All’Italsider viene anche Claudio G. Fava

Genova: il Ponte Monumentale

Vedendolo sempre così lucido, preciso e ironico, anche a 96 anni, mi ripetevo che Claudio Bertieri era immortale. E forse me ne ero davvero convinto. Gli avevo telefonato alla fine di ottobre, per combinare una chiacchierata: volevo intervistarlo su Hugo Pratt, con cui aveva lavorato a lungo, quindi sul periodo genovese di Duccio Tessari, e magari interrogarlo anche sui piccoli editori genovesi degli anni ’50 e ’60, su cui volevo lavorare… Mi disse che doveva fare alcuni esami medici, ma che ci saremmo sentiti subito dopo. Alla fine mi aveva anche ringraziato per quella chiamata. E invece non ci siamo più visti. Il fatto che ne sia andato così, nel pieno della sua attività, mi ha colto di sorpresa. Mi mancherà molto sul piano umano, anche perché sentivo uno strano legame sotterraneo tra un elegante viveur come lui e uno scontroso topo da cineteca come me. E mi mancherà come memoria storica di quasi un secolo di cultura genovese che guardava al mondo. Metto qui la sua testimonianza che avevo raccolto per il libro “Cinema di qualità”, sulla storia della cultura cinematografica in Liguria. E’ un pezzo lunghissimo, forse nessuno riuscirà a leggerlo qui sopra. Ma è veramente una sintesi essenziale, visto tutto quello che ha fatto. Ciao Claudio.
“Sono nato alla Foce, dalla chiesa di San Pietro, a cento metri da dove abito adesso. Ho fatto il ginnasio al Doria durante la guerra, poi dopo il bombardamento navale ci siamo trasferiti a Santa Margherita. Mio padre era impresario edile, ma aveva abbandonato le costruzioni perché non era ben visto dal fascismo. A Santa Margherita mi misero a lavorare all’anagrafe del Comune, e dopo l’8 settembre tutti i marinai venivano da me per avere i documenti falsi ed evitare Salò. Non andai in guerra perché l’ultimo quadrimestre del 1925 non venne mai chiamato, ma nel 1943 dovetti tornare a Genova per lavorare alla Bocciardo, la conceria dei miei parenti che era stata requisita dall’esercito: mi avevano dato un posto lì per evitare che mi deportassero a fare l’operaio in Germania. C’era il capo e poi praticamente c’ero io, che a diciott’anni dovevo inventarmi il modo per far lavorare milleduecento persone ed evitare che li mandassero in Germania.
Il primo film l’avevo visto alla Casa del Balilla, ed era Il Corsaro Nero, ma a Genova non avevo ancora scoperto il cinema. Ho iniziato invece ad andarci a Santa Margherita, dove funzionavano due sale, il Savoia e l’Imperiale. Vedevo due film al giorno. Ero anche amico del figlio dell’operatore del Savoia, che veniva spesso requisito dai tedeschi per fare film per le loro truppe, naturalmente in tedesco: grazie a quell’amicizia, potevo vederli anch’io. Fu così che vidi La città d’oro, in Agfacolor!
La passione per il teatro era anche superiore a quella per il cinema. Compravo vecchi numeri della rivista “Cinema” e “Il dramma”, con le caricature di Onorato in copertina: naturalmente le ho ancora adesso. Compravo anche la rivista “Film” di Nino Doletti, con le caricature di Nino Za, bravissimo. Alla fine della guerra, a Genova, mi iscrissi a ingegneria, perché mio padre voleva che diventassi ingegnere, ma ho fatto solo due anni. Il primo aggancio col mondo del cinema lo ebbi grazie al Film Club, dove ho conosciuto quelli che erano stati al Cineguf e avevano fatto la rivista “Il barco”. C’erano Pupi Guglielmino, Ivo Chiesa, Enrico Rossetti, Nanni Olivari, Carlo Bianco, Renzo Marignano… Loro avevano già scritto, c’era un rispetto generazionale nei loro confronti. Il Film Club era nato dalla collaborazione tra questi ex-Cineguf con l’Associazione Fotografica dei fratelli Chierici, che avevano il negozio di ottica in via Cairoli. I soci della “Fotografica” avevano un’idea di Cineclub alla francese, cioè una specie di palestra per esercitarsi a fare film, mentre chi proveniva dal Cineguf aveva una dimensione critica molto più completa e consapevole. Le prime proiezioni si facevano nel 1946-47 nella sede di salita Santa Caterina, a 16 mm. Ma i soci crescevano, una Rassegna storica organizzata al Palazzo nel 1946 andò molto bene, e così, dopo un breve periodo alla Consolazione, passammo al Postelegrafonici, proiettando anche film in versione originale. A un certo punto si decise di fondare una Federazione Italiana, e ottenemmo anche grande successo quando invitammo a Nervi addirittura Georges Sadoul per un convegno tenutosi in un albergo. Da quel momento andammo avanti, iniziando un po’ di ricambio generazionale. Come duecentesima proiezione, proiettammo Rashomon di Kurosawa.
