Allo scoppio del conflitto, la comunità italo-americana visse un vero e proprio «dramma» identitario

Come per l’operazione Husky, l’esperienza dell’emigrazione italiana d’oltreoceano incise anche sull’andamento dell’operazione Avalanche, sia prima che dopo lo sbarco, anche se meno incisivamente di quanto accadde in Sicilia.
In generale, ebbero un ruolo decisivo nell’orientare la politica estera americana nel periodo compreso tra le due guerre mondiali le comunità di origini italo-americane negli Stati Uniti, che costituivano una delle più copiose minoranze etniche e linguistiche nel crogiolo della nazione americana <350.
Tra i maggiori esperti in materia, Stefano Luconi, che ha dedicato diversi saggi allo studio dell’emigrazione italiana negli Stati Uniti, ha osservato come l’originario giudizio positivo verso l’Italia da parte del governo americano avesse subìto un progressivo peggioramento dovuto all’afflusso, soprattutto dal Mezzogiorno, di un crescente numero d’immigrati. Non furono rari i casi in cui gli italo-americani vennero discriminati perché considerati più inclini alla violenza rispetto agli anglosassoni, oppure etichettati come concorrenti sleali sul mercato del lavoro, o ancora visti come fautori del radicalismo politico (si pensi alla sorte degli anarchici Sacco e Vanzetti). Tale rappresentazione negativa fu senza dubbio favorita e alimentata dalla diffusione della mafia e del gangsterismo di matrice italo-americana <351.
Gli italo-americani costituivano una componente chiave della cosiddetta «coalizione rooseveltiana», in quanto il loro appoggio era stato determinante per l’elezione (e la rielezione) del presidente Roosevelt alla Casa Bianca. Nel corso degli anni Trenta, l’amministrazione statunitense aveva tratto enorme vantaggio dall’adozione di una strategia elettorale basata su quelli che erano chiamati «ethnically balanced tickets», il che le aveva consentito di conquistare i voti delle principali comunità di immigrati, tra cui quelli delle più numerose, vale a dire gli italo-americani e gli afro-americani <352.
Se prima esistevano molti pregiudizi culturali verso gli italo-americani, ritenendo persino che una loro caratteristica naturale fosse la propensione alla criminalità <353, gli immigrati di seconda generazione (o americani con il trattino), nati da emigrati italiani già trasferitisi negli Stati Uniti ed educati nelle scuole americane, non più ai margini della società statunitense, ricoprivano spesso cariche pubbliche ed erano quindi capaci di influenzare un grande bacino di voti nell’ambito del plurietnico fronte rooseveltiano <354.
In virtù della loro forza elettorale, d’altro canto, gli italo-americani erano stati mobilitati da Mussolini allo scopo di orientare le scelte di politica estera del governo di Washington in senso più favorevole agli interessi del regime fascista. Il duce, ricorrendo a una sorta di «diplomazia parallela», informale, che si aggiungeva ai canali diplomatici tradizionali, cercò di sfruttare il peso delle comunità italo-americane per esercitare una pressione (come lobbies) sull’amministrazione statunitense <355. Contemporaneamente, nella seconda metà degli anni Trenta il fascismo rafforzò il senso di identità e orgoglio etnico degli immigrati italiani negli Stati Uniti, offrendo loro l’immagine di un’Italia potente e rispettata nel mondo, compensando decenni di discriminazioni che alimentavano la loro scarsa fiducia nel Paese d’origine <356.
Un forte legame sentimentale permaneva tra gli immigrati italo-americani e la madrepatria se pensiamo che, quando Mussolini invase l’Etiopia (nell’ottobre del 1935), furono messe in atto diverse iniziative per sostenere il tentativo dell’Italia di costituire un Impero, nonostante l’opposizione della Società delle Nazioni: ad esempio, furono raccolti ingenti fondi da inviare alla Croce Rossa, consegnate le fedi ai consolati italiani, ingrossati i reparti dell’esercito con l’arruolamento di volontari. Inoltre, un fittissimo numero di lettere indirizzate al Congresso USA riuscì a impedire l’approvazione del «Pittman-McReynolds Bill», un disegno di legge che avrebbe conferito al presidente Roosevelt il potere di ridurre le esportazioni di materie prime, petrolio e veicoli verso l’Italia, essenziali per il funzionamento dell’apparato bellico italiano nell’Africa orientale. Il provvedimento, che mirava a far fallire la campagna di Mussolini in Etiopia, avrebbe dovuto aggiungersi all’embargo sulla vendita di armi e munizioni all’Italia, già proclamato in ottemperanza al Neutrality Act del 1935 <357.
