A partire dal 1942 gli addetti all’ascolto scrissero rapporti sempre più allarmanti

Fonte: Amanda Antonini, op. cit. infra

 

Una scena di “Scipione l’Africano” – Fonte: Amanda Antonini, op. cit. infra

Di notevole importanza fu anche la radio, che trasmetteva i discorsi del Duce, oltre ai notiziari sportivi e ai programmi musicali, e che portò avanti una grande opera di persuasione verso la massa.
Quelli furono, infatti, i primi anni in cui si poteva parlare di una società di massa e quell’innovazione, rivestì grande importanza nella propaganda fascista.
Le trasmissioni radio, iniziarono nel 1924 con la creazione dell’Unione Radiofonica italiana (U.R.I.) dove, le notizie furono sottoposte a controllo e censura, e assunsero, poi, un carattere marcatamente fascista nel 1928.
I testi spesso erano redatti dallo stesso Mussolini, il quale richiese che “venissero scelti annunciatori con una voce e una cadenza simili alle sue”. I primi conversatori furono scelti tra i più noti conferenzieri, ma ben presto ci si accorse che la retorica verbosa e tribunizia poco si confaceva alla brevità dei tempi e alla sintesi della comunicazione radiofonica. Gli stessi toni squillanti incontravano il limite invalicabile del microfono: si doveva calibrare la distanza per evitare rumori, fruscii, sibili o imbarazzanti pause (15)
L’anno successivo l’U.R.I. evolse in Ente Italiano Audizioni Radiofoniche (EIAR) e fu creato il “Giornale Radio”, un radiogiornale che rivisitava i fatti del giorno in ottica fascista e che si ripeteva a intervalli regolari durante l’intera giornata. Quando, nell’ottobre 1922, Mussolini salì al potere, l’Italia era, quanto allo sviluppo di una rete radiofonica nazionale, sensibilmente indietro rispetto agli altri paesi. Non era stata ancora costruita alcuna emittente che funzionasse continuamente, e la radiofonia restava, in buona parte, nella fase sperimentale.
Il fatto che, nella penisola, la radio si sviluppò pressoché per intero durante il periodo fascista rese a Mussolini relativamente facile porre questo importante mezzo di comunicazione sotto il suo pieno controllo (erano gli stessi anni in cui si consolidava il suo potere politico sullo Stato Italiano).
Una volta superate le esitazioni iniziali, il regime fece il suo ingresso nel campo delle comunicazioni radiofoniche con ponderato entusiasmo, e cominciò a scorgere le più vaste implicazioni del nuovo strumento.
Mussolini parlò alla radio per la prima volta il 4 novembre 1925 dal Teatro Costanzi di Roma; molti cuori vibrarono di commozione al sentire la voce stessa del Duce.
Alla fine del 1928 erano ormai presenti in Italia tutti i prerequisiti essenziali per il funzionamento di una rete radiofonica nazionale. I poteri di controllo fondamentali, quelli concernenti la selezione e la distribuzione del materiale da trasmettere, erano nelle mani dello Stato.
Vennero messe in funzione cinque stazioni trasmittenti (a Roma, a Napoli, a Bolzano e a Genova), le quali produssero, tra programmi d’intrattenimento e notiziari, un totale annuale di oltre seimila ore di trasmissione, ovvero diciassette ore al giorno.
In quegli anni il maggiore trionfo di Mussolini in fatto di oratoria radiofonica fu il discorso sulla battaglia del grano (10 ottobre 1926), che fu udito simultaneamente in tutto il paese (16) Con sei trasmissioni quotidiane, di lunghezza compresa tra i dieci minuti e la mezz’ora, il Giornale Radio dava succintamente conto degli avvenimenti internazionali, dei progressi del regime e delle attività dei gerarchi più in vista.
Il regime comprese presto l’efficacia di questa tecnica nel risvegliare l’interesse dell’ascoltatore, come anche la sua potenziale utilizzabilità politica. Mediante questo semplice espediente, il regime fu in grado di introdurre la politica direttamente nelle case di tutti gli italiani.