Pubblicavamo anche i bollettini del Film Club, ma a un certo punto nacque una diatriba, perché l’ala sinistra insisteva nel ritenere l’associazione troppo conservatrice, sia in senso politico sia in senso estetico. Erano gli anni del neorealismo, si voleva più impegno e c’era insofferenza verso una lettura troppo “tecnica” dei film. Ci separammo, io e Tullio Cicciarelli fondammo il Circolo del Cinema, e tutte e due le associazioni proiettavano al Postelegrafonici. Poi tornammo a riunirci dopo poco più di un anno.
In quel periodo gravitavano intorno al Film Club personaggi destinati a proseguire la loro carriera a Roma. Renzo Marignano era un funzionario della Esso che aveva la passione per il cinema: anche se aveva fatto parte del CineGuf, in realtà non aveva vero interesse per l’approccio critico; a un certo punto andò a Cinecittà, fece per un po’ lo sceneggiatore ma soprattutto diventò un piccolo caratterista abbastanza utilizzato. Enrico Ribulsi, al contrario, era innanzitutto un osservatore critico, con una bella preparazione soprattutto a livello filosofico, era della scuola di Adelchi Baratono. I suoi interventi al Film Club erano in genere poco condivisi proprio perché andava su territori complicati e troppo astratti. Aveva fatto una bella regia teatrale della “Villeggiatura” del Goldoni al teatro S.Filippo di via Lomellini, ed era amico di Angelo Moneta, altro socio del Film Club dell’epoca, forse il più agguerrito dal punto di vista critico tra i cineamatori. Anche Ribulsi era però attratto da Roma: era stato uno dei primi a frequentare i corsi del Centro Sperimentale, appena costituiti, e fin dagli anni ’30 aveva scritto sceneggiature. Poi era tornato a Genova, ma ripartì nuovamente per Roma nel dopoguerra: era un uomo colto ma anche molto stressato, forse frustrato perché non era riuscito a sfondare nel cinema come invece avevano fatto altri suoi amici del Centro Sperimentale (era tra l’altro anche amico di Germi). Leonardo Algardi, invece, aveva frequentato Genova negli anni ’30: ma quando lo conobbi, negli anni ’50, viveva già a Roma, dove si occupava di documentari.
Altro personaggio fondamentale della Genova del CineGuf e del Film Club era Giulio Cesare Castello, anche lui tormentato da problemi personali: innanzitutto per la figura oppressiva della madre, una Guggenheim, persona religiosissima che lo avrebbe voluto sempre in chiesa e a messa. Come molti altri dell’epoca, aveva la passione sia del cinema, sia del teatro: gli si deve tra l’altro una splendida edizione del Saul con Memo Benassi, all’aperto davanti alla chiesa di Carignano. Negli anni ’50 lo chiamarono a Roma per insegnare storia del cinema al Centro Sperimentale, dopo un suo libretto sul neorealismo, e per qualche anno fu una figura importante della critica italiana. Diresse anche la rivista Cinema, scrisse un libro fondamentale sul Divismo che mi mandava da leggere pagina per pagina mentre lo faceva; poi però passò alla radio, dove sviluppò un’altra sua passione, quella per la musica.
