A Parigi andavamo a spasso parlando di cose da scrivere

L’opera narrativa di Gianni Celati (Sondrio, 1937) sembra sottrarsi, quasi per definizione, a qualsiasi tentativo di lettura complessiva che pretenda di sintetizzarne i diversi aspetti, talora divergenti e non facilmente componibili, all’interno di un discorso unitario.
In effetti, come Guido Almansi ebbe modo di osservare, si tratta d’uno scrittore che appare quasi sdoppiato in due autori diversi e fortemente caratterizzati, il cui profilo corrisponde alle due ‘fasi’ in cui la sua opera si è venuta articolando: alla fase iniziale, caratterizzata da una straordinaria inventività ed esuberanza linguistica, succede, come noto, una seconda fase, aperta dal nuovo esordio rappresentato da Narratori delle pianure (1985) e votata, direi programmaticamente, ad una scelta di ‘prosciugamento’ verbale e stilistico, ad una scrittura rarefatta e sospesa, che sembra scaturire – come ha osservato Filippo La Porta – da una modalità di «depurazione dello sguardo».
Ma sarà opportuno osservare, a questo proposito, come la ‘svolta’ celatiana degli anni Ottanta non riguardi solo il piano stilistico ma anche quello contenutistico: Celati passa infatti dalla rappresentazione ossessiva di spazi reclusivi e separanti, in cui sono relegati i protagonisti borderline dei suoi primi libri (almeno fino al Lunario del paradiso), ad una focalizzazione che, grazie all’incontro determinante con il fotografo Luigi Ghirri, mette al centro gli spazi aperti della Pianura e, quindi, la scoperta del paesaggio come luogo di un’esperienza sostanzialmente liberatoria, che sottrae il soggetto alla chiusura e all’oppressione degli spazi eterotopici. In questo modo, se da una parte Celati riconferma la propria fedeltà al tema spaziale, dall’altra lo declina in forme nuove e diverse, realizzando una sorta di discontinuità nella continuità. Così nelle parole di Marina Spunta:
“La fine degli anni Settanta in Italia segna uno scarto generazionale e socioculturale, nel passaggio da un impegno politico forte […] al disimpegno del postmoderno, e nel mutamento del sistema artistico-letterario, che riflette il passaggio dal dibattito teorico concettuale alla rinascita delle narrazioni e delle descrizioni di paesaggio. Il cambio di decade rappresenta una vera e propria cesura anche nella poetica di Ghirri e Celati che, sensibili al mutamento culturale, passano da un’intensa teorizzazione e sperimentazione di forme ad una maggiore apertura verso la narrazione dello spazio esterno”. <2
Come ho detto, si tratta di una liberazione che si realizza nella scelta dell’aperto, nell’abbandono alla «osservazione intensa del mondo esterno», <3 nell’erranza che porta a percorrere gli spazi fuori di noi, ad «aprire il senso della meraviglia su un paesaggio», <4 scoprendo, come vedremo, che non vi è in realtà alcuna separatezza tra interno ed esterno, e che l’atto del pensare si realizza compiutamente proprio nell’adesione a questo ‘esterno’, in quell’andare verso che funziona, nello stesso tempo, come esplorazione dello spazio e come superamento della condizione reclusiva, angosciata e monologante, nella quale si dibattono i ‘comici’, lunatici e scombinati personaggi dei primi romanzi di Celati.
È dunque innegabile che si tratti di una figura di scrittore in cui si moltiplicano i segni della contraddizione: se è vero – come osserva Marco Belpoliti – che Celati è «il più letterario tra tutti gli scrittori italiani contemporanei», è parimenti vero che è anche «quello che da cinquant’anni mette in discussione le mitologie, le cerimonie, i riti individuali e collettivi della letteratura». <5 Una letteratura che funziona per Celati come ancoraggio all’esistenza e come modo di ‘scioglimento’ dei blocchi fisici ed emotivi, e che appare, proprio per questo, del tutto svincolata dai compiti e dalle funzioni sociali che nel mondo moderno le vengono fin troppo spesso assegnate. Si vedano, al riguardo, le seguenti considerazioni dello scrittore, tratte da una lettera a Massimo Rizzante del 1995:
“Quando, nell’ultima lettera, le dicevo che non me la sentivo di “fare lo scrittore” né mi sentivo di esserlo, volevo dirle che ci sono tante altre vie nella vita, oltre a quelle più stromabazzate. La letteratura come fatto istituzionale, come campo di privilegio sociale, come gara di reputazioni critiche tra “scrittori”, per me non conta niente. Non per disprezzo, ma per lo stesso motivo per cui non conta niente, ad esempio, una squadra di baseball in Nuova Zelanda”. <6