Nello stato totalitario la radio ebbe il compito di stringere insieme il popolo italiano, mediante comuni ideali e una comune esperienza culturale: non doveva diffondere stupide canzonette di gusto discutibile, ma assolvere, in modo piacevole, una funzione educativa; infatti, fin dall’inizio, il pubblico dei bambini (soprattutto nell’età compresa tra i 7 e i 12 anni) costituì l’obiettivo specifico di una parte importante della programmazione quotidiana, mostrando il carattere educativo e ricreativo del mezzo radiofonico (17). In breve tempo, ogni stazione radio ebbe il suo programma pomeridiano speciale per ragazzi, vennero realizzati sceneggiati radiofonici che rievocavano momenti di una storia d’Italia ridotta ad aneddoto o leggenda, si cantarono le glorie del regime e si documentarono gli sforzi di modernizzazione del paese e la sua forza bellica.
Il numero dei possessori di apparecchi radiofonici restò, però, piuttosto limitato a causa dell’obbligo di versare un canone annuale di abbonamento all’EIAR […] Nei centri più importanti, dove la maggior parte delle aule era fornita di un apparecchio radio, i programmi erano trasmessi alle scuole medie e ai licei direttamente dall’Eiar.
Non solo si decise di investire nelle campagne a partire dall’educazione primaria; un altro espediente a cui si ricorse per estendere l’ascolto della radio fu l’installazione di “uditori collettivi” in quei luoghi strategici in cui i contadini si incontravano nei loro momenti di riposo. Per ovviare alla difficoltà degli italiani ad acquistare una radio fu anche offerta la possibilità di acquistare una “radio balilla” a rate.
Nonostante gli sforzi compiuti inizialmente per adattare la forma e il contenuto di questi programmi al livello d’istruzione degli studenti, lungo tutti gli anni Trenta le trasmissioni destinate alle scuole restarono rozze e semplicistiche […]
Portando ai meridionali la propaganda cinematografica, i fascisti speravano di vincere il sentimento d’isolamento dominante in quelle regioni e al tempo stesso di dimostrare l’interesse del governo per il Mezzogiorno.
Dagli anni 30 la cinematografia fu direttamente gestita e controllata dallo Stato: il R.D.L. del 1934 devolveva al Sottosegretariato per la stampa e propaganda, diretto allora da Galeazzo Ciano, le attribuzioni di vigilanza sulle pellicole cinematografiche e a capo della Direzione Generale per la Cinematografia veniva posto Luigi Freddi con l’incarico di “fascistizzare”.
Nel 1935 nacque, su volere dell’istituto LUCE, una casa di produzione e distribuzione nazionale: l’Ente Nazionale Industrie Cinematografiche (ENIC), che si occupava anche della regolazione del numero di film stranieri che venivano importati in Italia; la legge Alfieri, del 1938, diede allo stato il monopolio sull’acquisto e la distribuzione dei film stranieri e costituì la manifestazione più concreta del desiderio fascista di purificazione interna, inoltre, nuovi sussidi governativi per i film nazionali fecero raddoppiare la produzione (23).
Questo piano portò il patrocinio e il controllo cinematografico entro la giurisdizione di un solo ufficio e istituì una politica di censura preventiva che rese la collaborazione tra cineasti e regime un dato scontato. Il nuovo sistema di precoce intervento diede ai funzionari fascisti la possibilità di agire sul soggetto, i dialoghi, gli interpreti e il personale tecnico dei film.
Attraverso Freddi, passato alla storia come eminenza grigia del cinema di regime, si diede inizio all’opera di propaganda sfruttando il cinema di stato. Nacque l’idea di Cinecittà, che Mussolini inaugurò nel “Natale di Roma” del 1937 (24).
Se poi, prima dell’entrata in guerra nel giugno del 1940, l’interesse del governo per il cinema di fiction era pressoché nullo, in seguito si accorse che gli italiani, quando non erano interessati ai bollettini di guerra, si distraevano con i film del genere detto dei “telefoni bianchi”. Questi film si rivelarono non meno importanti per i progetti fascisti di trasformazione collettiva, data la loro potenzialità di convogliare messaggi politici in modo impercettibile che li rendeva strumenti ideali di propaganda. Come commentò un critico, essi consentivano di «imporre con la maggiore suggestione una particolare visione della vita e del mondo ad una sterminata moltitudine di persone, quasi a loro insaputa, mentre credono di concedersi un’ora di innocente svago»(25).