La popolarità di Roosevelt presso l’elettorato italo-americano calò bruscamente in seguito al discorso del presidente a Charlottesville (il 10 giugno 1940): in quella occasione, egli stigmatizzò la dichiarazione di guerra dell’Italia alla Francia con la metafora della pugnalata alla schiena («the hand that held the dagger has stuck it in the back of its neighbor»), individuando nell’Italia il Paese aggressore e nella Francia quello aggredito.
Sembrava dunque imminente l’abbandono da parte degli Stati Unti della loro tradizionale posizione di neutralità, in previsione di un intervento in guerra al fianco della Francia e della Gran Bretagna. Gli italo-americani, favorevoli al non-intervento statunitense, levarono immediatamente le loro voci contro la revisione della legislazione sulla neutralità con l’intento di evitare un conflitto armato tra le loro due patrie <358.
Allo scoppio del conflitto, la comunità italo-americana visse un vero e proprio «dramma» identitario, divisa tra la lealtà alla nazione di origine, l’Italia, o a quella di adozione <359.
Precisamente, dopo l’ingresso in guerra degli USA contro l’Italia (l’11 dicembre 1941, tre giorni dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbor), gli italo-americani si ritrovarono a combattere contro i propri connazionali, e per distogliere i sospetti di slealtà del governo di Washington si affrettarono a manifestare il proprio apporto alla causa bellica americana con un’affannosa corsa alla sottoscrizione di «war-bonds» e, in alcuni casi, con l’arruolamento volontario nell’esercito a stelle e strisce <360. A conferma dell’imbarazzo in cui si trovarono gli italo-americani allo scoppio delle ostilità tra i due Paesi, riportiamo una dichiarazione risalente ad alcuni mesi prima di Pearl Harbor che esprimeva chiaramente la loro lacerazione interiore: «Italy is my mother and the United States my father and I don’t want to see my parents fighting» <361.
Al fine di evitare tradimenti e sabotaggi degli immigrati di origini italo-americane, la propaganda bellica statunitense, dal canto suo, cercò di convincerli che stavano combattendo una «good war» per liberare i cugini d’oltreoceano dal giogo nazi-fascista. La cosiddetta «guerra giusta» era presentata non tanto come una guerra contro l’Italia, quanto piuttosto contro il fascismo <362.
Sul fronte interno, allo scoppio della guerra i gruppi italo-americani che vivevano sul territorio statunitense divennero improvvisamente immigrati di una nazione nemica. Nel gennaio 1942 ai residenti non naturalizzati (unnaturalized residents) venne imposta la qualifica dispregiativa di «enemy aliens», che comportava l’obbligo di portare sempre con sé uno speciale documento di identificazione e di consegnare alle autorità competenti tutti gli apparecchi fotografici e radiofonici, oltre all’obbligo di autorizzazione per gli spostamenti all’interno della nazione. Tali provvedimenti esprimevano la volontà di criminalizzare agli occhi dell’opinione pubblica statunitense i residenti stranieri, incentivando l’odio e la discriminazione nei loro confronti <363.
Sorte ancora peggiore toccò agli ex simpatizzanti del fascismo che, come la maggior parte dei giornali italo-americani mise in evidenza con toni allarmistici, vennero presentati come «enemy soldiers within our borders», ossia come una sorta di «quinta colonna» al servizio del fascismo all’interno dei confini nazionali americani, quindi come una minaccia per la sicurezza nazionale <364. In seguito, la qualifica di «enemy aliens» venne revocata per motivi principalmente elettoralistici, cioè per riconquistare l’appoggio del consistente elettorato italo-americano e controbilanciare l’emorragia di voti verso il Partito Repubblicano <365.
Più in generale, l’inizio delle ostilità segnò il riaffiorare negli Stati Uniti di forme di discriminazione verso gli italo-americani, nonché il diffondersi di un intero campionario di pregiudizi anti-italiani, in particolare
anti-meridionali, che andavano ad alimentare l’immaginario collettivo. Emerse una rappresentazione degli italiani imbevuta di stereotipi: dall’immagine di individui infidi e inclini alla violenza al cliché dell’uomo sentimentale, passionale e istintivo, al trouble-maker anarchico, alla figura del malavitoso di origini siculo-americane <366.
