, t. I [SVP I] e t. II [SVP II], comprensivo di Bibliografia e Indici, ibid. 1993. Per leggere oggi Gadda, è molto significativa la riedizione sistematica da parte dell’editore Adelphi di tutte le sue opere, sotto la direzione di P. Italia, G. Pinotti e C. Vela. Tra i siti dedicati a Gadda, spicca per acume, attenzione filologica e acribia interpretativa «The Edinburgh Journal of Gadda Studies» diretto a Edimburgo da Federica G. Pedriali, al cui interno è venuta plasmandosi una Pocket Gadda Encyclopedia.
2 Questa prima stesura è contenuta nel duplice Cahier d’études [Quaderno di studi] che costituisce il primo tentativo romanzesco di Gadda e che verrà pubblicato postumo da Dante Isella: C.E. Gadda, Racconto italiano di ignoto del novecento, Torino, Einaudi, 1983, poi ripreso in SVP t. I, cit., 381-613, con apparato critico-filologico a pp. 1255-96. Nell’edizione einaudiana, il testo della futura Apologia manzoniana è alle pp. 228-38. Nella forma saggistica definitiva Apologia manzoniana apparirà sulla rivista «Solaria», a. II, n. 1, gennaio 1927, pp. 39-48; in E. Siciliano (a cura di), Antologia di Solaria, Lerici, Milano 1958; in «L’Approdo Letterario», N.S., a. XIX, nn. 63-64, dicembre 1973, pp. 50-61, con una preziosa Premessa su Gadda manzonista di G. Contini; in C.E. Gadda, Il tempo e le opere. Saggi, note e divagazioni, a cura di D. Isella, Milano, Adelphi, 1982, pp. 19-30; in SGF I, pp. 679-87, con nota filologica di D. Isella alle pp. 1335-36; e infine nel recente C.E. Gadda, Divagazioni e garbuglio. Saggi dispersi, a cura di L. Orlando, pp. 15-24, con la relativa nota della curatrice a pp. 492-93, nella quale viene segnalato l’errore compiuto da Gadda (e mai emendato) nell’individuare in Giovanni Visconti, anziché in Galeazzo I Visconti, il marito in seconde nozze della consorte del giudice pisano-gallurese Nino Visconti, protagonista d’Antipurgatorio nell’VIII canto per l’appunto purgatoriale della Commedia di Dante. È da quest’ultima edizione che si citerà d’ora in avanti l’Apologia manzoniana, abbreviata in AM.
3 Prima edizione Firenze, Sansoni, 1955; seconda edizione, ampliata, Torino, Einaudi, 1965; edizione definitiva in SGF II, cit., pp. 431-867, con l’indispensabile nota filologica di D. Isella, pp. 1101-1128.
Alberto Bertoni (Università di Bologna), Gadda e l’Apologia manzoniana, «Finzioni» 1, 1 – 2021