Uno dei film più famosi fu Scipione l’Africano di Carmine Gallone, il massimo sforzo del regime sullo schermo: richiese l’impiego di ben cinquantasette interpreti principali, tutti italiani naturalmente, e, per le enormi spese, fu ribattezzato “Sciupone l’Africano” (26). Il genere documentario e quello di divulgazione scientifica restarono la punta di diamante del LUCE e, infatti, erano tra i migliori del mondo ed erano molto richiesti. Questo spinse a un maggior impegno sulle immagini e sulla ricerca di nuovi modi per proporre le notizie e la propaganda, in maniera più convincente e appetibile al pubblico.
Con la guerra il lavoro si nazionalizzò e si specializzò: il LUCE organizzava i servizi con propri operatori di guerra, inviandoli sul campo di battaglia, al contrario degli anglo- americani che dotarono ogni reparto di una macchina da presa e apparecchiature fotografiche usate dai soldati stessi.
Documentari che furono spesso censurati dal Ministero della Cultura Popolare perché screditavano l’immagine dell’Italia. Il LUCE aveva, infatti, il compito, impostogli da Mussolini, di mostrare al pubblico immagini di una guerra facile, non traumatica e facilmente sopportabile per le nostre truppe; una guerra ben lontana dalla realtà […]
Mussolini capì subito l’importanza della Stampa per affermare il suo potere.
Il primo importante giro di chiave che il fascismo diede al mondo della stampa e della libera circolazione delle idee fu nel 1924: si trattò di un decreto-legge nel quale si dispose che i responsabili di un giornale potessero essere sempre denunciati da un prefetto, specie se ritenuti colpevoli di danneggiare relazioni internazionali o intralciare in qualche modo l’azione diplomatica governativa.
Nei casi in cui i censori richiesero una revisione, si trattava generalmente di interventi graduati; vale a dire, essi andavano dalla richiesta di tagliare un paio di righe, alla rimozione di un personaggio o di una scena considerati diffamatori nei confronti dello stato o di alcuni suoi organi, quali l’esercito, all’eliminazione di un atto o un episodio, fino alla completa bocciatura di una sceneggiatura o di un romanzo (27).
È difficile indicare con precisione quanto tempo ci volle per fascistizzare la stampa italiana, ma alla fine del 1926 il processo era ormai quasi completato.
Mussolini illustrò le sue idee sul ruolo della stampa in un discorso pronunciato il 10 ottobre 1928 dinanzi ad un’assemblea di sessanta editori di giornali. Egli annunciò che il giornalismo più che professione o mestiere, diventava missione di un’importanza grande e delicata, poiché nell’età contemporanea, dopo la scuola che istruiva le generazioni che montano, era il giornalismo che circolava tra le masse e vi svolgeva la sua opera d’informazione e di formazione (28).
Una volta al potere, tre problemi generali si posero a Mussolini in materia di stampa: assumere il controllo dei giornali non-fascisti o portarli ad appoggiare il regime; schiacciare i residui fogli di opposizione; e, infine, imporre l’autorità assoluta dello Stato sulla stessa stampa fascista, la quale assumeva non di rado posizioni contrastanti con quelle del Duce.
Nei primi anni del regime la stampa fu sottoposta a un controllo formale: Mussolini acquistò i maggiori giornali italiani per portare avanti il suo progetto teso ad accrescere il consenso intorno al regime.
Con le Leggi Fascistissime e quelle del 31 dicembre 1925, Mussolini dispose che ogni giornale avesse un direttore responsabile inserito nel partito fascista, nell’Ordine dei Giornalisti e che il giornale stesso, prima di essere pubblicato, fosse sottoposto al controllo dell’Ufficio Stampa, che nel 1937 fu trasformato in Ministero Della Cultura Popolare (Min. Cul. Pop.).
Questo Ministero aveva l’incarico di controllare ogni pubblicazione sequestrando tutti quei documenti ritenuti pericolosi o contrari al regime e diffondendo i cosiddetti “ordini di stampa” (o “veline” così chiamate perché battute a macchina sulla sottilissima carta da copia che consentiva di redigere più doppioni contemporaneamente), con i quali s’impartivano precise disposizioni circa il contenuto degli articoli, l’importanza dei titoli e la loro grandezza.
Gli editori ricevettero delle lettere dagli uffici di polizia, nelle quali si richiedeva di inviare alla prefettura tre copie di tutte le opere: libri, riviste, opuscoli, che si proponevano di pubblicare, e che avrebbero dovuto aspettare la concessione di un nulla osta (29).
A capo di questo Ministero fu posto Galeazzo Ciano, che poi diventò Ministro degli Esteri e che s’interessò anche dei mezzi di comunicazione di massa, cioè la radio e il cinema.
Il Min. Cul. Pop., oltre a controllare le pubblicazioni, si pose come obiettivo quello di suscitare entusiasmo intorno alla guerra e di esaltare il mito del Duce.
Mentre milioni di soldati italiani partivano per il fronte, vennero varate nuove politiche che miravano a estendere il controllo dello stato sulla cultura e i mezzi di comunicazione e a ribadire il ruolo-guida nella sfera culturale della Nuova Europa rivendicato dall’Italia.
Il compito più immediato fu quello di gestire la presentazione e la ricezione della guerra e manipolare la posizione dell’opinione pubblica nei riguardi degli alleati e dei nemici del paese; il Min. Cul. Pop. si riservò l’autorità di controllare tutto ciò che gli italiani ascoltarono, videro o lessero in quegli anni (30).
I “cavalli di battaglia” della stampa di quegli anni riguardarono temi e argomenti cari al Regime, come il mito della romanità, quello del giovanilismo dello stato fascista, il corporativismo, il dopolavoro, le bonifiche, le colonie, il progresso tecnologico, il ritorno alla terra, il turismo, i modelli urbanistici degli anni Trenta, la maternità e la famiglia […]
Fra il 1934 e il 1935, il controllo politico della stampa e degli altri mezzi di cultura popolare fu meglio definito e istituzionalizzato da una serie di leggi e decreti, i quali aumentavano l’autorità e il potere del Sottosegretariato.
Sebbene queste misure riuscissero, in linea generale, a fare del corpo dei giornalisti un servitore fidato del fascismo, il regime non arrivò mai a esercitare sui giornalisti italiani un’autorità assoluta.
Verso la fine del settembre 1934, Mussolini istituì una nuova Direzione Generale per la Cinematografia e, in novembre, una Direzione Generale per il Turismo. Il mese seguente fu creata una commissione per la Vigilanza sulle Radiodiffusioni e, nell’aprile del 1935, un Ispettorato del Teatro. Questi settori, che prima erano di competenza dei ministeri degli Interni, delle Corporazioni e dell’Educazione Nazionale, passarono sotto la giurisdizione del nuovo Sottosegretario.
Questi sviluppi furono decisivi per l’avvenire della politica culturale del fascismo. Le nuove direzioni generali, rendendo possibile un maggiore inquadramento della cultura nazionale, avvicinarono il regime alla realizzazione delle ambizioni totalitarie.
Il riconoscimento della necessità di controllare i mezzi di comunicazione di massa dominò la politica culturale fascista per tutto il decennio seguente e la cultura popolare diventò il tema fondamentale di quella politica […]
La funzione fondamentale del Ministero era così riassunta: tutto ciò che si presentava alle masse attraverso giornali, libri, radio, teatro e cinema doveva essere governato da un chiaro e sincero spirito fascista […]
A partire dal 1942 gli addetti all’ascolto scrissero rapporti sempre più allarmanti, il malcontento si trasformò in disperazione. Tutto il sistema cominciò ad essere messo in discussione, mentre da alcune relazioni cominciava ad emergere la nuova consapevolezza che le sofferenze erano il frutto della soppressione della libertà. Si soffriva perché si doveva subire una guerra imposta dal capriccio di un uomo a un popolo non più libero di decidere […]