Per Roma partì anche Duccio Tessari, di cui ero amico fin dai tempi dell’adolescenza a Santa Margherita. Ma per lui il discorso è completamente diverso, appartiene a un’altra linea genovese, quella più brillante, ironica, legata alla Baistrocchi, anche se i suoi film sono tutt’altro che superficiali e dietro la provocazione scherzosa nascondono aspetti più complessi. Tessari è nella linea di Enzo Tortora, o di Popi Perani, altro personaggio che meriterebbe di essere rivalutato, faceva dei testi per Tortora dall’umorismo molto fine, scrisse anche per Paolo Villaggio. E con Tessari, all’inizio, c’era un altro personaggio del Film Club, Peragallo: insieme fondarono una piccola casa di produzione e realizzarono i primi documentari di Tessari, tra cui uno girato a Savona.
La mia prima recensione la pubblicai nel settembre 1947, sulla “Gazzetta del lunedì”. Sono andato avanti qualche anno, poi Suliotti mi chiamò, dicendomi che Guglielmina Setti, ex-critico del “Lavoro”, era in cattive acque e così le lasciai il posto. Un anno dopo, nacque il settimanale “Il Piccolo”, stampato a Santa Marta, e lì ripresi a scrivere recensioni: ma durò solo un paio d’anni. A quel punto passai al “Corriere Mercantile” dove avevo una rubrica insieme a Franco Castelnuovi, un altro del Film Club, ma nel frattempo scrivevo ormai anche da altre parti. In quel periodo collaboravo inoltre alla rivista dell’Associazione Italo-Americana, curata da Capocaccia, andai anche a dirigerla per due anni. E poi il “Lavoro” con Cicciarelli, riviste nazionali come “Cinema” diretta da Giulio Cesare Castello: seguivo i documentari e facevo il suo vice. Un anno alla Mostra di Venezia abbiamo fatto anche un “Filmcritica” quotidiano con Edoardo Bruno: alla sera mandavamo i pezzi a Roma, di notte la stampavano e al mattino la lanciavano con l’aereo al Lido.
Negli anni ’50 ci furono parecchie iniziative. A Genova, ricordo che nel 1952 curai una rassegna su Flaherty in un cinema costruito appositamente per una manifestazione estiva all’Acquasola. Prima ancora, alle Olimpiadi della Cultura volute da Gelasio Adamoli, venne a Genova tra gli altri Cesare Zavattini: lo portai in giro con la mia 600, e quando fu sul molo di Camogli, vedendo i pescatori che cucivano le reti, era così entusiasta che gettò di colpo il berretto per terra, calpestandolo poi coi piedi per la gioia, mentre i pescatori lo guardavano e dicevano “o l’é matto…”. A La Spezia, nel 1953, durante il primo convegno nazionale dei centri universitari finii anche in galera: avevamo programmato la versione in acitrezzano di La terra trema di Visconti, intervenirono le forze dell’ordine che per un cavillo impedirono la proiezione, e mi portarono dentro per qualche ora insieme a Lino Micciché e Marco Pannella. Erano tempi in cui cercavano di ostacolare in ogni maniera l’attività dei circoli cinematografici, c’era ancora una mentalità molto repressiva. Nel 1955, il gruppo di cineamatori di Savona, che in realtà era più vivace e interessante di quello genovese, avviò un festival di settore di cui fui presidente della giuria. Nel frattempo partì anche il festival cineamatoriale di Rapallo, di livello nettamente più ambizioso, col coinvolgimento in giuria di personaggi come Nino Palumbo, Luis Gasca, Luciano Bianciardi. A Bordighera, dal 1956, realizzammo per qualche anno il Festival del cinema Umoristico, indipendente dal Salone dell’Umorismo ma collegato idealmente. Nel 1957, Mauro Manciotti mi coinvolse nell’organizzazione di un festival sul cinema e la danza che tenemmo per tre anni ai parchi di Nervi e al cinema Ambra, affiancando il festival del balletto, anche lì coinvolgendo esperti di primo piano. E a Pietra Ligure ricordo un cineforum molto attivo, tenuto dalle sorelle Rossi: partivamo con la mia 600 io e Claudio G. Fava, che non sapeva guidare, e seguivamo ogni volta un rituale preciso, presentavamo il film, poi andavamo a cena in casa delle signorine Rossi, quindi tornavamo in sala per il dibattito e alla sera tornavamo a casa…