La strategia politica interna di Roosevelt, basata su un’azione mirata volta a influenzare l’opinione pubblica americana e a conquistare quote di consenso politico-elettorale, si rivelò nei fatti efficacissima. Il rischio che gli italiani emigrati negli Stati Uniti potessero configurarsi come la «quinta colonna» del nemico in territorio statunitense fu completamente ribaltato, trasformandosi al contrario nella «quinta colonna» statunitense in territorio nemico. La diffidenza iniziale nei confronti degli italo-americani – appellati in principio con termini denigratori quali wop, ginsos, dagos, guineas – a poco a poco svanì, lasciando il posto alla fiducia che la loro preziosa collaborazione potesse agevolare le azioni militari alleate nella penisola <367.
[…] Autorevoli esponenti dell’antifascismo italiano, emigrati o esiliati oltreoceano, erano persino entrati a far parte del governo di Washington e svolsero un ruolo importante nei negoziati che condussero alla firma dell’armistizio di Cassibile (come Mario Einaudi, figlio di Luigi, che sarà il secondo Presidente della Repubblica italiana, in carica dal 1948 al 1955), nonché nella formazione del futuro governo repubblicano in Italia <372.
Diversamente dalla Gran Bretagna che ebbe nei loro confronti un atteggiamento sempre diffidente, gli Stati Uniti mostrarono generalmente una maggiore sensibilità e disponibilità verso la loro causa, come dimostrò un discorso del Segretario di Stato americano del 14 novembre 1942 a sostegno degli oppositori del regime fascista. Ciononostante, gli antifascisti costituivano una frazione molto limitata della popolazione di origine italiana presente in territorio statunitense; il loro leader, individuato nella figura del conte Sforza, postosi a capo di un movimento a favore dell’Italia libera, non era annoverato neppure tra le «persone che contavano» in un memorandum predisposto dal Dipartimento di Stato nel dicembre del 1941 <373.
Una lieve ripresa dell’attività antifascista negli Stati Uniti si registrò all’indomani dello sbarco alleato in Marocco e Algeria (8-12 novembre 1942), che ebbe l’effetto di riaccendere le speranze e dare nuove motivazioni, anche se fino alla caduta di Mussolini l’iniziativa restò ancora piuttosto limitata, circoscritta ad ambienti e gruppi particolari aventi scarsi legami con il Paese d’origine (erano in gran parte oppositori al regime di vecchia data ed esponenti dei partiti prefascisti dell’Italia liberale) <374.
[NOTE]
350 Nel 1942 gli italo-americani ammontavano al 5% della popolazione complessiva degli USA, pari a circa sei milioni di persone di cui oltre tre milioni di origini siciliane: essi comprendevano gli immigrati di prima generazione che si erano trasferiti oltre oceano sulle proprie gambe, i nati sul suolo americano da genitori italiani (immigrati di seconda generazione) e i loro discendenti (immigrati di terza generazione e così via). Erano arrivati in gran parte negli Stati Uniti tra il 1881 e il 1921, ovvero nel periodo dell’esodo transatlantico di massa, mentre successivamente – in parte per il raggiungimento della piena occupazione e in parte a causa di una legislazione più restrittiva nei confronti dell’immigrazione – si era registrata una diminuzione dei flussi migratori diretti in America. Come evidenziano alcuni autori, c’era differenza tra gli immigrati più anziani che conservavano legami più stretti con il paese d’origine e i membri delle comunità più giovani, meno legati all’Italia. Si veda ad esempio: S. Carmack, The genealogical use of social history: an Italian-American example, «National Genealogical Society Quarterly», dicembre 1991, vol. 79, n. 4, pp. 283-288, un volume che ricostruisce la storia sociale delle comunità italo-americane attraverso lo studio della genealogia.
351 Cfr. S. Luconi, La rappresentazione degli italiani nell’immaginario statunitense, «Diacronie. Studi di Storia Contemporanea», 2011, vol. 5, n. 1 (s.p.). Molti immigrati italiani erano effettivamente orientati verso la sinistra radicale (anarchici, socialisti e comunisti), per due motivi fondamentali: 1) il background da classe operaia; 2) la discriminazione sociale ed economica di cui erano vittime.
352 Cfr. S. Luconi, Italian Americans and the New Deal Coalition, «Transatlantica», 2006, n. 1, pp. 1-13. Non va dimenticato che, oltre a fattori etnico-culturali, incidevano sul comportamento di voto anche variabili di natura socio-economica. Così, anche il New Deal, con le sue misure di contenimento della disoccupazione, aveva notevolmente contribuito negli anni Trenta a garantire al presidente Roosevelt il sostegno elettorale delle comunità italo-americane e ad arginare la loro crescente disaffezione nei confronti del Partito Democratico, che riuscì in questo modo a conservare la maggioranza nelle elezioni del 1938 e del 1940. Si veda anche: S. Luconi, Little Italies e New Deal. La coalizione rooseveltiana, il voto italo-americano a Filadelfia e Pittsburgh, Franco Angeli, Milano, 2002, pp. 152-153.