15 G. Isola, Abbassa la tua radio, per favore… Storia dell’ascolto radiofonico 
nell’Italia fascista, La Nuova Italia editrice, Scandicci (Firenze) 1990, p.45-50
16 G. Arcangeli, La cattura della ragione. Aspetti della propaganda fascista, 
Nuova Spada Editrice Roma, 1979, p. 78
17 G. Isola, Abbassa la tua radio, per favore… Storia dell’ascolto radiofonico 
nell’Italia fascista, La Nuova Italia editrice, Scandicci (Firenze) 1990. P. 114
23 R. Ben-Ghiat, La cultura fascista, Il Mulino, Bologna, 2000, p. 227
24 R. Ben-Ghiat, La cultura fascista, Il Mulino, Bologna, 2000, p. 142
25 Id, La cultura fascista, Il Mulino, Bologna, 2000, p. 122
26 G. Arcangeli, La cattura della ragione. Aspetti della propaganda fascista, 
Nuova Spada Editrice Roma, 1979, p. 84
27 D. Forgacs, S. Gundle, Cultura di massa e società italiana 1936-1954, Il Mulino, 
Bologna, 2007, p.310
28 G. Arcangeli, La cattura della ragione. Aspetti della propaganda fascista, 
Nuova Spada Editrice Roma, 1979, p. 71
29 D. Forgacs, S. Gundle, Cultura di massa e società italiana 1936-1954, Il Mulino, 
Bologna, 2007, p. 315
30 R. Ben-Ghiat, La cultura fascista, Il Mulino, Bologna, 2000, p. 284

Amanda Antonini, Il potere della comunicazione tra regime e resistenza, Tesi di laurea, Università degli Studi di Pisa, Anno Accademico 2017-2018