Ma l’esperienza più importante di quel periodo fu ovviamente quella di Padre Arpa, il quale in realtà inizialmente non credeva affatto nel cinema. A convincerlo fu Padre Morlion: a quel punto, Arpa chiamò Carlo Cormagi, altro ex-CineGuf, il quale a sua volta chiamò me per organizzare concretamente i primi due o tre anni di programmazione. Padre Arpa era un visionario, ebbe intuizioni grandiose col suo Colombianum, riuscì a coinvolgere la borghesia genovese in progetti che erano veramente di grande respiro. La sua attenzione per l’America Latina oltre a guardare al futuro era in fondo anche in sintonia con gli interessi molto concreti in America Latina da parte della Genova imprenditoriale di quegli anni. Ma la sua gestione finanziaria era veramente irresponsabile: in pratica si condannò dall’inizio con l’operazione Era notte a Roma di Rossellini, il cui fallimento commerciale gli inimicò la borghesia nera genovese. Inoltre, si fece fin troppo trascinare dai suoi collaboratori, Gianni Amico e Amos Segala, che erano presi dai loro percorsi personali. Certo, il suo era un progetto che doveva riguardare tutto il Terzo Mondo, collaborava con Roger Bastide che rappresentava la parte africana dell’Unesco. Ma al tempo stesso ricordo telefonate di un’ora col Cile, roba da un milione di lire l’una, semplicemente per avere un documentario per la rassegna: non si poteva andare avanti così.
Lasciai il “Mercantile” nel 1958 perché mi accorsi che rischiavo di diventare un impiegato. E a quel punto tentai la strada della consulenza per la grande industria. Carmi mi disse di andare a Cornigliano, dove c’era un cinema teatro dentro la fabbrica. Era la Cornigliano Spa, prima dell’Italsider. Mi occupai delle proiezioni per un paio d’anni, in un teatro da 300 posti sempre zeppo di spettatori: venivano sia i dirigenti, sia gli operai, e tutti con le famiglie, per cui fu una scuola importante per imparare a condurre i dibattiti, perché bisognava essere in grado di farsi ascoltare dagli uni e dagli altri. Poi lascio Cornigliano nel 1960, quando tra l’altro vengo nominato a Venezia nella giuria dei documentari, di cui mi occupavo da tempo. Era una cosa straordinaria, perché in quella giuria c’erano John Grierson, che alle undici del mattino s’era già fatto mezza bottiglia di whisky ma aveva un’incredibile lucidità di giudizi, e poi Sidney Meyers, François Reinchenbach, Bretislav Pojar, allievo di Trnka. Furono dodici giorni straordinari, una specie di master, di corso intensivo.
In quello stesso 1960 mi viene a trovare padre Bruno, il vice di Padre Nazareno Taddei, che era stato allontanato dal centro San Fedele dopo aver parlato bene della Dolce vita. Forse sapeva che avevo lavorato a Genova nel cineforum di Padre Arpa, e mi invita a guidare la parte cinema del San Fedele a Milano. Gli dico che lo ringrazio, ma che sono un vecchio socialista e con loro non c’entro. “Ma Bertieri, è proprio per questo che l’abbiamo cercata…” mi risponde. Così per un anno e mezzo ho dato al San Fedele i film che volevo, senza mai un’osservazione o una censura.
A Milano incontro Olmi, che già conoscevo perché l’avevo premiato al festival del Cinema di Montagna di Trento. E Olmi mi chiede di andare alla Edison per seguire i circoli aziendali, promuovendo cinema e teatro. Andai, c’era anche Tullio Kezich, e per un po’ girai i vari circoli, che erano soprattutto in Emilia.
A quel punto, però, nasce la storia dell’Italsider, perché viene a Genova Mario Lucio Savarese, un alto dirigente della Finsider, un romano ex-partigiano, di sinistra, con una bella testa aperta. E Savarese chiede: ma qui nessuno si occupa di cinema? Gli rispondono che prima c’era Bertieri… Così mi fanno un’offerta: e attratto dall’idea di non fare più su e giù da Genova a Milano, lascio la Edison per venire all’Italsider, che unisce Cornigliano e Ilva. Solo che, a quel punto, non si tratta più di proiettare dei film, ma di produrli. Feci lavorare Orsini, Taviani, Nelli, che non riuscivano a fare film perchè erano comunisti. I Taviani li avevo conosciuti nel 1954, mentre ero in una giuria con Zavattini e Aristarco: in quell’occasione premiammo all’unanimità il loro “San Miniato 44”.