353 Per un approfondimento sul tema dei pregiudizi anti-italiani negli USA, si veda: AA.VV., Verso l’America. L’emigrazione italiana e gli Stati Uniti, Donzelli, Roma, 2005, pp. 213-238.
354 Cfr. James Edward Miller, La politica dei “prominenti” italo-americani nei rapporti dell’OSS, in «Italia Contemporanea», 1980, vol. 139, pp. 51-70. Erano chiamati «prominenti» gli esponenti delle comunità italo-americane che ricoprivano un ruolo politico o anche una posizione di spicco nell’ambiente sindacale.
355 Cfr. S. Luconi, La “diplomazia parallela”. Il regime fascista e la mobilitazione politica degli italo-americani, Franco Angeli, Milano, 2000, p. 133.
356 Cfr. G. Salvemini (a cura di Gaetano Arfè), Memorie di un fuoriuscito, Feltrinelli, Milano, 1960, p. 110. Sull’attività fascista presso le comunità italiane stabilitesi negli Stati Uniti appaiono significativi i seguenti articoli dello stesso autore: Fascist Leaders in North America, «Center for Migration Studies – Social Issues», maggio 1977, Vol. 3, Issue 3, pp. 23-38; The Fasci in New York City, «Center for Migration Studies – Social Issues», maggio 1977, Vol. 3, Issue 3, pp. 39-50; Fascism and Americanism, «Center for Migration Studies – Social Issues», maggio 1977, Vol. 3, Issue 3, pp. 51-64; The Sons of Italy, «Center for Migration Studies – Social Issues», maggio 1977, Vol. 3, Issue 3, pp. 91-106; The Italy-America Society, the Institute of Italian Culture, and the Italian Historical Society, «Center for Migration Studies – Social Issues», maggio 1977, Vol. 3, Issue 3, pp. 135-144; Fascist Demonstrations in New York City, «Center for Migration Studies – Social Issues», maggio 1977, Vol. 3, Issue 3, pp. 165-178; e Fascist Clubs, «Center for Migration Studies – Social Issues», maggio 1977, Vol. 3, Issue 3, pp. 215-242. 357 Cfr. S. Luconi, Little Italies e New Deal. La coalizione rooseveltiana, il voto italo-americano a Filadelfia e Pittsburgh, Franco Angeli, Milano, 2002, pp. 156-157. Per approfondire il graduale passaggio degli Stati Uniti dalla sua tradizionale posizione di isolazionismo, che affondava le radici nella ottocentesca «Dottrina Monroe», all’interventismo fino all’ingresso nel secondo conflitto mondiale, si veda: E. Di Nolfo, The Italian-Americans and Foreign Policy from World War II to the Cold War (1940-1948), in Humbert S. Nelli (a cura di), The United States and Italy: the First Two Hundred Years, American Italian Historical Association (AIHA), Staten Island, New York, 1977, pp. 92-103.
358 Cfr. S. Luconi, Little Italies e New Deal. La coalizione rooseveltiana, il voto italo-americano a Filadelfia e Pittsburgh, Franco Angeli, Milano, 2002, pp. 163-168.
359 Sul dilemma della “doppia fedeltà” legata al nodo della etnicità (in alcuni casi si aveva persino la doppia cittadinanza), si veda: James Edward Miller, A question of loyalty: American liberals, propaganda, and the Italian-American community, 1939-1943, in «Maryland Historian», 1978, vol. 9, n. 1, pp. 49-71.
360 Cfr. J. E. Miller, A question of loyalty: American liberals, propaganda, and the Italian-American community, 1939-1943, «Maryland Historian», 1978, vol. 9, n. 1, pp. 49-71.
361 Cfr. S. Luconi, Little Italies e New Deal. La coalizione rooseveltiana, il voto italo-americano a Filadelfia e Pittsburgh, Franco Angeli, Milano, 2002, p. 164.
362 Negli anni del conflitto ingenti risorse, materiali e intellettuali, vennero destinate alla mobilitazione per la «good war» affinché essa trovasse i più larghi consensi. Venne persino istituita un’apposita agenzia governativa preposta alla propaganda di guerra, l’OWI (Office of War Information), che produceva manifesti pubblicitari, trasmissioni radio, documentari e film. A titolo esemplificativo, si ricorda che dal 1942 al 1945 il Dipartimento della Guerra USA commissionò al regista italo-americano Frank Capra, emigrato proveniente da un Paese nemico ma arruolatosi nell’esercito statunitense, la serie intitolata Why we fight, che rappresentava una sorta di manifesto per sponsorizzare la «guerra giusta». La retorica della «good war», intesa come guerra ideologica basata sulla contrapposizione tra il bene (la libertà e la democrazia) e il male (la tirannide), è un tema ricorrente nella propaganda alleata, come rammentato nel volume di Eric Hobsbawm, Il secolo breve, Bur, Milano, 2010, p. 58.