Basta questo, forse, per comprendere come la letteratura (la pratica letteraria) assuma per Celati il valore primario di un’esperienza, di un bisogno, di una necessità, che non è solo individuale ma anche sociale, esposta cioè al confronto, alla condivisione con gli altri: «[…] possiamo anche essere soli, ma siamo sempre con gli altri – essere al mondo vuol dire essere con gli altri dall’inizio alla fine. Anche se sono su un’isola deserta, gli altri sono sempre con me in una trama che determina i miei gesti, i miei atteggiamenti, quello che voglio e quel che non voglio». <7
Ora, tra i numerosi altri con cui Celati si è trovato a confrontarsi, un posto speciale lo occupa Italo Calvino, lo scrittore affermato e riconosciuto di cui Celati fu amico e, almeno per un tratto, compagno di strada. Pur con fasi alterne, non esenti da momenti di incomprensione e di allontanamento, quello con Calvino resterà per Celati un rapporto essenziale e insostituibile, come testimonia, tra l’altro, lo scritto Morte di Italo, ora leggibile nel monografico di «Riga» dedicato a Calvino, <8 che è una commossa, partecipata rievocazione della figura dell’amico scomparso. Ma è lo stesso Celati a ricordare le fasi di questa amicizia, parlando di un vero e proprio «sodalizio» e individuando, nello stesso tempo, nell’avvicinamento alla semiologia da parte di Calvino la ragione di un parziale, temporaneo allontanamento tra lui e l’amico di sempre:
“Se c’è stato questo sodalizio fra me e Calvino, credo sia nato da una simpatia comune per certi libri. Ad esempio Ariosto e la letteratura cavalleresca, e poi i romanzi settecenteschi inglesi, e poi Swift e Defoe, fino a Beckett, che Calvino onorava molto […]. A quei tempi, tra il 1968 e il 1970, a Parigi, andavamo a spasso parlando di cose da scrivere, e lui come fantasticatore a ruota libera era eccezionale, gli bastava uno spunto e partiva a raccontarti una storia. […] Senza di lui non mi sarei mai messo a scrivere. È stato lui a scoprire su una rivista i primi brani di quello che sarebbe diventato Comiche; è stato lui a propormi di farne un libro per una collana di Einaudi; è stato lui a sollecitarmi a scrivere. […] Dopo tanto chiacchierare, quello che ci ha un po’ separati è stata la sua scoperta della semiologia. La semiologia a me è sempre sembrata come un boccone che ti resta in gola, e produce molta salivazione ma poche immagini, e non ti permette mai di abbandonarti a quello che è fuori di te”. <9
Dichiarazione davvero importante, e anche decisiva, in quanto mette in luce uno dei tratti fondativi della poetica e della scrittura di Celati: una innata diffidenza verso la letteratura meta-letteraria, una letteratura di secondo grado che si chiude, fino a inaridire, nel laboratorio asettico delle sperimentazioni e delle formule semiologico-strutturalistiche, cui si contrappone, appunto, l’esperienza di ciò che «è fuori di te», l’esperienza dell’aperto e del sentito dire, della deriva spaziale e dell’incontro con l’altro.
Tutti aspetti su cui avrò modo di tornare nelle pagine a seguire, non prima di avere evidenziato, però, le tracce di una possibile poetica sottesa alla scrittura multiforme e apparentemente divergente di Gianni Celati.
2 M. SPUNTA, Ghirri, Celati e «lo spazio di affezione», in «Il lettore di provincia», XXXVI, n. 123-124, 2005, pp. 27-39: 29.
3 G. CELATI, Verso la foce (1989), in G. CELATI, Romanzi, cronache e racconti, a cura di M. Belpoliti e N. Palmieri, Milano, Mondadori («I Meridiani»), 2016, p. 988.
4 ID., Il narrare come attività pratica, citato in M. SIRONI, Geografie del narrare. Insistenze sui luoghi di Luigi Ghirri e Gianni Celati, Reggio Emilia, Diabasis, 2004, p. 57.
5 M. BELPOLITI, Gianni Celati, la letteratura in bilico sull’abisso, in G. CELATI, Romanzi, cronache e racconti, cit., pp. XI-LXXII: XI.
6 La lettera citata si legge ora in M. RIZZANTE, Il geografo e il viaggiatore: lettere, dialoghi, saggi e una nota azzurra sull’opera di Italo Calvino e di Gianni Celati, [Milano], Effigie, 2017, p. 11.
7 ID., Sulla Fantasia, il Badalucco e la Contentezza. Dialogo con Gianni Celati, ivi, pp. 66-86: 75.
8 G. CELATI, Morte di Italo, in M. BELPOLITI (a cura di), Italo Calvino. Enciclopedia: arte, scienza e letteratura, in «Riga», 9, Milano, Marcos y Marcos, 1995, pp. 204-208.
9 M. RIZZANTE, Sulla Fantasia, il Badalucco e la Contentezza, cit., p. 76.
Bruno Mellarini, Tra spazio e paesaggio. Studi su Calvino, Biamonti, Del Giudice e Celati, Tesi di laurea, Università degli Studi di Trento, anno accademico 2018-2019, pp. 242-245