Con Aristarco tra l’altro ebbi una lite involontaria, perché non aveva proprio il senso dell’umorismo, come i comunisti dell’epoca non sapeva ridere. Zavattini una sera disse: andiamo a mangiare le cée (avannotti) da Viviani fuori Pisa. Andiamo con l’auto di Piero Nelli, che guidava come un pazzo. Zavattini fa riaprire la trattoria a mezzanotte, e con Aristarco si parlava del fatto che era appena stato rinchiuso nel carcere militare per la storia di L’armata S’agapò. Scherzando dico: “Dai Aristarco, che in fondo la galera ti ha fatto pubblicità…”. Non l’avessi mai fatto, s’è infuriato, ha rotto un piatto e ha rotto pure un’amicizia.
All’Italsider viene anche Claudio G.Fava. C’erano Savarese, Gandolfo, Carmi, Fedeli, Trillo… A teatro si fecero cose straordinarie, venne Gassman, cominciai a seguire anche gli spettacoli che si facevano a Taranto, presso l’altro stabilimento. Il primo film prodotto da Savarese a Genova era Pianeta Acciaio con testo di Dino Buzzati. Poi c’era Giovanni Paolucci che faceva le riprese documentando per la prima volta tutte le fasi del lavoro in fabbrica attraverso la pellicola. A quell’epoca esisteva un festival del film industriale organizzato da Confindustria, dove l’Italsider, in quanto statale, non era molto ben vista. Ma noi vincevamo sempre, un anno a Salerno abbiamo vinto sei o sette premi: alla sesta volta che vado sul palco a prendere il premio, il ministro mi dice: sieda qui con noi, così evita di salire ogni volta… Il cinema industriale più straordinario era stato fatto da Olivetti, poi dall’Italsider, e dopo dalla Fiat: la Edison era stata una storia a sé, contava per Olmi ma non c’era una vera politica in quella direzione. Nei primi anni ’60, Genova fu invece un centro davvero importante: all’Italsider si facevano film aziendali, di promozione, sui prodotti… Io sceglievo i registi, i produttori invece venivano scelti dall’economico. Ma intorno al 1966 tutta la vicenda Italsider finisce: Roma non sopportava tanta autonomia.
Quando Savarese va via dall’Italsider, mette però su una società. Ne parliamo e nel ’68 vado a fare il consulente per Savarese. Roberto Rossellini l’avevamo già coinvolto varie volte per la presentazione dei film nelle varie sedi. La mia amicizia personale con Rossellini era iniziata a Bergamo, dove mi avevano chiesto di presentare India, che avevo difeso: per me era un film molto bello, mentre la critica ne aveva in genere parlato male. Così Rossellini aveva voluto conoscermi, poi era venuto qui al Ritz di Genova appositamente da Parigi per la prima genovese di La presa di potere di Luigi XIV: lo ospitammo al Colombia, ma quando andammo per pagare il conto scoprimmo che si era pagato tutto lui. Rossellini era così! Un incantatore di serpenti, ma anche una persona di una generosità spaventosa, gettava i soldi e non ne aveva mai.
A Savarese e Finsider venne l’idea di fare un film sulla storia del ferro e delle acciaierie. Ne parliamo con Rossellini che è subito entusiasta. Era nella sua fase “didattica”, cominciò subito a leggere centinaia di libri fin dall’epoca dei Fenici. Con la sua Alfa Romeo cominciammo così un giro nel sud, da Taranto a Brindisi, Siracusa, Augusta. Passammo in rassegna tutti gli stabilimenti e l’industrializzazione del sud, con una serie di visite e interviste, qualcuna filmata a 16mm, ma per lo più solo con registrazioni audio: dirigenti, assistenti sociali, magari il prete… Era con noi Mimmo Castellano, grandissimo fotografo. Visitammo un paese presso Taranto che era rimasto di colpo disabitato, perché erano andati tutti a lavorare all’Italsider. Poi risalimmo, andammo in Toscana, San Giovanni Valdarno. Girammo così per alcuni mesi, ma poi, come spesso capitava con Rossellini, non se ne fece nulla. Il film l’ha fatto poi Bertolucci per la tv.