363 Cfr. G. Tintori, Italiani “enemy aliens”. I civili residenti negli Stati Uniti d’America durante la Seconda guerra mondiale, «AltreItalie», 2004, n. 28, pp. 83-109. Si veda anche: G. G. Migone, Problemi di storia nei rapporti tra Italia e Stati Uniti, Rosemberg & Sellier, Torino, 1971. Sin dal giorno successivo al discorso presidenziale a Charlottesville, vennero approvati provvedimenti legislativi discriminatori e restrittivi finalizzati alla tutela della sicurezza nazionale (tra questi, l’Alien Registration Act sanciva l’obbligo per i cittadini stranieri di registrarsi, depositare le impronte digitali e informare le autorità federali di tutti i loro spostamenti).
364 Cfr. S. Luconi, Little Italies e New Deal. La coalizione rooseveltiana, il voto italo-americano a Filadelfia e Pittsburgh, Franco Angeli, Milano, 2002, pp. 165-166.
365 Cfr. S. Luconi, Little Italies e New Deal. La coalizione rooseveltiana, il voto italo-americano a Filadelfia e Pittsburgh, Franco Angeli, Milano, 2002, pp. 175-178. La questione dell’ambiguo atteggiamento di Washington nei confronti dei gruppi italo-americani rimase al centro del dibattito politico-elettorale per tutti gli anni Quaranta.
366 Si veda: G. Muscio, Piccole Italie, grandi schermi. Scambi cinematografici tra Italia e Stati Uniti 1895-1945, Bulzoni, Roma, 2004. La stessa identità italo-americana, parte del più vasto pluralismo culturale americano, era legata a radicati luoghi comuni, come dimostrava l’uso frequente di parole di origine dialettale o meridionale (macaroni, pizza, mandolino, ecc.) nel linguaggio degli italiani d’America (cfr. N. C. Carnevale, No Italian spoken for the duration of the war: language, Italian-American identity, and cultural pluralism in the World War II years, «Journal of American Ethnic History», 2003, vol. 22, n. 3, pp. 3-33).
367 Al riguardo, è emblematico il caso di Charles Poletti, avvocato di origini italo-americane ed esponente politico dei circoli rooseveltiani newyorkesi, che fu il primo rappresentante del Governo Militare Alleato in Sicilia. Cfr. Lamberto Mercuri (a cura di), Charles Poletti: Governatore d’Italia (1943-1945), Bastogi, Foggia, 1992.
372 Cfr. E. Di Nolfo e M. Serra, La gabbia infranta. Gli Alleati e l’Italia dal 1943 al 1945, Laterza, Roma-Bari, 2010, pp. 8-9.
373 Cfr. J. E. Miller, A question of loyalty: American liberals, propaganda, and the Italian-American community, 1939-1943, «Maryland Historian», 1978, vol. 9, n. 1, pp. 49-71. Non bisogna tuttavia pensare che il fronte antifascista italiano negli Stati Uniti fosse compatto, dal momento che ne facevano parte gruppi politicamente distinti (socialisti, comunisti, anarchici e azionisti), e tale frammentarietà ne riduceva inevitabilmente l’incisività. Non sappiamo di quale entità fu il contributo dell’antifascismo italiano negli USA alle operazioni belliche alleate né se vi furono contatti con elementi antifascisti presenti sul territorio italiano, come avvenne per la mafia in Sicilia. Sappiamo che, nell’ambito dei servizi di intelligence americani, il Foreign Nationalities Branch aveva il compito non solo di raccogliere informazioni sui gruppi etnici ma anche di allacciare contatti con gli esuli politici che avevano trovato riparo negli Stati Uniti, e possiamo solo ipotizzare che ciò potesse essere sfruttato a fini bellici.
374 Cfr. J. E. Miller, A question of loyalty: American liberals, propaganda, and the Italian-American community, 1939-1943, «Maryland Historian», 1978, vol. 9, n. 1, pp. 49-71.
Maria Vittoria Albini, Lo sbarco di Salerno nella seconda guerra mondiale dalla prospettiva alleata, Tesi di dottorato, Università degli Studi della Tuscia di Viterbo, 2015