Ho fatto tante cose fuori dalla Liguria, ovviamente. Il festival del cinema sportivo, ad esempio, nasce a Palermo, dove Edoardo Bruno insegnava all’università. Ricordando il mio interesse per lo sport come fatto culturale, quando viene via mi chiamano e prendo il mano il festival del cinema sportivo di Palermo, negli anni ’70 e ’80. Vinco il premio Bancarella sport col libro “Assi e divi” del 1981, poi con “Olimpia Olimpia” vinciamo il premio internazionale del Comitato Olimpico Internazionale, faccio anche con Ugo Casiraghi i quattro volumi del “Filmario dello sport”. Nel frattempo, mi chiamano a Montecatini, dove facevano il solito concorso per cineamatori ma si sentivano emarginati. Rovesciai il festival come una calzetta, inventai il festival del documentario ed è diventato internazionale.
Il festival del fumetto, invece, nasce a Bordighera, dove mi trovavo nel 1964 per il festival dell’Umorismo, in quanto c’era un convegno sulla commedia cinematografica. Io parlavo della commedia italiana, Luis Gasca di quella spagnola e così via. Alla sera, seduti sulle panchine fuori dal palazzo, viene fuori che da giovani c’eravamo occupati di fumetti e poi li avevamo abbandonati. Ci diciamo: facciamo un festival del fumetto! Volpicelli, dell’Università di Roma, fascista, preside della facoltà di pedagogia, era l’unico che credesse nel fumetto, e conosceva il sindaco di Bordighera. Coinvolgemmo Umberto Eco, che aveva appena pubblicato Apocalittici e integrati, e poi Albertarelli e gli altri. Io, Romano Calisi e Umberto Eco ci riuniamo spesso, nella casa di Eco al lago d’Orta. E il 21 febbraio 1965 s’inaugura il primo Salone internazionale dei Comics a Bordighera, che non aveva niente a che vedere col Salone dell’Umorismo. In quei giorni, sono a Parigi Al Capp (“Lil’ Abner”) e Lee Falk (“Mandrake”) e gli dicono: ma perché non andate in Costa Azzurra dove c’è il festival del fumetto? Arrivano a Bordighera l’ultimo giorno e trovano studiosi universitari, Alan Resnais, Francis Lacassin… Restano impressionati, così Al Capp quando torna in America va da Luce, di “Life”, e gli racconta del Salone. E “Life” gli commissiona un servizio, mettendo in copertina il nostro Salone di Bordighera!
Con quella copertina andiamo dal sindaco di Bordighera, chiedendogli di aumentare il budget. Ma il sindaco rifiuta. Volpicelli allora dice: ne parlo al sindaco di Lucca. Noi chiedevamo un milione e mezzo, quello ci mette a disposizione 3 milioni, mentre Bordighera non è disposta ad andar oltre 700mila lire. A quel punto siamo andati a Lucca e Bordighera ha perso il Salone dei Comics: e a Lucca sono andato avanti come direttore culturale per quindici edizioni, finché mi sono scontrato col sindaco nel 1988 e me ne sono andato.
A metà degli anni settanta, a Genova divenne sindaco Cerofolini, e come assessore alla cultura mise un vero intellettuale, Attilio Sartori, di cui ero amico da tempo. Sartori faceva parte del gruppo con cui, negli anni sessanta, ci si vedeva alla sera tardi, dopo il cinema o il teatro, presso l’edicola Tardini di via XX settembre, nello slargo dal ponte Monumentale dal lato del Margherita. Lì imperava Salvatore Rotta, il gallerista, ma anche Mauro Manciotti e altri: si parlava del film o dello spettacolo teatrale appena visto, si compravano le riviste, perché l’edicola aveva riviste straniere di cinema e di fumetti. Era un modo di vivere destinato a sparire dopo il ’68.
Prima di Sartori, i rapporti tra il Comune e il cinema erano stati per lo più occasionali. Con lui, s’impose un nuovo slancio culturale. Mi fece consulente, e non si trattava solo di organizzare manifestazioni: c’erano anche questioni più generali. Ad esempio, era il periodo della chiusura in massa dei cinema, e l’assessore al patrimonio era orientato a comprarli per evitare che diventassero garage e sparissero dalla vita cittadina. Mi chiesero un parere e io risposi che ero contrario: se li comprate, poi li dovete anche gestire… Cerofolini, invece, voleva aiutare la Cineteca Griffith di Humouda, ed infatti gli diedero Villa Gruber: anche in quel caso, però, ero contrario, perché la convenzione si basava su una mescolanza di pubblico e privato che non era affatto chiara.
Quanto alle iniziative, facemmo per tre anni Genova in celluloide, la prima volta con Marco Salotti, Marco Giusti ed Ester Carla De Miro, poi solo con Salotti: facemmo proiezioni, mostre, tre volumi di storia del cinema a Genova. La mostra venne poi portata anche a Odessa, quando fecero il gemellaggio con Genova. Poi ci furono le varie edizioni del Gergo inquieto e infine l’operazione del Giappone. Sartori mi chiese cosa pensavo di quel progetto che costava circa 600 milioni: gli dissi che mi sembrava un’idea eccellente, ma che avrebbero speso molto di più, e così fu. Per me però ne valeva la pena a patto di proseguire col Giappone anche negli anni successivi, in modo che fosse un investimento da sfruttare nel tempo: e invece, per l’anno dopo già parlavano dell’America Latina. Ma scoppiarono polemiche per lo sforamento del budget e non se ne fece più nulla.
Da anni, mi dedico insieme a Maria Novaro alla Fondazione Novaro, dove abbiamo una sezione cinema piuttosto ricca, perché vi ho portato tutte le mie collezioni. Oltre a libri e riviste, si tratta di manifesti, locandine, buste foto, cartoline pubblicitarie, schede promozionali, e poi tanti altri aspetti del “cinema di carta”, compresi i francobolli dedicati a personaggi cinematografici. Una parte importante è poi costituita dagli archivi di Gianfranco Angelucci, che quando ha chiuso la propria agenzia giornalistica “Triumpho”, attiva per molti anni in Spagna, ha deciso di donarmi buona parte dei suoi lavori fotografici realizzati a Cinecittà. Si tratta di migliaia di pezzi, tutti catalogati, che sono serviti in questi anni per realizzare una serie di manifestazioni: dalla mostra su Mario Soldati del 1990 a Imperia, a Il cinema di carta (1996), Cinematographica (2009) dedicata ai pressbook, oltre a mostre e pubblicazioni del festival di Borgio Verezzi, che per molti anni ha affiancato agli spettacoli teatrali un omaggio a un attore attivo sia al cinema sia a teatro.
A mio parere, il cinema va inteso nel modo più ampio possibile, non dev’essere solo quello dello spettacolo hollywoodiano, ma è qualcosa che ci permette di affrontare tutti i settori possibili e immaginari. E sono sempre stato attratto dagli ambiti meno frequentati. Il cinema industriale era considerato spazzatura in Italia, il documentario veniva a suo tempo emarginato, il cinema sportivo e i fumetti sembravano non avere dignità culturale. A me interessa il cinema come conoscenza, non solo lo spettacolo. Scoprire il mondo attraverso il cinema è una cosa che ti apre il cervello.
Ho sempre cercato di non chiudermi, di cambiare continuamente strada, di seguire la mia curiosità, sempre restando libero. A un certo punto, Ezio Gagliardo mi aveva offerto la direzione dei suoi tre cinegiornali, ma ho rifiutato per mantenere la mia autonomia. E ho sempre avuto la curiosità di andare a occuparmi delle cose che non interessano. Ad esempio, il mio intervento su cinema e fumetto a Bordighera è considerato il primo sull’argomento. Andare sempre contro la ritualità: da vecchio socialista mi fa piacere, perché si tratta di affrontarli e dargli dignità”.
Renato Venturelli, Claudio Bertieri in Biblioteca dell’egoista, 2022